Un melanconico del Seicento

Saturno e Mercurio: lʼattrazione astrale di un artista

Molto spesso leggendo le vite degli artisti, in particolare dal Cinquecento in poi, non è difficile imbattersi in una qualità del loro carattere: la melanconia, sorta di tristezza di fondo che, connessa con l’influenza del pianeta Saturno, creava un terreno fertile per l’esercizio artistico.

I Greci furono i primi a pensare che il corpo umano fosse composto da quattro umori: sangue, flemma, bile gialla e bile nera, e che la salute di una persona fosse dovuta all’equilibrio di queste sostanze. Esse furono considerate i fattori determinanti del comportamento umano, in quanto si riteneva che l’eccesso di sangue generasse tipi sanguigni, di flemma i flemmatici, di bile gialla i tipi collerici e di bile nera i melanconici. Collegare i temperamenti a predisposizioni intellettuali e professionali fu praticamente istantaneo[1]. Ad esempio Aristotele nei Problemi (XXX, I) sostiene che «tutti gli uomini straordinari eccellenti nella filosofia, nella politica, nella poesia e nelle arti sono palesemente melanconici». Questa melanconia è però un dono precario poiché, se la bile nera è eccessiva, può produrre depressione, letargia e attacchi d’ansia. Nel Medioevo la melanconia era considerata un disordine psichico e la Chiesa la condannò in quanto prossima all’accidia. Solo alla fine del Quattrocento l’idea aristotelica fu ripresa pienamente, grazie al filosofo fiorentino Marsilio Ficino, che nel suo De vita triplici (1489) sosteneva che la melanconia – ovvero il temperamento ambivalente dei nati sotto il pianeta Saturno – era un dono divino dal quale scaturiva l’entusiasmo creativo.

Domenico Fetti, 'La Meditazione, o Malinconia'. Olio su tela, 1618. Venezia, Gallerie dell'Accademia.

Domenico Fetti, ‘La Meditazione, o Malinconia’. Olio su tela, 1618. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Non sempre però Saturno è stato il pianeta che ha influenzato gli uomini di genio. Fra il V e il III secolo a.C. i Greci avevano dato alle costellazioni e ai pianeti i nomi e le caratteristiche delle loro divinità e più tardi si pensò che tali qualità influenzassero il destino dell’uomo. Così, per esempio, il pianeta rosso venne associato a Marte: guerre, sventure e saccheggi appartenevano alla sua sfera e i nati sotto di esso erano destinati a essere soldati. Il pianeta più veloce, invece, fu chiamato Mercurio. Hermes era venerato tradizionalmente come dio del commercio e inventore delle arti, quindi per l’astrologia gli artisti erano nati sotto Mercurio. Il mutamento avvenne nel Rinascimento, grazie alla rivoluzione fatta da Ficino: ora gli uomini d’ingegno appaiono con temperamento saturnino e non più mercuriale. Da allora Saturno sarà considerato il loro pianeta[2], poiché la melanconia dei grandi artisti era qualcosa di scontato.

Il temperamento saturnino influenzava massimamente l’opera e le vite degli artisti fino, in alcuni casi, a portarli alla morte: uno dei casi più famosi è legato alla figura di Annibale Carracci.

Nato a Bologna il 3 novembre 1560, morì a soli quarantanove anni a Roma il 15 luglio 1609. A vent’anni si era unito al fratello Agostino e al cugino Ludovico, il più anziano dei tre, per fondare uno studio comune, in principio chiamato Accademia dei Desiderosi e in seguito Accademia degli Incamminati, che subito divenne il centro propulsore della pittura bolognese e il punto d’incontro di giovani talenti come Guido Reni, Domenichino e Francesco Albani.

Annibale Carracci, 'Autoritratto col cappello a quattr'acque', 1593. Parma, Galleria Nazionale.

Annibale Carracci, ‘Autoritratto col cappello a quattr’acque’, 1593. Parma, Galleria Nazionale.

Nel 1595 il cardinale Odoardo Farnese chiamò Annibale a Roma per decorare una parte del palazzo Farnese, dove questi creò uno dei massimi capolavori dell’arte europea. Al termine dei lavori però la salute del pittore iniziò a vacillare ed egli si ammalò nei primi mesi del 1605. Il letterato Giovanni Baglione ci riporta la probabile causa di questo declino: «Dopo aver finita la bella opera della loggia de’ Signori Farnesi, si avvilì, e diede una grandissima malinconia, che poco mancò, nol portasse all’altra vita; poiché dalla magnanimità di quel principe aspettava d’esser onorevolmente riconosciuto delle sue fatiche»[3]. Mentre il medico Giulio Mancini descrisse i sintomi di questo malessere in maniera molto puntigliosa: «Fu sorpreso da una estrema malinconia accompagnata da una fatuità di mente e di memoria che non parlava né si ricordava, con pericolo di morte subitanea»[4]. Con il tempo alla narrazione del Baglione si aggiunsero altri particolari dei quali è difficile oggi valutare l’attendibilità. Secondo il Bellori si trattava di disordini amorosi, mentre per il Sandrart era semplice follia dovuta alla vita dissoluta – affermazione quest’ultima poco veritiera, in quanto dai contemporanei il pittore era descritto così: «Sempre astratto egli, sempre solitario, pareva un’homaccio all’antica, un Filosofo»[5]. Sembra che la delusione dovuta alla parsimonia del committente, delusione del tutto sproporzionata e dubbia visto che Annibale stava vivendo un periodo di grandissima fama e non avrebbe dovuto combattere per ottenere prestigiose committenze, spinse il pittore ad andare a Napoli, dove però la sua salute non migliorò e anzi la sua attività subì un drastico rallentamento, anche se le poche opere di questo periodo non sembrano portare addosso le tracce del malessere del loro artefice.
Questa condizione durò in modo più o meno sta bile fino al 15 luglio 1609, giorno della morte del pittore, riportataci con grande intensità dal monsignor Agucchi che, scrivendo da Roma una lettera indirizzata a Bologna al canonico Dulcini, ci dice: «Egli andò ultimamente, quasi li venisse a noia il vivere, a cercarne la morte a Napoli, e non l’avendo trovata là, è tornato in questa pessima stagione, pericolosissima da fare tal mutazione d’aria, ad affrontarla a Roma»[6].

Non è possibile svolgere un’analisi clinica della malattia di Annibale Carracci, ma tutte le prove in nostro possesso sembrano indicare che egli fu travolto dall’esplosione delle sue tendenze melanconiche che gli permisero, però, di creare opere di forte intensità e che introdussero uno stile guida per tutti gli artisti d’ispirazione classicista.

Note

[1] Cfr. R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno, Einaudi, Torino 2005, p. 116.

[2] Ivi, p. 118.

[3] G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti, ed intagliatori, Napoli 1733 (1ª edizione Roma 1642), p. 102.

[4] G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Marucchi, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1956, p. 218.

[5] R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno, cit., pp. 129-130.

di Marco Saporiti

Autore

  • Laureato in Storia e Critica dell'Arte, ha una passione infinita per il Rinascimento tedesco, la batteria e la musica progressive. Ha la capacità innata di diventare un'ombra quando è al cospetto di troppe persone.