Furor e praxis del filosofo in Giordano Bruno

Dalla folgorazione alla contemplazione


Se vi è nella storia del pensiero occidentale un filosofo che del furore è divenuto simbolo, tanto per la peculiarità della sua ricerca filosofica quanto per il modo in cui alla temerarietà dei suoi pensieri ha saputo conformare la propria vita, questi è Giordano Bruno. Filosofo che meglio di chiunque altro ha saputo incarnare lo spirito del suo tempo, pur non lasciandosi incasellare in alcuna categoria statica e sedimentata – semmai mirando al rovesciamento di tutto quello che dal suo punto di vista l’umanesimo rinascimentale aveva ereditato in modo passivo e acritico – uomo del dissenso, eretico e pellegrino, Bruno è stato un pensatore in movimento, che del divenire e del fervore ha fatto gli assi portanti del suo programma di rinnovamento filosofico e culturale, della sua “Nova Filosofia”.

Secondo il Nolano, così si faceva chiamare per via della sua origine campana, alla genesi del Furore vi è anzitutto l’Amore, simbolicamente rappresentato dall’elemento naturale del fuoco. L’amore accende, sconvolge e muove lo spirito umano verso una dimensione etica e intellettuale nuova, elitaria e totalizzante, quella eroica. Così, in De gli eroici furori, il Furioso, il Sapiente che da tutti gli altri sapienti si distingue per elezione e attitudine speciale – figura dai tratti mitici, con cui lo stesso Bruno si identifica – grazie all’amoroso ardore riesce a innalzare l’oggetto del proprio desio, compiendo un viaggio allegorico la cui meta ultima è la contemplazione delle cose divine. L’amore che “colpisce” il furioso infatti non fa tutt’uno con il sentimento che spinge gli umani desideri alla bellezza dei corpi e al loro possesso, al contrario da quel richiamo sensuale essoprende le mosse irriducibilmente: l’amore rimane sì un putto irrazionale, ma solo a patto di intendere tale forza come l’unica in grado di purificare ed elevare l’intelletto verso ciò che esso non ha ancora. Mentre l’amore sensuale gode del presente e si relaziona a ciò che da sempre conosce in modo immediato, l’amore eroico brucia nell’assenza dell’oggetto desiderato e si proietta in una prospettiva temporale che ha a che vedere col futuro.



L’amore è perciò per il furioso motivo di tormento, la metamorfosi che esso mette in moto lo è. Di più, l’amore dell’eroe è invero fonte di travaglio e dissidio profondo: il filosofo è animato dalla volontà di oltrepassare i limiti che lo tengono ancorato alla finitezza della realtà materiale, ma d’altra parte non è che la stessa materia a costituire il suo habitus ordinario e familiare. L’atto di emancipazione che egli si appresta a compiere, nello sforzo operoso trova la sua cifra peculiare: l’anima del furioso fa i conti con una guerra interiore, contro le onde degli impeti naturali; l’unica arma di cui dispone per combatterla è lo slancio passionale da cui è sollecitato, lo stesso che se da una parte lo induce alla conquista di una visione superiore, dall’altra stravolge in lui inclinazioni e pulsioni e muta irreversibilmente il suo modo di stare al mondo. Quella del filosofo è una impresa bellica solitaria: la lotta avviene dentro di sé, il suo fine è accogliere la luce divina e con essa divenire una cosa sola.

L’immagine che all’interno dell’opera meglio riesce a restituire la complessità di tale passaggio è senza dubbio quella illustrata dal mito di Atteone: nella trasposizione bruniana, Atteone è il giovane cacciatore che ha come preda la sapienza divina. Punito per aver sorpreso la dea Artemide a fare il bagno con le compagne durante una battuta di caccia, egli viene trasformato in cervo – animale simbolo della stessa dea – e successivamente sbranato dai suoi numerosi cani, che non lo riconoscono e che, dopo averlo ucciso, continuano a cercarlo disperatamente per tutta la foresta. Atteone giunge dunque alla visione della divinità, ma non appena ciò accade, da predatore diventa preda, finendo addirittura per essere divorato dai suoi stessi cani. I suoi nuovi predatori rappresentano i pensieri rinnovati, ossia la vita intellettuale vivificata dall’incontro col divino, la cui implicazione principale è la trasfigurazione radicale del cacciatore in un essere altro: è l’atto del contemplare che gli permette di contrarre la divinità dentro di sé e di trasformarsi in ciò di cui andava alla ricerca.

L’epilogo, a ben vedere, solo in apparenza è drammatico: il raggiungimento del fine ambito decreta la morte soltanto parziale del cacciatore. Tale punto di non ritorno è da leggersi infatti in un’ottica di trapasso verso una forma di vita nuova e più elevata. La morte di Atteone non sancisce la sua fine, bensì la trasmigrazione della sua anima in un essere dai lineamenti potenziati. Fuor di metafora, il cacciatore è il furioso, che dal fuoco dell’amoreda amante è stato trasformato in cosa amata, e che attraverso gli strumenti della logica e della contemplazione intellettuale ha avuto accesso alla grandezza divina, abbandonando così la gabbia di un’attività intelligibile tutta rivolta alle cose finite e guadagnando in cambio l’idea di Infinito. Il furioso, come la fenice araba, si consuma tra le fiamme e rinasce dalle sue stesse ceneri: a differenza della seconda però, il primo non si limita a un riattraversamento ciclico delle medesime tappe già battute, ma si apre a una fase interamente altra, perché l’uomo che è adesso è di un’altra specie rispetto a ciò che fu.



Sebbene la metamorfosi vissuta dal furioso mostri la specificità di un agire concesso a pochi, essa riflette al contempo le coordinate ontologiche che Bruno attribuisce alla realtà tutta. Si tratta infatti del circolo infinito della Vita-Materia, cui l’autore si riferisce, altresì nell’opera oggetto di riflessione, in termini di mutazione vicissitudinale. Uno è infatti nella Natura il principio che tiene assieme tutte le cose, tanto quelle finite quanto quelle infinite; una è invero la luce divina che anima e congiunge le cose inferiori a quelle superiori secondo un’eterna circolazione. Bruno lo chiarisce meglio nei dialoghi cosmologici: la fine di ogni cosa non è che l’inizio del suo contrario. La realtà dunque non si dà mai in uno stato di quiete: in essa tutto è in perpetuo divenire attraverso un movimento incessante che dai gradi più bassi ascende a quelli più alti, e viceversa. Di questo ritmo inesauribile il filosofo-furioso non solo partecipa in modo attivo, ma diviene altresì scopritore privilegiato, cogliendo l’Unità di cui ogni ente di Natura non è che riflesso. Il compito che egli è chiamato ad espletare è tanto ontologico quanto gnoseologico: in tale duplice canale si sostanzia la forma più compiuta di praxis umana, brunianamente intesa come sintesi armoniosa del lavoro che intelletto e volontà realizzano in sinergia. In questo senso, non vi è azione autentica che non presupponga una forma di contemplazione e non vi è contemplazione che non sia già di per sé espressione di un agire.

L’esperienza del furioso si erge così a emblema di vita esemplare, nel modo in cui Bruno la concepisce: il filosofo non si arresta dinanzi alle fatiche che gli procura l’Amore, di esso accetta a guardar bene anche il carattere violento, andando incontro coraggiosamente alle fiamme, sia pure nella consapevolezza del patimento che esse gli procureranno. In tale laborioso voto, egli accoglie l’eccesso e se ne fa carico; non si acquieta nella temperante e virtuosa posizione del sapiente che permane nella medietà, tra l’uno e l’altro contrario, ma fa invece i conti con tutto ciò che sta all’estremo, con ogni cosa e col suo opposto, soltanto per risolvere l’apparente dicotomia del reale alla luce dell’Unità conquistata. L’eccezionalità del furioso si traduce dunque in doppio vizio, ossia nella perversione di qualsivoglia morale oziosa, indifferente, mediocre (non ultima, secondo Bruno, quella cristiana); nel vizio del furioso, che è di tipo più divino e più ferino, risiede la possibilità di trascendere le consuetudini ordinarie, alla ricerca di una felicità che ha coordinate diverse, perché legata in modo imprescindibile a una più profonda visione della realtà.

Si badi bene: anche per il Furioso la conoscenza di Dio resta situata al di là di ogni possibilità umana. Dell’Infinito da cui ha origine ogni cosa il filosofo può solo cogliere le ombre, ossia gli effetti che si irradiano nell’Universo e nella Natura. Tuttavia, ciò non toglie valore all’opera che il Furioso può compiere: mutarsi in anello di congiunzione tra il finito e l’infinito, tra il tempo e l’eternità, tra l’uomo e Dio. E per quanto tale alto scopo sia raggiungibile soltanto da pochi esseri umani, Bruno evidenzia come sia importante che ognuno faccia il suo possibile e concorra al cambiamento che è inscritto nell’ordine dei fenomeni della Natura. Attraverso la smania furiosa di chi non intende adeguarsi passivamente a una comprensione immobile del mondo, affinché il punto di vista dell’umanità si faccia sempre più alto.

di Mariagrazia Gambino

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