André Gorz e l’antica utopia

In occasione di ECHOES, la rassegna al teatro Corte dei Miracoli in occasione del mese dell’ecologia, accogliamo e pubblichiamo un articolo di riflessione critica su uno dei pensatori più influenti dei movimenti ambientalisti degli ultimi anni: André Gorz.

Negli ultimi anni il movimento ecologista ha vissuto una nuova stagione, come mostra la nascita di movimenti come Fridays For Future o Extinction Rebellion. La stessa pandemia che viviamo affonda le sue radici nella crisi ecologia: in un modo o nell’altro, l’ecologia è il grande tema del nostro secolo. E, chi in modo più timido, chi in modo più sostenuto, gli ecologisti iniziano a porsi domande su come realizzare davvero le loro idee. Su quali modelli economici servano, su come sia possibile cambiare il sistema. «Change the system, not the climate» era uno degli slogan di Fridays For Future. Ma cosa significa cambiare il sistema?

Da qualche tempo nel mondo ecologista, in Italia, si è affacciata una corrente di pensiero, l’ecologia politica. Si tratta di una realtà sfaccettata, a metà tra disciplina e pensiero politico, che pone come fondante la liberazione dell’uomo dalle maglie di un sistema economico produttivista e fondato sulla crescita, sul continuo sfruttamento delle risorse naturali. Per comprenderla più a fondo è utile andare alle origini, e leggere il suo fondatore, André Gorz, giornalista e attivista politico francese ripreso e approfondito da Emanuele Leonardi, che ha contribuito a una sua riscoperta e rivalutazione.

Fondatore del Nouvel Observateur, André Gorz è stato un membro forse non centrale ma notevolmente attivo della politica francese degli anni Sessanta e Settanta: si fece portavoce in Francia delle posizioni di Vittorio Foa e Lelio Basso, fu amico di Herbert Marcuse, frequentava gli ambienti esistenzialisti, scrivendo sulla rivista Le Temps Modernes, fino alla sua rottura con Sartre all’inizio degli anni Settanta. È però un testo in particolare a interessarci, di tutta la sua ampia e multidirezionale produzione di pamphlettista e scrittore: Ecologia e libertà, un breve testo del 1977, per certi versi pioneristico – Gorz è stato infatti uno dei primi comunisti a preoccuparsi seriamente di ecologia, senza ignorarla nel miglior stile del produttivismo sovietico, o semplicemente demandarla a «dopo la rivoluzione» –, nel quale delinea uno schizzo di quello che sarebbe poi divenuto il nucleo fondante dell’ecologia politica. Siamo alla fine di un periodo centrale della politica europea, ma anche importante per lo stesso Gorz, che, allontanatosi da Temps Modernes e dal Nouvel Observateur, abbandona progressivamente le posizioni esistenzialiste per esplorare idee antiautoritarie e autogestiornarie.

Ed ecco che nasce il libro di cui andiamo a parlare. Scritto in uno stile divulgativo e pamphlettistico, il testo appare immediatamente comprensibile ai suoi lettori. Ma più che di semplicità, in questo caso si deve parlare di “semplificazione”. Procedendo in maniera apodittica e schematica, infatti, l’autore ha difficoltà a problematizzare le questioni, finendo così per porre più di un problema al lettore contemporaneo, per lasciare aperti molti margini di dubbio. Ciò è evidente già nell’incipit:

Il capitalismo fondato sulla crescita è morto. Il socialismo fondato sulla crescita, che gli somiglia come un fratello, ci riflette l’immagine deformata non del nostro futuro ma del nostro passato. Il marxismo, che rimane insostituibile come strumento d’analisi, ha tuttavia perduto il suo valore profetico.

Lo sviluppo delle forze produttive, in virtù del quale la classe operaia avrebbe dovuto spezzare le proprie catene ed instaurare la libertà universale, ha invece spossessato i lavoratori degli ultimi frammenti di sovranità propria, radicalizzato la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, distrutto le basi materiali di un possibile potere dei produttori[1].

Il concetto, nascosto tra le righe, sarà ripreso ora più scopertamente, ora quasi di sfuggita, per tutta l’opera. Si tratta della «crescita», che arriva a uguagliare, secondo Gorz, capitalismo e socialismo. Lo sviluppo delle forze produttive, invece di essere guidato dalle masse popolari, vive di vita propria, e come un cavallo che scuota di sella il suo fantino, si avvia a guidare esso stesso le masse. È evidente l’origine particolare, storica di un pensiero di questo genere: il mondo spaccato tra socialismo reale e capitalismo, tra Usa e Urss, tra due modelli apparentemente opposti ma in realtà portatori di simili conseguenze; due modelli tirannici che, in ultima analisi, sembrano intersecarsi l’uno nell’altro. Un fosco quadro a cui il nostro autore oppone una seconda dicotomia. La vera scelta da operare, infatti, non sarebbe tra capitalismo e socialismo, bensì tra «convivialità» (intesa come libertà, uguaglianza, unione tra le persone) e «tecnofascismo» (inteso come la negazione di tutto questo, la risposta autoritaria e statalista alla crisi ecologica).

Sembra quasi convincerci. Quasi. Perché in realtà questo ectoplasma che pervade il discorso, questa «crescita», non è mai definita. Aleggia con le sue sembianze fantasmatiche, la si ritrova ora qui, ora lì, senza però che si comprenda davvero la sua natura. Cos’è di preciso la «crescita» di cui parla Gorz? È la mera quantità di oggetti prodotti? Oppure si intende un concetto più ampio, più “scientifico” per certi versi (o quanto meno utilizzato in contesti che si pretendono scientifici), com’è ad esempio quello utilizzato in economia quando si discute di «crescita economica»? I due significati, per quanto sovrapponibili, non si equivalgono. Se il secondo infatti ha senso soltanto in un’economia di tipo capitalistico, il primo ha un valore “universale”, che inerisce cioè a qualsiasi tipo di organizzazione sociale.

In molti punti sembra che per Gorz il problema sia semplicemente il primo. Non conta quindi la tipologia di prodotti che si producono, se sono merci oppure non lo sono, il loro impatto ecologico, la rete di interazione che generano: sembra contare esclusivamente il numero. È necessario ridurli, quali che siano e quale che sia la società che li produce. Un ecologista radicale non sarebbe del tutto in disaccordo: è una preoccupazione più che lecita: è davvero necessario ridurre i consumi, anche in una società idealmente più egualitaria. È un ragionamento condivisibile, si potrebbe dire di “buon senso”. Eppure, qualcosa non torna. Gorz infatti non si chiede mai da dove nasca questa produzione di merci in abnorme quantità. Lo prende come un dato di fatto, risolvendo il tutto in uno slogan: il produttivismo esiste, combattiamolo. Ma i motivi della sua esistenza non vengono presi in considerazione.

Avrebbe dovuto, invece, provare a illuminare ciò che appare meno ovvio, meno “logico”: ciò che accomunava Urss e Usa, ciò che uguaglia socialismo reale e democrazia liberale, non è «la crescita», e non è neanche «il produttivismo», ma la merce. L’esistenza di merci. Per quanto gli Stati sedicenti socialisti non avessero un’economia di tipo capitalistico strettamente inteso, per quanto avessero un’economia ibrida, per cui pure il termine «capitalismo di Stato» è inadatto in molti casi, non potevano prescindere dalla produzione di merci, di oggetti che avessero, oltre al loro valore d’uso, la loro utilità, anche un valore che si realizza nella compravendita, nello scambio.

Facciamo un esempio. Se produco un tavolo perché mi serve o perché serve al mio vicino di casa, l’oggetto in questione, il tavolo, ha essenzialmente un valore d’uso, una utilità che si manifesta nel suo utilizzo, nel nostro caso come piano dove lavorare, mangiare, ecc. La sua produzione soddisfa essenzialmente questo bisogno. Finché il tavolo resiste, finché non si consuma e non si rompe, io non avrò bisogno di produrre altri tavoli. Ma se il tavolo non lo produco per soddisfare il bisogno di un piano di lavoro, ma perché voglio venderlo al mercato, ciò che diventa essenziale non è più, appunto, la capacità di soddisfare un bisogno, ma quella di ripagarmi del tempo e della fatica fatta per produrlo. Anzi, di più: guadagnare del denaro dalla vendita del tavolo. Ovviamente, chi comprerà il tavolo sarà indotto a farlo dal bisogno di avere un piano di lavoro. Ma a me la cosa è del tutto indifferente. L’acquirente potrà utilizzare il tavolo per mangiare, per scrivere, per batterci sopra il martello, oppure potrà comprarlo e gettarlo direttamente dalla finestra. Ciò che conta per me è che il tavolo venga comprato da qualcuno. Anzi, da tante persone, o dalla stessa persona più volte. Perché più spesso avverrà lo scambio, più tavoli io sarò in grado di vendere, più soldi guadagnerò, più diventerò ricco. Per parafrasare Humphrey Bogart ne L’ultima minaccia: è l’economia, bellezza! E tu non ci puoi fare nulla.

Se la mia produzione non è orientata a soddisfare un bisogno, ma a realizzare un valore, al centro del palcoscenico non c’è l’essere umano ma la merce. O meglio, la ricchezza astratta, il valore appunto, che diventa l’alfa e l’omega dell’attività sociale. La soluzione a questo problema non è l’astratto appello a una diminuzione quantitativa delle merci prodotte, cosa impossibile stante in società ma la trasformazione della società stessa, delle relazioni sociali oggi dominanti.

La dimenticanza di questo condiziona tutta l’argomentazione di Gorz, che si fa via via sempre più schematica. I concetti-base del suo discorso («crescita», «forze produttive», «tecnologia», «strumenti») si confondono e si intersecano. Non è imperizia dell’autore: è la logica conseguenza dell’assenza di rigore scientifico delle premesse.

Ma la confusione del ragionamento non è l’unico esito. Poiché come detto il centro del problema viene individuato nella «crescita», e poiché un’analisi della forma-merce e delle relazioni sociali che la sostengono e la rendono possibile non compare nemmeno all’orizzonte, la soluzione del problema ecologico non viene individuata nella trasformazione della società ma nella trasformazione della tecnologia, o meglio degli strumenti di lavoro.

Le istituzioni e le strutture dello Stato sono in larga misura determinate dalla natura e dal peso delle tecnologie. Per esempio il nucleare, capitalista o socialista che sia, presuppone ed impone una società gerarchizzata sotto controllo poliziesco. La trasformazione degli strumenti è una condizione fondamentale per il cambiamento della società[2].

Anche qui, apparentemente, ha ragione: il nucleare è un problema in qualsiasi ordinamento sociale. Ma i motivi per cui l’autore arriva a questa conclusione, pongono dei problemi. Il ragionamento qui posto è infatti riduzionistico: dalla società nel suo insieme si passa allo Stato; delle varie determinazioni che concorrono a formare una struttura statale si sceglie la tecnologia, e per «tecnologia» non si intende una serie di processi, di organizzazioni, di relazioni sociali (ancora una volta al centro dell’analisi della società devono esserci gli esseri umani e le loro molteplici interazioni!), bensì dei semplici «strumenti». Il macroconcetto crolla all’interno del microconcetto, che lo fagocita, fino a obliarlo.

Un procedimento simile è riscontrabile nelle opere dei decrescisti, come Serge Latouche e Maurizio Pallante, o nei i modelli economici di Jeremy Rifkin: come Rifkin sognava nuove civiltà a partire ora dall’energia solare, ora dalle auto a idrogeno, anche qui il punto di partenza è lo strumento, che diviene tecnologia, che diviene quindi un modello di sviluppo alternativo. Un antidoto alla società della «crescita». Gorz, a differenza di Rifkin, non elegge mai una specifica tecnologia a bandiera di salvezza, ma di una cosa è certo: «senza la lotta per una tecnologia diversa, la lotta per una società diversa è vana».

È vero, come denunciava anche un altro importante pensatore ecologista, Murray Bookchin, che ogni tecnologia presuppone sempre un certo ordinamento sociale, e quindi tecnologie più complesse richiedono disciplina, inquadramento gerarchico, controllo. Però non bisogna dimenticarsi che le tecnologie sono dei rapporti sociali: sono dei processi, prima ancora che dei meri oggetti. Dei processi che quindi nascono già in un dato ordinamento sociale, e lo riflettono. Non è una tecnologia che crea le condizioni per determinati rapporti sociali: sono gli individui associati, cioè in rapporti reciproci determinati che creano una tecnologia adeguata a risolvere i loro bisogni determinati.

È il punto di partenza a essere sbagliato, dunque. Se il centro della liberazione degli esseri umani fossero gli strumenti di lavoro, basterebbe una mera sostituzione: centrali solari invece che centrali a carbone; eolico invece che nucleare. Cioè, in fondo, un processo che oggi si sta già sviluppando in seno al capitalismo, pur in modo contraddittorio, ipocrita e spesso solamente pubblicitario (il famoso greenwashing). Gorz forse non poteva intuirlo alla fine degli anni Settanta, anche se gli indizi già c’erano tutti, ma il modo di produzione capitalistico è dotato di una resilienza sorprendente, e riesce ad adattarsi ai cambiamenti più impensabili.

Non ci basterà sostituire le centrali solari alle raffinerie di petrolio, se il motore della società sarà sempre lo stesso, il profitto. Si tratterà semplicemente di una delle tante trasformazioni di questo sistema economico, ma lo sfruttamento umano (e anche naturale, in realtà) sarà lo stesso. Quanti pannelli solari serviranno per soddisfare la sete di progresso infinito dovuta alla necessità di sempre maggiori guadagni?

Se la tecnologia diviene il fattore determinante, discriminante, il punto archimedeo su cui far perno per la lotta, ciò significa porre l’accento su un aspetto parziale della società. Da un lato si dà quasi l’idea che la tecnologia sia un ente metafisico, un cavallo imbizzarrito sfuggito al controllo dell’uomo, quando invece è saldamente sotto il controllo umano, sotto il controllo di alcuni uomini, cioè gli appartenenti alla classe dominante. Dall’altro si sta implicitamente affermando che nella società sia un unico fattore a determinare tutti gli altri, tolto il quale a catena, meccanicamente, discenderebbe tutto il resto. La lotta che può derivare da una simile teoria sarà un cambiamento riformistico, un passo alla volta, un elemento alla volta. Ma in una società complessa, in cui ogni elemento è strettamente connesso all’altro (e lo vediamo oggi, con la pandemia, quanto i rapporti sociali siano inestricabilmente interrelati) non si può pretendere di cambiare un tassello senza che cambi tutto il resto assieme a quel tassello, e non semplicemente in seguito.

Arriviamo così all’ultimo ingrediente dell’opera di Gorz che vediamo in questa carrellata, e che potremmo definire utopia autogestionaria. Si tratta dell’ingrediente più complesso e il più insidioso, poiché appare come il modello più corretto, più giusto, in grado di contrapporsi sia alla farraginosa e autoritaria pianificazione del socialismo reale, sia a soluzioni di tipo socialdemocratico e compatibilista con il sistema. Questa terza via appare certamente la migliore: un sistema decentrato in cui i produttori sono direttamente gestori delle forze produttive, e si associano in organismi di varia natura in cui possono scambiare vicendevolmente i frutti del proprio lavoro. Tale modello economico, semplificando molto, prende il nome di mutualismo, e affonda le radici nel pensiero anarchico[3]. Nella sua versione originaria, Pierre-Joseph Proudhon, parla di una vera e propria economia di mercato. La critica di Proudhon al modo di produzione capitalistico, infatti, non poggiava sull’analisi dell’estrazione del plusvalore[4] – ossia sul fatto che di X ore in cui la forza-lavoro è messa all’opera solo una parte corrisponde al salario mentre la restante parte viene appropriata senza contropartita dal capitalista – bensì sulla violazione del «principio di costo». Semplificando brutalmente, la teoria proudhoniana poneva la critica sul versante della distribuzione, e dunque della moneta, quando in realtà il problema nasce a monte, nella produzione. In più punti, Gorz (come Murray Bookchin, del resto) si mostra debitore di questo modello, proponendo una società di piccoli produttori che si uniscono liberamente, senza istituzioni o mediatori, e in diretta contrapposizione con ogni modello statale, istituzionale, che pretenda quindi di «etero-dirigere» queste libere associazioni.

È un modello antico, come tale ampiamente messo in discussione, che si fonda su una idea stereotipata di società pre-capitalistica (o forse sarebbe meglio dire pre-moderna o persino pre-antica: l’Impero romano, per esempio, era un sistema molto più complesso e articolato di quello qui descritto), in cui esistono tanti piccoli produttori autonomi gli uni rispetto agli altri, in cui vi è chi produce vestiti, chi generi alimentari, chi materiali da costruzione, e così via, e in cui gli unici rapporti reciproci avvengono nella sfera dello scambio. Un modello da villaggio medievale, o meglio, da villaggio medievale immaginario, in cui i braccianti non esistono, i lavoratori degli opifici non esistono, i garzoni e i servi dei mercanti non esistono. In realtà non è mai esistita una società in cui tutti fossero “piccoli produttori”, in cui ognuno, nessuno escluso fosse un “lavoratore in proprio”, un “imprenditore individuale”.

Perché tale società in realtà non sarebbe propriamente una società, ma piuttosto una mera somma di individui, incapaci di cooperare oltre la sfera del loro bisogno immediato. Incapace cioè di operare come produttori associati. Incapace, in ultima analisi, di sviluppare le forze produttive (bisogna ricordare infatti che la più grande forza produttiva non è lo strumento di lavoro, nemmeno il più raffinato e potente, ma l’essere umano, l’essere umano quando opera compattamente, in società). Ma l’illusione di una società di piccolo-borghesi, di self-made-men, è dura a morire. E così ciclicamente qualcuno la tira fuori dal cassetto e la propone come l’ultima innovazione. Gorz non fa eccezione e ci propina l’ennesimo modello astratto di società da applicare, come uno stampo, sulla realtà attuale.

Modello che conclude il libro, in un paragrafo intitolato «Sette tesi a mo’ di conclusione», e che, sintomaticamente, non descrive alcun processo politico da parte della collettività per consegnare al mondo una società libera, e nemmeno un processo politico di tipo riformista guidato da un’organizzazione capace di una forte carica innovatrice. No. Per Gorz il mondo cambierà grazie all’intervento di un consiglio dei ministri illuminato capace di dispensare giustizia e libertà. «Ti ordino di essere libero», in un certo senso Gorz si augura qualcuno capace di quest’ossimoro.

Il passo è semiserio, certamente. Ma il fatto che dopo aver magnificato la bellezza dei piccoli produttori che si uniscono tra loro, Gorz ci racconti il sogno, vagamente aristocratico, di uomini privilegiati che decidono, magicamente, di salvare l’umanità stona non poco e soprattutto dimostra che tutta l’utopia di cui si fa latore il nostro, in assenza di una coerente e solida analisi, finisce per sgonfiarsi su un realismo che è persino difficile da qualificare.

I movimenti ecologisti, che oggi con l’attuale pandemia sembrano silenti, ritorneranno. Non possono non ritornare. Le contraddizioni frantumano la società, e scavano fosse sempre più ampie. Anche i movimenti sociali ritorneranno. Le lotte degli operai delle fabbriche delocalizzate (la GKN su tutte), le occupazioni delle scuole lo dimostrano. Creare, far vivere e connettere tra loro movimenti sociali e movimenti ecologisti è la sfida del nostro tempo. Per farlo servono basi solide: serve riprendere quanto è stato fatto finora, capire quanto vi è di utile – a partire dall’obiettivo di pianificare la produzione e la distribuzione dei prodotti, e (non più) delle merci, sulla base dei bisogni collettivi: l’umano ingegno al servizio di tutti – e quanto invece è necessario mettere in questione, perché, finalmente, si possa generare il nuovo. Nelle epoche di crepuscolo, tutto sembra essere stato detto, tutto sembra essere stato fatto. A noi, invece, sembra che tanto cammino sia ancora da percorrere.

Note

[1] Gorz, Ecologia e Libertà, Ortothes, §1.

[2] Gorz, Ecologia e Libertà, Ortothes, §3.

[3] La questione è molto più ampia. Il movimento anarchico criticò subito l’impostazione economica di Proudhon, e si svilupparono notevoli divergenze in campo economico tra gli anarchici. La Francia fu sempre una fucina di individualisti anarchici, che per lo più propendevano per modelli di tipo mutualistico, ma già Bakunin proponeva un’idea di società diversa, che chiamava «collettivistica», e non presupponeva un vero e proprio mercato. Più avanti pensatori come Kropotkin insisteranno sul tema dell’abolizione del denaro, e quindi della necessità di un’economia che abbandoni il mercato. Cafiero, Fabbri, Malatesta parleranno anch’essi di anarco-comunismo, rifiutando il mutualismo, così come i piattaformisti anarchici di Arshinov e Makhno. Tuttavia, nessuno di questi pensatori si occupò specificamente di economia, e ciò rende molto vaghe le loro idee in merito. Il modello proposto da Proudhon rimane il più compiuto tentativo di sistematizzazione economica tentato da parte anarchica, e ciò pone dei problemi nel considerare le proposte di tipo anarco-comunistico. In particolare, la necessità di pianificare più o meno centralmente l’economia è uno dei temi meno affrontati e più ambigui. Questo fa sì che il modello anarco-comunista si presenti come una sorta di via di mezzo tra un modello di tipo marxista non staliniano (non burocratizzato dunque) e un modello di tipo mutualistico. Può anche sembrare la via più corretta, più di buon senso, ma in realtà è da dimostrare se questa “via mediana” non sia semplicemente una formula astratta.

[4] In questo paragrafo e nel seguente diamo per scontati i termini di forza lavoro e plusvalore, alla base dell’analisi economica marxista. Per acquisire questi concetti si rimanda al primo libro del Capitale di Karl Marx, o, per chi non voglia (ahinoi) cimentarsi nella lettura del volume, l’agile Compendio al Capitale dell’anarchico Carlo Cafiero e l’Introduzione alla teoria economica marxista di Ernst Mandel.

di Gabriele Stilli

Leggi tutti i nostri articoli di politica

Autore