Pier Paolo Pasolini: appunti per una resurrezione

“Così, i miei consigli saranno di folle moderato.
Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza:
l’ambiguità importa fin che è vivo l’Ambiguo.”
Pier Paolo Pasolini, Comunicato all’Ansa (Propositi), in Trasumanar e organizzar (1971)

Nell’anno della sua morte, come “Nota introduttiva” all’edizione degli Scritti corsari, Pasolini avvisava “La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti (o altrimenti accepire le ripetizioni come delle appassionate anafore)”[1].

Cose che si possono fare, in alternativa alle sedute a base di Spritz Campari, di fronte a un reale sempre più complesso e stratificato:

  1. Nuotare nell’impotenza, fra malumori, lacrime, rabbie trattenute, grida o con sacra ingenuità rassegnarsi a ciò che accade oppure rinchiudersi nel sovrannaturale;
  2. Sfidare l’onnipotente, e agire con forza sulle circostanze, confidando nel vigore delle proprie idee e nella inveterata distinzione fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Oppure, e ora si tratta di schivare l’elenco, si può trarre in inganno il paradigma. Evadere dalla gabbia delle definizioni, abbracciare un principio di non-esaustività, svicolare dalle asserzioni. Eludere il paradigma, come sosteneva Barthes durante il suo corso al Collège de France del 1977-1978 sul Neutro, “è in definitiva una protesta che consiste nel dire: mi importa poco sapere se Dio esiste o no; ma ciò che so e che saprò fino alla fine è che egli non avrebbe dovuto creare nello stesso tempo l’amore e la morte. Il Neutro è questo No irriducibile: un No come sospeso davanti agli indurimenti della fede e della certezza e incorruttibile da parte dell’una e dell’altra”. Contro ai discorsi dogmatici di verità e/ma lontano dal ritiro individualistico del noli me tangere: si tratta di partecipare alle lotte del proprio tempo cercando il proprio stile di presenza, come scriveva Barthes. È un mandato che riguarda lo scrittore tanto quanto il lettore, e che Pier Paolo Pasolini ha incarnato fino alla fine, senza mai organizzarsi in un canone ma ogni volta entrando nei codici per disattenderli.

Quattro anni prima di morire – è il 1971 – Pasolini pubblica il suo ultimo libro di poesie Trasumanar e organizzar. Complessa, sfaccettata, informe: è difficile afferrarla, questa raccolta, impacchettarla e offrirne un senso consumabile. Fare ciò vorrebbe dire considerare solo il secondo termine del titolo, organizzar, rendere organico, allora pratico, funzionale. Vorrebbe dire non considerare l’endiadi, la congiunzione che snatura il paradigma,  ovvero l’opposizione fra trascendenza e immanenza. Seguendo R. Barthes, secondo cui il paradigma “è l’opposizione di due termini virtuali di cui ne attualizzo uno, per parlare, per produrre senso”[2], in questa sede cercheremo, attraverso le figure pasoliniane, di “eludere il paradigma”, di scartare la logica inveterata sia della lotta servo-padrone, in cui prevale una figura grazie all’opposizione con l’altra, sia della sintesi (siamo oggi troppo confusi e attoniti per credere davvero a un cammino progressivo). Non tenteremo qui di porre luce su alcunché. Piuttosto coglieremo l’occasione dell’anniversario della morte di Pasolini per tentare il miracolo: far risorgere l’Ambiguo. Come prescrive l’atto di magia, non useremo argomentazioni razionali, procedimenti logici: procederemo per impressioni, lampi, presentimenti a uso di formulari. Con una contraddizione – altrimenti saremmo solo dei maghi, e pure di dubbio gusto: forniremo immagini con il preciso intento di lasciare al lettore il gravame di far valere la sua ragione, e di articolare quindi lui stesso queste figure in un discorso tutto suo. In ciò sta, a nostro parere, lo scandalo dell’ambiguo: nell’obbligare chi lo afferra a tradurlo col proprio lume. Dobbiamo ricordare un morto, quindi provare a farlo rivivere in noi, ora. 

“Mi ci è voluto il cinema per capire una cosa estremamente semplice, ma che nessun letterato sa. Che la realtà si esprime da sola; e che la letteratura non è altro che un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente presente”, così scriveva Pasolini nel saggio del 1966 “La fine dell’avanguardia”, poi raccolto in Empirismo eretico. L’autore proseguiva, poco dopo, facendo riferimento a un’intervista di Barthes in cui il semiologo definiva come “fatalità” la ricerca umana di un senso:  “Sospendere il senso: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore”[3]. E, più avanti, riferendosi al teatro di Brecht, concludeva: “C’è senz’altro […] un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda”[4]. Organizzare, dotare di organi vitali, la pagina scritta con la lingua vuol dire anche trascenderla, portarla in un altro spazio, perché “il romanzo, come intende Barthes, è al di là della frase. […] È il sentimento dell’altrove che crea nella realtà il romanzesco e nella letteratura il romanzo”[5]. Lo spazio però, quella città invisibile a cui rimanda la pagina, è una costruzione a cui scrittore e lettore collaborano insieme. Nessun referente può essere dato dalla scrittura, perché la realtà parla già da sola. All’interprete spetta di integrarla, metaforicamente e metonimicamente, per corrispondenze e per parti.

Emblema empirico di questo scarto, del salto in un luogo altro, è lo sceno-testo, la sceneggiatura, considerata da Pasolini come un’opera assolutamente compiuta in sé stessa proprio nel suo rimandare a un film che può non realizzarsi mai (se ne contano svariate, di sceneggiature pasoliniane mai seguite da un passaggio filmico, così come di “Appunti per un film”, abbozzi, riprese-studio che rimandano a una versione definitiva che non arriverà mai), nella sua sostanza di struttura letteraria in movimento. Pasolini entra in un genere, per scandalizzarlo. In Empirismo eretico scriveva “La caratteristica principale del ‘segno’ della tecnica della sceneggiatura, è quella di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato secondo la strada normale di tutte le lingue scritte e specificamente dei gerghi letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato, rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi. Ogni volta il nostro cervello, di fronte a un segno della sceneggiatura, percorre contemporaneamente queste due strade. […] In altre parole, l’autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza ‘visiva’ che esso non ha, ma a cui allude.”[6]

A differenza del romanzo, o della poesia, dove la collaborazione del lettore è implicita ma non scontata – in cui non esiste una sola interpretazione ma chi legge può scegliere di affidarsi totalmente alla parola scritta, e non operare alcuno sforzo, alcun guizzo – nella sceneggiatura invece il salto è programmatico, prescritto dal codice stesso.

“Non solo dunque il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma ‘una volontà della forma a essere un’altra, cioè coglie la forma in movimento […] Ciò che è più importante notare è che la parola della sceneggiatura è, così, contemporaneamente il segno di due strutture diverse, in quanto il significato che esso denota è doppio: e appartiene a due lingue dotate di strutture diverse”[7]. Non si tratta di un passaggio evolutivo, da uno stadio A a uno stadio B; la temporalità è da escludersi, si tratta solo di spazi, di luoghi diversi. Uno è quello del segno linguistico, l’altro quello dell’immagine in movimento. Sono due luoghi compresenti e il secondo non nasce dal primo, è già lì, nell’immaginazione di chi scrive e di chi legge. Si tratta di una struttura, quella della sceneggiatura, che “si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica, quella della narrativa, a un’altra struttura stilistica, quella del cinema, e, più profondamente, da un sistema linguistico a un altro”[8]. Ci troviamo così a che fare con “una vera e propria volontà di movimento, la volontà dell’autore che designando i significati di una struttura linguistica come i segni tipici di quella struttura, nel tempo stesso designa i significati di un’altra struttura”[9].

Il 26 dicembre 1964 la rivista “Rinascita” pubblica un articolo di Pasolini dal titolo Nuove questioni linguistiche. L’autore annuncia che “è nato l’italiano come lingua nazionale”[10]. Il linguaggio padronale, la koinè di tradizione letteraria, latina, umanistica, della vecchia borghesia è sostituita da un linguaggio tecnocratico, aziendale, semplificato. A differenza di tutte le stratificazioni che la koinè italiana ha conosciuto nel corso della sua storia, “la nuova stratificazione linguistica, la lingua tecnico-scientifica, si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi[11]. Il prodotto del boom economico è una classe dominante infine egemone, padrona di una lingua semplificata e altamente comunicativa, in cui la sfumatura sinonimica, le allocuzioni concorrenti risultano altamente antieconomiche. In questo paradigma, l’ambiguità dello scrittore, qui ancora intesa come “lotta del letterato”, “è l’espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.[12]

In questo quadro, secondo Pasolini, l’espressività letteraria che come una serpentina svicola la norma, sospende il canone, muovendosi verticalmente dall’altissimo al bassissimo, determinando una complessità che favorisce la partecipazione attiva del lettore e un suo completamento interpretativo, risulta essere l’unica arma eversiva, di lotta, in mano allo scrittore. Questo deve continuamente cercare forme espressive capaci di smuovere e incrinare l’incontestabilità della tecnica e l’assolutismo della sua lingua, il cui rischio estremo è una nevrosi afasica. O le operazioni distruttivo-oppositive dell’avanguardia, che ormai rappresentano solo l’altro termine del paradigma, e sono per questo costrette presto ad essere assimilate dal codice preponderante, ora davvero nazionale.

Di fronte a un’egemonia culturale tecnocratica, che per di più si rafforza nella contrapposizione con le forze più dichiaratamente antagoniste, la scelta di Pasolini sarà quella di difendere provocatoriamente i poliziotti nei fatti di Valle Giulia. Mal compreso dalla maggior parte dei suoi contemporanei, anche questa volta l’intellettuale ha scelto l’ambiguità, il Neutro inteso barthianamente come ardore sovversivo, come No alle assolutizzazioni. “Spero che l’abbiate capito / che fare del puritanesimo / è un modo per impedirsi / un’azione rivoluzionaria vera.”[13]

Nel 1959, anticipatamente rispetto a queste considerazioni, Pasolini scrive su commissione una sceneggiatura, La nebbiosa, ambientata a Milano, durante la notte di capodanno. Protagonista: una banda di teddy boys, crudelmente violenta, che passerà l’intera nottata tra furti, aggressioni e risse. L’alba, la fine, vedrà la morte del Teppa, unico personaggio sorridente, l’unico innamorato, ucciso da un colpo di rivoltella scappato al bambino Cino, fratello del capobanda. La norma linguistica delle didascalie, che per il genere imporrebbe una scrittura minima, meramente denotativa, una sintassi paratattica, l’utilizzo esclusivo del presente indicativo, un’aggettivazione ridotta allo stretto necessario, un lessico non marcato, l’assenza di monologhi interiori e scavi nella mente dei personaggi (non si deve percepire la voce dell’autore!), è sospesa. Pasolini riecheggia continuamente, attraverso una forte aggettivazione, l’uso di un linguaggio figurato (abbondano metafore, catacresi, similitudini) e un’attenta discesa nell’interiorità dei personaggi. I dialoghi sono mimetici, ma di una realtà nuova, di un mondo alle origini: il nascente linguaggio giovanile milanese, miscela di dialetto, gerghi della malavita e italiano popolare. È questa la lingua della protesta giovanile, della rivolta dei figli piccolo borghesi contro i padri. “Nel momento in cui si va formando, faticosamente, un italiano dell’uso medio, il bisogno di ‘comunicazione espressiva’, ricca di tratti ‘affettivi’, crea un italiano volutamente substandard: la varietà giovanile fa parte, pienamente, di questo processo”[14]. Al lettore della sceneggiatura vada il compito di cogliere il movimento di questa struttura, fra didascalie e dialoghi, e di costruirsi il suo film.

Ma torniamo alla fine, ai Propositi di leggerezza contenuti in Trasumanar e organizzar, che riportiamo (quasi) per intero:

“Rendermi tangente il sistema stilistico.

Rendermi ‘buono’ come una volta:

è la cattiveria che mi ha reso pesante.

Ora, la bontà va bene, perché pertiene al demonio.

La cattiveria invece è divina: e perciò va male.

Seguitemi:

la bontà è fola, folle e disonesta.

La cattiveria è, tutto sommato, accettazione (ma sì, onesta)

(è casuale ch’essa sia conformista oppure ribelle).

Dico accettazione delle Istituzioni; con la loro divina volgarità.

Chi si compromette, è, dunque, ‘pesante’.

Il puro, il ragazzo – che è intransigente –

è leggero.

È proprio, peraltro, a causa della mia purezza di ragazzo

che io ho poi voluto perdere la leggerezza,

accettando il dovere, con il suo zelo volgare.

Il buono, il puro, il ragazzo è bugiardo:

la mistificazione è leggera.

La sincerità è pesante e volgare:

con essa è la vita che vince.

Deve vincere, invece, la giovinezza,

costruttrice di sistemi mistificatori

e di effrazioni insolenti e graziose – e pazienti:

perché pazienti sono i giovani, non i vecchi.

Torni il Falsetto.

Tutto ciò mi è suggerito dalla grazia degli Eritrei.”

Poi l’ambiguo muore, viene assassinato a cinquantatré anni.

“ […] incomberebbe di conseguenza su noi il dovere di abbandonare l’ambiguità creatrice, e di passare alla chiarezza rivoluzionaria. Ma non si potrebbe raggiungere lo stesso scopo accentuando l’ambiguità in proporzioni enormi e scandalose?”[15]

Bibliografia


[1] P.P. Pasolini, “Nota introduttiva” a Scritti corsari, ora in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2019, p. 267.

[2] Roland Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France (1977-1978), Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 80.

[3] P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2019, p.145.

[4] Ibidem.

[5] P.P. Pasolini, Ci sono ancora vite romanzesche, (1969), ora in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori 2019, p. 1199.

[6] P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2019, p.199.

[7] Ibidem, p. 203.

[8] Ibidem, p. 204.

[9] Ibidem.

[10] P.P. Pasolini, “Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964; poi Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2019, p. 21.

[11] Ivi, p. 19.

[12] Ibidem, p. 24.

[13] P.P. Pasolini, IL PCI AI GIOVANI!!, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2019, p. 162.

[14] E. Radtke, “La dimensione internazionale del linguaggio giovanile”, in Il linguaggio giovanile degli anni Novanta, a cura di E. Banfi e A. A. Sombrero, Biblioteca di Cultura Moderna Laterza, Bari 1992, p. 9.

[15] P.P. Pasolini, “Botta e risposta con Moravia”, in Il caos, ott. 1968, ora in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2019, p. 1126.

di Irene Arpe

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