Noi non possiamo toccare il silenzio – Parte III

Narrative AI and ‘know what’: A New Method

Macchina

L’insuccesso nella collaborazione uomo-macchina allo scopo di creare un nuovo genere di letteratura automatica posmoderna non è dovuto all’incapacità dell’AI di servirsi del linguaggio. Il computer padroneggia perfettamente i propri linguaggi, tuttavia lo fa in modo strumentale e non finalistico, a differenza della letteratura che non esprime i propri contenuti “attraverso” il linguaggio ma “sotto-forma-di-linguaggio”. Qui trovate la prima parte e qui la seconda.

Un più proficuo esperimento di incrocio tra “genotipi” sarebbe invece quello di condurre la macchina su un selciato ancora poco battuto. Essa è già stata improntata a un approccio sia deduttivo – si veda l’ormai classico programma johniac capace di dedurre 38 teoremi a partire dai Principia Mathematica di Russel e Whitehead – sia per certi versi anche induttivo, cui punta ad esempio il cyc di Douglas Lenat della Cycorp in vista del “pareggio” uomo-macchina attraverso un accumulo di esperienze che permetta a quest’ultima di intraprendere autonomamente nuove scoperte. La macchina inoltre è oggi oramai ampiamente capace di interventi “euristici”, come ha dimostrato il progetto Gelernter invenendo una dimostrazione alternativa a quella storica di Pappo di Alessandria riguardo il problema del pons asinorum, che non ha bisogno di ricorrere al dato dell’altezza per mettere in luce la congruenza fra gli angoli alla base di un triangolo isoscele. Ciò che però la macchina ancora non ha affinato è l’atteggiamento abduttivo, cui secondo alcuni – come Umberto Eco – fa ricorso la sfera mentale per focalizzare le proprie ispirazioni creative (letterarie e non solo).

L’idea, in buona sostanza, è di imputare alla macchina il reperimento del materiale letterario. Mansione non intesa come mera “combinazione”, per rifarci alla tripartizione dell’intelligenza proposta da Margaret A. Boden fra combinazione, esplorazione e trasformazione e sulla quale fa leva lo story generator brutus programmato da Selmer Bringsford e David A. Ferrucci. La nuova “macchina abduttiva” dovrebbe essere altresì capace di reinterpretare le casistiche in quanto eccezioni afferenti a delle regole altre rispetto a quelle reali, escogitando per esse una nuova norma che possa spiegarle prescindendo dalla logica del senso comune, ricreando così artificialmente la sospensione d’incredulità.

Tali “decisioni non programmate”, capaci di applicarsi all’ambito letterario similmente a come il gps (General Problem Solver) fa nei confronti dei quesiti di logica formale, farebbe quasi traballare l’impianto kuhniano poiché instillerebbero continui rovesciamenti di paradigma nell’attività ordinaria del processore.

È un puro preconcetto, insomma, la convinzione che del linguaggio i robot possano padroneggiare soltanto le qualità sintattiche, dal momento che queste sono a terminazione prevedibile, e che gli sfuggerebbero quelle semantiche per il fatto che sono procedure non terminanti le quali, sottendendo l’intero insieme delle connessioni con tutte le altre stringhe, sono vincolate all’esperienza diretta. Oggi infatti i calcolatori hanno accesso a un volume di dati maggiormente esteso in superficie rispetto alla singola esperienza umana. Un enorme database che, gestito da un software programmato per l’ars combinatoria, potrebbe dare luogo a fervide chimere. C’è stato forse bisogno di avere a disposizione un’icona mentale dei bastioni di Orione o dei raggi B che balenano nel buio per apprezzare il risvolto estetico della famosa battuta di Blade Runner? Un AI che utilizza frames nidificate e rappresentazioni algoritmiche dei contesti può ben dire di osservare cose che noi umani non immaginiamo grazie alla capacità di dominare una rete di concetti piena di informazioni sulle relazioni fra ciascun termine, dal momento che ogni singolo concetto è eterarchico rispetto ai restanti.

La trascelta e la scrematura capaci di apportare la macchina mediante messa a fuoco e filtraggio potrebbero contribuire all’ispirazione letteraria né più né meno che un enzima fa nelle sue funzioni organiche. Già il programma hacker di Gerald Sussman mette in campo qualcosa di simile sintetizzando disparate subroutines. La pregna asserzione di Deleuze secondo cui in letteratura è sufficiente stabilire «con quale altra macchina la macchina letteraria può essere collegata, e dev’essere collegata per funzionare» può oggi forse trovare risposta: con la macchina stessa!

L’errore finora è stato esaltare soltanto le doti processuali dell’AI e, nei primi tentativi della sua applicazione al panorama della scrittura creativa, assegnarle il ruolo di “autore esecutore”, esperimento però a nostro avviso fallimentare proprio perché, come detto, il linguaggio esecutivo non è lo strumento ma il fine della letteratura ed esso appartiene all’uomo (fintanto che pretendiamo dal risultato di parlare tramite il linguaggio naturale). Alla macchina invece potrebbe spettare, per conservare le categorie autoriali di Harold Love, il ruolo di “autore precursore”.

Addirittura, nella dicotomia ingegno/stile e nella convinzione che per certi versi l’attività letteraria si compia più quando si “pensa” che quando si “scrive” a tutti gli effetti, una volta sottratto il “lavoro”letterario stricto sensu alla macchina, incapace di superare il problema di interpretare il linguaggio se non in un’ottica traduttiva e di attribuirgli una dignità ontologica, potrebbe prima o poi verificarsi la tanto temuta, ma da noi attesa, inversione servo-padrone in cui finamente l’effort della scrittura si riversa sull’uomo, in quanto agente letterario o soggetto tetico, il che conserverebbe tutta la sua ironia pensando in effetti che la stessa parola ‘robot’ viene dal termine ceco impiegato dallo scrittore Karel Capek e che sta per “sfacchinata”, nell’ideale di lasciar sbrigare tutta la fatica al calcolatore.

In definitiva, nonostante il suo insuperabile talento procedurale potrebbe far pensare che il ruolo della macchina nella scrittura di testi ibridi e futuribili compensi il know how della composizione, la nostra tesi è al contrario che il suo vero contributo si assesti sul versante del know what, nell’invenienza di materiali impensati e di scala leggermente maggiore rispetto a quella umana da regalare all’uomo del futuro perché egli, in tandem con la macchina, ne manipoli un nuovo plasma letterario. E a chi obiettasse che, così facendo, la “creatività” propriamente detta si sposerebbe contradditoriamente con il meccanicismo, risponderemmo ancora una volta con le belle parole di Douglas Hofstadter: «La creatività è l’essenza di ciò che non è meccanico. E tuttavia ogni atto creativo è meccanico».

Ecco allora che anche in quest’ottica, come diceva Turing, la domanda se la macchina possa o meno pensare smette di avere senso. Ecco che a voler confondere i piani, id est i livelli di significato, a coloro che si domandano quando sorgerà finalmente una letteratura scritta da cyborg si potrebbe parafrasare la risposta data da Picasso al soldato nazista che chiedeva chi avesse dipinto la Guernica: “L’avete fatta voi”, e dire che la buona parte della letteratura occidentale del Novecento è già stata “fatta” dalla macchina. Asimov, Lem, Borges, Dick, Houellebecq e via dicendo.

Rispetto a ciò, accanto ai recenti esperimenti di scrittura automatica che spaziano su eterogeneri letterari, come il software ministrel del 1993 deputato a ricomporre nuove storie di Camelot sullo spunto delle saghe di Re Artù, o il mexica del 1997 che rielabora le leggende precolombiane, forse bisogna volgere lo sguardo al caso giapponese, laddove – come ha scritto Frédéric Kaplan – alla sensazione euro-americana di sospetto nei confronti del predominio della robotica, si contrappone un rapporto di confidenza diffusosi nella cultura giapponese verso l’automazione. Siamo in effetti a conoscenza dell’esperimento ambizioso del Kimagure Project di nome “I am a robot” volto a dare vita al programma GhostWriter allo scopo di rimaneggiare gli elementi letterari sparsi nelle short short stories dello scrittore di fantascienza Hoshi Shin’ichi, i quali per taglio e dimensioni si adattano bene a essere processati. Il software ha svolto, dicono i programmatori, appena il 20% dell’onere creativo, dal momento che il suo algoritmo a rigore non “capisce” la lingua giapponese.

Purtroppo siamo di fronte, ancora una volta, non soltanto al vecchio errore di riservare alla macchina il carico procedurale anziché ispirativo, ma ci troviamo di nuovo in un braccio di ferro fra pesi e percentuali di contributo uomo-macchina. Il nostro suggerimento, al contrario, è che si dovrebbe iniziare a pensare in termini a-egoici e simbiontici, prendendo magari spunto dagli affascinanti esperimenti di “Haiku a calcolatore” che, in piena ottica zen, compongono stringhe poetiche in libera e disinvolta autonomia.

Uno di questi haiku composti dal computer recita: “Noi non possiamo toccare il silenzio”.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!