Il sublime meccanico

The future of humanity towards a new kind of alienation

sublime meccanico

In questo articolo cercheremo di offrire una piccola chiave di volta sul fenomeno moderno della tecnica, servendoci dei concetti fondamentali proposti da Günter Anders nella sua opera capitale: L’uomo è antiquato, applicandoli alla nozione classica di “Sublime” – a partire da Kant sino alla stagione dell’idealismo tedesco – per dare una definizione di cosa, chi scrive qui, intende per “sublime meccanico”.

Stando alla Critica del giudizio, infatti, il sublime è un sentimento che si distingue dal bello poiché non presenta una sensazione armonica data dall’accordo delle facoltà riguardo l’oggetto che le stimola, bensì un disaccordo straziante, ma in parte piacevole (un piacere negativo), dato dal contrasto tra l’immaginazione, che si ritrova sconfitta non potendo abbracciare l’oggetto naturale che si trova di fronte, e l’intelletto che invece colma lo scarto scoprendosi superiore alla cieca natura grazie alla propria capacità razionale e morale.

Ora, siamo convinti che il confronto odierno fra la macchina e l’uomo ingeneri in quest’ultimo un sentimento molto simile al sublime qui descritto, ma a fattori rovesciati: la ragione umana, artefice di una propria versione ulteriore nella forma della macchina pensante, si ritrova sconfitta e soggiogata da quest’ultima, e tuttavia l’immaginazione si scopre estesa e corroborata dal dono che la macchina elargisce all’uomo nei termini di una iperrealtà digitale e mediatica prima inaccessibile.

Vediamo, adesso, se davvero esistono punti in comune tra i due fenomeni.

Di certo sia il sublime classico che quello moderno riguardano in qualche modo un’alterazione del paesaggio:

Wordsworth e Shelley, ad esempio, rendono poeticamente la cifra della trasformazione naturale, come poi farà Friedrich nei suoi dipinti. Non è necessario, d’altro canto, spendere esempi per mostrare il livello di metamorfosi ambientale introdotto dall’avvento della macchina nel mondo della natura e dell’uomo.

A partire da ciò si attua oggi, come dice Anders, quel «dislivello prometeico» che tanto rassomiglia allo scarto Uomo-Natura proprio del Romanticismo. Se l’effetto di tale dislivello è, sempre nelle parole di Anders, una «vergogna prometeica», essa si confronta con lo stesso problema del sentimento romantico, e cioè: la mancanza di un interlocutore. Se un tempo infatti la ragione superomistica si trovava nella difficoltà di non venir compresa da una Natura priva di linguaggio razionale, oggi la vergogna prometeica si incistisce proprio per il fatto di non poter venire sbugiardata dall’apparecchio che di per sé è muto e privo di riflesso morale. Schiller un tempo diceva: «L’animo tanto più si sviluppa interiormente quanto più trova limiti esterni». Oggi dovremmo invece dire: l’animo tanto più si umilia interiormente quanto più supera i suoi limiti mediante la macchina.

In entrambi i casi, la mancanza di interlocutore crea un rapporto unilaterale, ben evidente nella modalità di fruizione dei contenuti digitali e dei social-network, con l’aggiunta che se un tempo la frustrazione implicava in risposta, come in Coleridge, la reazione attiva del soggetto, l’effetto odierno vira verso la passività. Anders dice che fino a poco tempo fa, all’interno del nucleo familiare, il desco come luogo di raccolta aveva una funzione centripeta, oggi la tv ha una valenza centrifuga e disloca la presenza. Allora si può fare un pari con uno dei presupposti storici del concetto di sublime, quando già Lucrezio (poi citato da Dubos) diceva che una situazione idonea a suscitare il sublime è quella in cui qualcuno osserva un vascello preda della tempesta dalla sicura postazione sulla spiaggia. Di fatto era già il prodromo della fruizione televisiva.

Sublime meccanico 2

Due le conseguenze principali di tutto questo.

In primo luogo uno sbocco politico: a inizio Ottocento il sublime è stato uno dei sentimenti coinvolti nel riscatto rivoluzionario con lo scopo, usando le parole dell’Inno alla gioia, di permettere alla magia (der Zauber) di riunire ciò che la moda aveva diviso (geteilt).

Oggi invece il sublime meccanico, suscitato nell’uomo dall’apparecchio, viene strumentalizzato per un esperimento di controllo innovativo nella storia, ovvero offrire panem et circensem ma non allo scopo di unificare, quanto nella strategia del divide et impera: gli utenti, accostati fisicamente nelle sale cinematografiche e nei salotti tv, hanno solo l’impressione di stare insieme, e invece vengono separati nel loro confronto ideologico. Se il sublime patetico conduceva al Mitleid, alla “compassione”, quello moderno disarma l’empatia.

In secondo luogo, sempre sulla scia di Anders, si nota che l’apparecchio digitale trasforma gli oggetti in fantasmi, enti cioè esistenti e insieme assenti, elementi che nella loro versione tradizionale – si pensi al Clara di Schelling – hanno accompagnato a lungo la riflessione romantica sul sublime a partire dal fatto che, come affermava Kant, non esistono oggetti sublimi ma che a essere sublime è solo il nostro stato d’animo. Se quindi al giorno d’oggi sembra quasi che la riproduzione mediatica di un avvenimento diventi più importante dell’avvenimento stesso, rinveniamo una grande somiglianza con il sublime classico: in entrambi i casi l’oggetto non funge da modello bensì da matrice, nel senso che del cliché poi non ci si serve più.

Il contenuto in sé e per sé svanisce. Per questo motivo Anders confuta chi descrive la nostra come un’epoca materialistica sulla base del consumismo, definendola piuttosto “neoplatonista”: come l’uomo uscito dalla caverna platonica non ambisce ad arrivare all’idea ma torna sui suoi passi, così il consumatore non punta all’archetipo, allo stampino, ma si impadronisce solo della copia. Persino quando si impossessa del prototipo, esso cessa per definizione di essere tale. A riprova di questo, in entrambi i periodi storici si cade nell’errore di definire sublimi gli oggetti stessi poiché – sia nell’imperativo del Romantisieren che nei fenomeni delle fake-news – se la realtà si riduce a fantasma, di contro i fantasmi vengono scambiati per enti reali. Per stravolgere Novalis, diciamo che ormai si rende all’ignoto la dignità del noto.

L’altro grande punto in comune tra il sublime classico e quello da noi nominato “meccanico” è che entrambi, a differenza del sentimento del bello, non puntano a un appagamento dei sensi ma anzi instillano in essi la spinta del bisogno.

È un notevole atto smascheratorio quello di Anders nel sottolineare che ormai l’industria dei consumi non crea più gli oggetti che vengono incontro ai desideri degli acquirenti, ma lavora al fine di generare in quest’ultimi nuovi bisogni da appagare con nuove merci. La differenza qui è che, rispetto alla Sehnsücht romantica, il nuovo bisogno viene poi immediatamente soddisfatto, ma per certi versi la ridondanza con cui ciò avviene conduce a effetti analoghi: l’iper-ordinato messo in campo dalla macchina risulta alla lunga tanto spiacevole quanto il disorganico che atterriva l’animo romantico accendendo in lui il sublime. L’uomo, di fatto, non anela all’ordine in quanto tale, ma a un’organizzazione corrispondente al proprio dettato logico, che il codice della macchina trascende eccessivamente facendo ripiombare lo spirito umano nello smarrimento leopardiano della natura selvaggia.

Oggigiorno, insomma, l’offerta è troppo superiore alla domanda, e chissà quali altri avvenirismi verranno inventati nel breve periodo: forse l’I-Ching, una nuova app per iPhone con cui predire le nostre scelte come in un romanzo di Dick, o una app per creare diversi tipi di rumore di sottofondo sullo smartphone per darci l’alibi di interrompere una chiamata sgradita, o un algoritmo che risponde in automatico con formule standard per fare gli auguri a tutti, finché una major non troverà il modo di acquisire le royalties dei compleanni così chiunque per compierli dovrà pagarli e comprarseli, e chi non se lo potrà permettere rimarrà coi suoi trent’anni.

L’appagamento tempestivo dei bisogni indotti crea una scissione fra il sublime classico e quello meccanico.

Nel primo, infatti, l’opposizione da cui sorge il sentimento crea una resistenza che è quella su cui fa leva la speculazione filosofica. Come dirà poi Dilthey, lo spunto ermeneutico per esperire il mondo non si avrebbe se il mondo non creasse attrito. Oggi invece del mondo non si riesce a fare più esperienza perché non ci si coccia mai contro, non vi si inciampa mai dentro. È quello contemporaneo paradossalmente il vero sub-lime, nel senso che rimane sempre al di sotto della soglia d’emergenza, creando appunto il trand, tutto moderno, della sublimazione. Se infatti nel sublime classico il vettore che conduceva dall’immaginazione (sconfitta) alla ragione (trionfatrice) esercitava una dinamica coscienziale, poiché restituisce alla ragione contenuti sommersi, nel sublime meccanico la ragione che, detronizzata dalla macchina, deputa le sue aspirazioni alla fantasia scade obbligatoriamente in risultati inconsci.

In entrambi i casi assistiamo a uno sforzo, ma da una parte nella forma salvifica dello Streben, dall’altra invece nei palliativi dello sport e degli hobby, spesso in compagnia della macchina, in cui mancando la fonte dell’esperienza si fa dell’esperienza stessa la fonte in quanto tale, alla disperata ricerca d’avventura. Fa specie ad esempio che l’Ikea sfrutti il desiderio dell’utente di importare lui stesso una dose di lavoro al prodotto finito per fargli soddisfare le proprie lacune fattizie.

Il risultato è la perdita dell’elemento tragico, già cominciata in epoca classica durante il passaggio dal sublime patetico schilleriano a quello ironico di Solger. Se lo sforzo positivo del Romanticismo era quello di entrare nella storia prima di venirne estromessi, quello attuale è lo sforzo negativo di non venire trascinati dal fiume della tecnica: non stare al passo coi tempi, cioè – non avere il cellulare, il pc, la tv, etc. – è più difficile piuttosto che cedervi, e questo perché i device sono ovunque.

Il sublime classico infatti muoveva da un evento puntuale e a tratti unico: l’eruzione di un vulcano, ad esempio, che suscita il sublime dinamico, o la vista di un elemento iperbolico, da cui il sublime matematico.

Oggi invece che la scaturigine del sublime è capillare – il che fa dire ad Anders che non esistono più i singoli apparecchi ma l’Apparecchio come totalità – viene meno l’ingrediente fondamentale del sublime classico: lo stupore.

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Il che non vuol dire che lo stupore non avrebbe ragioni da rinvenire per scoprirsi in quanto tale, altrimenti quello “meccanico” non potremmo definirlo nemmeno “sublime” tout-court. Ma esso è talmente frammentato che sancisce l’autentica vittoria dell’immaginazione, nella convinzione di Anders (critico verso la pittura di Böcklin, troppo consapevole di raffigurare chimere) che la vera immaginazione è quella che non sa neanche di sognare. Se ci si fermasse un istante a riflettere sul funzionamento della tv rispetto all’effetto che ci offre, impensabile fino a non troppi decenni fa, dovremmo tuttora trasecolare, ma la reiterazione assuefà intellettualmente questo approfondimento.

Ecco ritornare il tratto saliente del sublime classico, e cioè il bisticcio interno all’uomo tra le sue diverse facoltà. Con la differenza che Kant criticava il cattivo uso delle facoltà che intemperano rispetto ai propri limiti, nel sublime meccanico invece non si tratta di un cattivo utilizzo della tecnica (come nuova facoltà estrinseca), ma di un problema insito nell’essenza stessa della tecnologia. Kant ha scagionato l’uomo dallo stato di minorità, la macchina ci ha nuovamente infantilizzati. I dormienti eraclitei, usciti dopo millenni dal sonno dogmatico, si riaddormentano in seno ai circuiti.

Il punto di partenza è dunque differente. Quello del romanticismo era, servendoci di Musil, quello di un uomo senza qualità bisognoso di riappropriarsi delle proprie facoltà. Quello odierno è un mondo di qualità senza uomo, una realtà piena di skills che sono però talento della macchina e non dell’essere umano, il che rende necessario rimettersi alla ricerca dell’uomo.

Lo spartiacque tra sublime classico e meccanico è quindi pur sempre l’alienazione, e lo fu anche storicamente a partire da Hegel che, nel far posto al concetto di alienazione, dette l’ultima spallata al sublime romantico a lui inviso.

La questione è delicata e si può dir così: la simultaneità dell’immagine digitale rispetto alla nozione di presenza trasforma gli utenti in meri compartecipi. L’uomo, lasciando che la macchina svolga tutto il lavoro, non è più contemporaneo alla storia ma un semplice compresente, né più né meno degli animali. Tale simultaneità non esisteva nel sublime classico, ben diviso da Kant fra un momento negativo in cui l’immaginazione frana e un secondo momento in cui l’intelletto si riscatta. Oggi la fruizione elettronica finge di esaltare l’immaginazione nel mentre che annichila l’intelletto. Ma in entrambi i casi l’effetto è di doppia alienazione: nel sublime classico, cioè, vi era sia il frutto senza lavoro – poiché nell’evento naturale che si scatena l’uomo non ha avuto ruolo, è puro spettatore – che il lavoro senza frutto – il terremoto di Lisbona del 1755 ha distrutto in un solo istante il frutto del lavoro di costruzione della città. Oggi, specularmente, rimane il lavoro senza frutto nella maggioranza delle classi come recita il marxismo storico, cui si aggiunge il frutto senza lavoro per l’aiuto soverchiante che ci proviene dall’utilizzo della macchina nella vita quotidiana.

Nel sublime classico l’orgoglio della ragione era di creare prodotti che non esistono in natura, esaltando perciò la cultura. Se infatti Kant si sofferma sul sublime naturale, già nella stagione romantica ci si interessa di più al sublime artistico. Oggi invece l’orgoglio della mente è quello di creare veri prodotti naturali al posto della natura stessa (si pensi alla stampante 3D). La cigliegina sulla torta non è solo ciò che già ravvisa Anders, cioè che l’homo faber è diventato homo creator, si può aggiungere anche che egli non è più soltanto artifex sui ma artificialis sui, nel senso che se l’ideale del sublime classico era quello di rendere l’uomo sicut Deus, oggi l’uomo diviene sicut gadget adottando su di sé le protesi atte a renderlo bionico. Così facendo, l’uomo si auto-supera e, contemporaneamente, diventa inferiore a se stesso in quanto incapace (anti-romanticamente) di farcela con le proprie forze. L’uomo non è più misura di tutte le cose, ma usa le cose per rimisurare se stesso.

Ed è proprio l’utilizzo di protesi a ultimare lo scarto fra sublime dinamico-matematico e quello meccanico, cosa che in Anders ancora manca.

Egli non ha infatti aggiunto che l’uomo diventa antiquato non solo per una sorta di inevitabilità rispetto al confronto uomo-macchina, ma perché a questo punto l’uomo stesso preferisce diventare antiquato (o mezz’uomo nell’istante in cui acconsente alla protesi) pur di non diventare antiquariato, cioè prima che sia la macchina a vedere nell’uomo un oggetto da collezione e voglia mantenerlo indenne per collezionarlo e atrofizzarlo in quanto vintage, come noi abbiamo fatto con gli animali nei safari e negli zoo.

E se gli animali urlano e ruggiscono mentre l’uomo li soggioga compitando a mezza voce il suo linguaggio, la macchina ancor più subliminalmente fa la stessa cosa restandosene muta. Nei fenomeni sublimi dell’epoca romantica il fragore dei terremoti e il boato delle eruzioni metteva in rumore la discrepanza tra forma e contenuto, di cui l’estetica hegeliana disegnerà poi la bilancia. Oggi invece gli oggetti sono “muti” nel senso che un ordigno di pochi metri di diametro e apparentemente innocuo è in grado di radere al suolo un’intera città. Sono muti perché non lasciano presagire i loro effetti.

Oggi, a differenza che in passato, è il silenzio a essere sublime, e già il filosofo romantico Jean Paul se n’era accorto quando disse: «Persino il silenzio può diventare sublime, il silenzio di un rapace che plana alto, il silenzio che precede una grande tempesta marina, quello del grande fulmine prima del tuono».

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!