Il pozzo della coscienza

Come si strutturano le emozioni e i pensieri sul fondo buio dell’inconscio?

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a condotto una riflessione interessante Jean-Paul Sartre nel saggio L’idiota della famiglia – una biografia in forma di caso clinico su Gustave Flaubert – sull’infanzia dello scrittore, figlio indesiderato di una madre che avrebbe invece voluto una bambina: un intruso dunque, allevato con indifferenza e senza amore. Il piccolo Gustave cresce ma non vive, vegeta autisticamente in una passività priva di senso e segnata dall’angoscia di morte. La sua esistenza separata dagli affetti familiari sprofonda in un pozzo nero senza vita. Nei suoi primi anni Flaubert faticherà a parlare, ad apprendere, a capire: segni di una chiusura difensiva nei confronti di un mondo che lo ha respinto. Il processo di costruzione della sua soggettività, marchiato dell’interiorizzazione del rifiuto materno, sembra definitivamente compromesso.

I sintomi prodotti da Flaubert bambino coincidono con quelli di N., un paziente trentenne con un passato di violenze e di deprivazione affettiva: sa di essere stato un bambino non voluto ed è un uomo smarrito e confuso. Alle sedute, cui giunge sempre in anticipo, esprime lo sforzo immenso di prendersi cura di sé attraverso un eloquio fatto di vocaboli che si susseguono in assenza di sintassi. Tale particolarità del suo linguaggio rispecchia il mondo buio in cui è avvolto, la sua incapacità di dar forma e significato alla propria vita. Non tollera i silenzi, che gli trasmettono angoscia e la sensazione di cadere nel vuoto. Invitato ad associare tale tormento a qualche ricordo, riporta che il silenzio gli fa venire in mente l’esperienza di finire inghiottito in un’oscurità sempre più profonda, in un pozzo dove non è più possibile conservare alcun pensiero. La sua psiche, invasa da fantasie di morte mescolate a sensazioni fisiche incerte e a sentimenti di riscatto, ricorda lo stato confusivo descritto da Edgar Allan Poe nel racconto Il pozzo e il pendolo, dove in un contesto lugubre, dai confini indefiniti e inquietanti, il protagonista è preda di reazioni emotive quali il terrore e l’incubo della fine, intrecciate con una stupefacente volontà di lottare e di mantenere viva la speranza.

Riportiamo specularmente le emozioni e i pensieri prodotti da N. sulla sua terapeuta:

La prima volta che lo vedo sento un irrefrenabile desiderio di dipingere. Cosa sto dipingendo? Non lo so nemmeno io e forse solo a distanza di qualche mese riesco a carpire qualcosa. Sto cercando di dargli forma. Mi accorgo solo ora di quel grumo nero al centro. Forse riesco a intuire quello che intravidi la prima volta che lo conobbi. Non riesce a rimanere nel silenzio, lo sente fastidioso, ho la sensazione che cada nel vuoto. Cambia voce. Ha un tono più stridulo e inizia a ridere, una risata come quelle di alcuni bambini quando non sanno più cosa dire. Ma sento anche imbarazzo e vergogna, come se fosse stato stanato. Appoggia la testa tra le braccia poste sul tavolo e nasconde il viso. Anche il suo sguardo cambia. Sembra chiedere pietà, si aggrappa quasi a implorare di ricominciare a parlare. Sono bastati brevi minuti per farlo sentire così. Ho la sensazione che sia una tortura, rompiamo il silenzio. Gli chiedo cosa sente e se gli ricorda qualcosa. Il silenzio lo riporta lontano nel tempo, nel lettone della madre, con cui dormiva vicino vicino. Appena chiudeva gli occhi però si sentiva rimpicciolire. Si sentiva sempre più piccolo e aveva la sensazione di allontanarsi sempre di più dalla mamma per finire inghiottito in un buio fitto. Un incubo? Un incubo intriso del terrore di non riuscire più a risalire da quel buio. Arriva anche a me. Sento di nuovo quell’irrefrenabile desiderio di dipingere. Mi accorgo che non riesco a stare totalmente in quel buio. Gli dipingo qualche goccia che fa comunicare il dentro con il fuori. Forse è la mia speranza. Ma quel bambino dov’è? È nella solitudine più profonda, nell’assenza di contatto con un altro essere umano, seppure sdraiato fianco a fianco con l’umano a lui più caro. Quale paura può portare con sé questa esperienza? Ho tanti interrogativi. Sembra proprio che se l’altro non è lì, visibile ai suoi occhi, scompaia. Ma chi scompare? Di quali occhi mi sta parlando?
Sento una costante lotta tra la vita e la morte. Ma mi chiedo, quale vita e quale morte? Indubbiamente ci sono traumi reali e un sintomo, eventi che vanno ben oltre le interpretazioni e le fantasie. Ma forse proprio per questo mi chiedo che fine abbia fatto la sua mente e se forse ci si possa chiedere se non è anche la mente che lotta tra la vita e la morte. La sua mente ora è caduta nel buio.
Ma come entrare in contatto con lui? Come aiutarlo a uscire da quel buio da cui la sua mente non sembra essere ancora uscita? Sento che la parola con lui non basta. Mentre parla, la cronologia appare continuamente confusa senza che lui si renda conto di tale confusione. Presente e passato si mescolano, si intrecciano e confondono le nostre menti. Utilizza i verbi che esprimono una direzione di movimento opposta a quella che intende, coniuga le forme verbali usando spesso il pronome dell’oggetto e non quello del soggetto: quindi a volte il verbo diventa plurale e si notano continue inversioni tra soggetto e oggetto. Non coniugando i tempi verbali in modo corretto, non si comprende se si riferisca al presente, al passato o al futuro. Questi aspetti confusivi del suo linguaggio credo possano rendere conto del modo in cui esperisce. Ho l’impressione che usi parole posticce. Le sue frasi e i suoi discorsi sono estremamente ricchi di richiami che però non possono essere esplorati perché appena gli si chiede di sostare si perde in un altro discorso.
Quale mano può calarsi in quel buio? Sento odore di marcio, di putrido e non riesco a tollerare che ci sia finito un bambino spaventato. Le parole con lui non bastano, mi ripeto.
Ma sento che quello non è un incubo, cos’è? Quell’immagine che ricorda, cos’è? Mi chiedo se abbia mai imparato a sognare. Sogni a occhi aperti, sogni nel dormiveglia, sogni che pescano dal più profondo dei nostri pozzi. Non è forse imparare a sognare che può farlo emergere dal suo buio? Ma per sognare bisogna essere in due e lui sembra averlo dimenticato.

La condizione psicologica del bambino non desiderato può quindi portarlo a percepirsi perduto nel fondo di un pozzo nero. Se, come sostiene Sartre, la formazione della personalità avviene a partire da un processo di interiorizzazione dell’esteriorità che costringe il soggetto a ritornare costantemente alle sue interiorizzazioni primarie; se, come è noto, l’azione che la famiglia esercita fin dai primi momenti ne condiziona il destino, l’interiorizzazione non presuppone però un soggetto neutro e preesistente. È invece «da tale azione – come sottolinea Massimo Recalcati nell’introduzione a L’idiota della famiglia – che si genera il processo di costituzione del soggetto stesso». Non c’è un dentro e un fuori, un’interiorità già costituita e un’esteriorità che la condiziona, ma solo una soggettività come processo sempre in atto di interiorizzazione e ri-esteriorizzazione dell’esteriorità interiorizzata.

Il pozzo è dunque un luogo metaforico che può generarsi dall’incontro con un’eredità familiare assente, irricevibile, non rielaborabile: come uscire allora dal suo fondo? Quali possibilità di riuscita, quali spazi di libertà restano a un soggetto precocemente defraudato?

Sartre si interroga sul destino di Flaubert, sulla capacità di trasformare se stesso in un genio: e trova la risposta nell’identificazione dello scrittore con il linguaggio letterario, una scrittura che, opponendosi alla realtà fisica, scopre nell’irrealtà dell’arte un mondo alternativo che lo riscatta e lo ricompone.

In assenza di affetti familiari sembra quindi che il soggetto non possa far altro che contare sulle proprie forze, che sfidare se stesso in una battaglia eroica e solitaria, una lotta pari a quella del Barone di Münchhausen che si tirava fuori dal pantano della palude afferrandosi per i capelli.

di Marta Restelli e Mario Mattioda

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