L’Abbraccio Freddo

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di Ivan Ferrari

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Come nascono i mostri? Cosa trasforma un uomo comune, un individuo razionale, in un folle monomaniaco capace di convertire interamente la propria natura al perseguimento di un fine perfettamente assurdo? Molti partono dal presupposto che si tratti di una mera devianza, un moto di allontanamento da qualcosa di assai migliore e di più radicalmente umano. Credono che alcuni sentimenti negativi possano talvolta prendere il sopravvento sulle altre parti, asseritamente benigne, che comporrebbero la nostra più equilibrata natura generale. L’odio, la rabbia, l’angoscia, la paura e tutti i loro affini sono pertanto considerati le matrici principali dell’orrore.

Non è così. Sentimenti simili sono sterili. La conseguenza fondamentale che possono provocare consiste in vuoti e assenze sofferte a seguito di un proprio mancato inserimento nel consesso sociale o di una mancata accettazione di se stessi. Essi inducono la voglia di distruggere tutto, compresa la propria persona. Tuttavia, i mostri sono una cosa diversa dai semplici assassini, dai violenti e dai pazzi. I sentimenti negativi possono divorare un uomo, non trasformarlo in un essere strutturalmente sociopatico. Possono divorare tutto e non risputare nulla. Ciò che trasforma, ciò che crea anche dal nulla, è l’amore. L’amore è fertile e produttivo. Sfortunatamente, se il sentimento più celebrato da opere artistiche di ogni tipo può produrre molti beni, è pur vero che sa generare almeno altrettanti mali. I poeti più raffinati hanno sempre saputo quante minacce premono sulla soglia del desiderio e hanno sempre messo in guardia i loro simili contro di esse.

Mi si dirà che l’amore può creare i mostri solamente qualora sia frustrato, deluso, o rifiutato. Che li genera come epifenomeno della propria mancanza o come implicazione negativa della propria essenza benigna. Chi si cimenta in queste improbabili teodicee cerca soltanto di difendere qualcosa che si è abituato a voler considerare un bene assoluto, avendolo spesso cercato tanto a lungo quanto invano. No, la verità è molto meno confortevole. L’amore genera i peggiori mostri proprio quando è ricambiato e realizzato. Solo allora conquista la sua piena energia e può deviare da tutte le direzioni comprensibili e felici, muovendo invece verso il più disperante annientamento delle illusioni collettive.

Mi chiamo André van Dyck e ho toccato con mano ciò di cui parlo. Da allora, la qualità della mia esistenza è calata notevolmente. Non sono più riuscito a dormire senza prima assumere qualche goccia di Lexotan o melatonina, né tantomeno ho più potuto immaginare di vivere una qualsiasi relazione sentimentale significativa.

La notte del trenta maggio, quando morì mio fratello, i canali medievali di Bruges brillarono di uno stupefacente scintillio dorato. In un attimo, questo lucore pervase le celebri vie battute dai turisti di tutto il mondo e la gente si riversò su ogni lungofiume per osservare lo strano fenomeno. Esso perdurò fino alle prime ore del mattino, esaurendosi un istante prima che i raggi del Sole potessero carezzare obliquamente i flutti, morbidi e freddi, in cui si era diffuso fulmineamente.

Non fu possibile capire di cosa si fosse trattato. In condizioni normali, una reazione del genere richiederebbe una grande quantità di particolari sostanze e avrebbe conseguenze facilmente riscontrabili sulla composizione chimica dell’acqua. Mio fratello aveva effettivamente disperso qualcosa nel canale, vicino alla diga del beghinaggio, prima di spararsi. Alcuni cocci bruni furono rinvenuti nell’acqua, proprio accanto al suo corpo. Dovevano appartenere a una bottiglia di Brugge Tripel da trentatré centilitri, perché un pezzo della tipica etichetta blu si era incastrato tra i rami penduli di un salice piangente che si piegava sull’acqua lì vicino. Il contenuto originale era scomparso, lasciando solo un paio di proteine organiche che potevano provenire da innumerevoli essenze animali.

I giornali alzarono un polverone sul problema del probabile inquinamento. Per settimane la gente temette intossicazioni e avvelenamenti, finché varie equipe di specialisti convocati dal Comune non garantirono che, qualsiasi cosa fosse stata rilasciata nei canali, era evaporata interamente e senza lasciare tracce. Riguardo al defunto autore di questo rompicapo, ipotizzarono sostanzialmente che fosse impazzito per motivi passionali. Le autorità inquirenti credevano che egli avesse assassinato il suo migliore amico dopo averlo sorpreso a letto con sua moglie. Non fu dato alcun credito alla mia convinzione che questa idea fosse completamente assurda. Insistettero nell’affermare che le evidenze andavano tutte in quella direzione. Eppure le cosiddette evidenze si limitavano all’assenza sostanziale d’indizi capaci di profilare una spiegazione alternativa. Certo, immagino che non sia stato arduo per loro ritenere le mie proteste una forma eccentrica di lutto. In fondo, ai loro occhi, ero pur sempre il fratello di un tizio che probabilmente era uscito di testa. Imparai allora quanto fosse stato malagevole il peplo di Cassandra.

Conoscevo bene mio fratello e sua moglie, conoscevo abbastanza anche quel suo caro amico tedesco di nome Klaus. È certamente vero che spesso dobbiamo ammettere di non avere mai conosciuto completamente nessuno, neanche noi stessi, ed è altrettanto vero che i tradimenti spesso trovano negli individui alcuni fondamenti emotivi imprevedibili e pressoché insondabili. Tuttavia, Amélie Doyen aveva sempre dimostrato grande amore per mio fratello ed entrambi noi la consideravamo una donna di straordinaria tempra morale. Da parte sua, Klaus si era fatto in quattro per lui in diverse circostanze. Normalmente non mi sarei potuto immaginare quei due in un atteggiamento così sleale. Figuriamoci, dunque, se potevo immaginarmeli nelle oscure contingenze che gravavano allora su quella casa! Alla dolce Amélie era stato diagnosticato recentemente un cancro ai polmoni particolarmente critico sia per il tipo, sia per la posizione. Sarebbe presto deceduta. Dubito che potesse avere anche solo le forze fisiche e mentali necessarie a consumare un tradimento. Tralasciando queste considerazioni, forse avrei potuto immaginare ancora meno quel bonaccione di Gérard uccidere chicchessia per qualsivoglia ragione. Di tutta la famiglia van Dyck lui era sempre stato l’esponente più serafico e razionale.

È vero che aveva una pistola con sé, quella notte. La usò per uccidersi e, in effetti, doveva averla usata anche prima: mancavano due proiettili nel tamburo, ma il suicida se ne era piantato uno soltanto in mezzo alla fronte. Egli doveva anche aver sparato il primo proiettile lontano da quel luogo, perché tutte le testimonianze raccolte nel vicinato parlarono di un unico sparo udito nelle tenebre. D’altra parte, mio fratello possedeva quell’arma soltanto perché nostro nonno gliela regalò sul letto di morte ed era un pezzo di antiquariato risalente al primo dopoguerra: un raro esemplare di revolver Modèle 1892 che carica sei proiettili da otto millimetri. In tutte le pistole di quella categoria, il bossolo resta nel tamburo, rendendo più difficile capire dove sia stato esploso un colpo che non abbia lasciato segni. Sapevo che mio fratello aveva fatto restaurare quell’arnese da uno specialista, ma non ero convinto che lo si potesse ancora utilizzare per uccidere senza che scoppiasse nelle mani di chi vi si fosse provato. Ho il sospetto che non ne fosse convinto nemmeno lui, mentre se la puntava alla tempia. La sua disperazione doveva essere insostenibile.

Qui stava, effettivamente, il nodo più difficile da sciogliere ai miei occhi: Gérard si era suicidato. Bisogna notare che anche questa triste impresa stonava completamente con l’immagine che avevo sempre avuto di lui. L’insano gesto non era stato nemmeno frutto di un attimo di debolezza e accecamento, perché egli aveva redatto il proprio testamento, prima di prendere la sua Opel Astra rossa e raggiungere il canale. Egli doveva sapere che Amélie sarebbe morta nell’immediato, o ritenere che già lo fosse, perché il testamento lasciava tutto a me. Questo elemento in particolare aveva motivato le conclusioni della polizia. Poco ci era mancato che non si traducesse in un grave sospetto contro il sottoscritto. Fortunatamente, avevo un alibi di ferro che in pratica bloccò eventuali indagini prima che potessero partire.

Amélie era gravemente malata e tutti sapevamo che sarebbe morta presto, ma questo genere di consapevolezza non dovrebbe indurre un marito prossimo al suicidio a preoccuparsi di escludere la moglie dalle voci testamentarie. Quando il notaio lesse le ultime volontà di Gérard, mi saltò persino in mente che quel documento potesse essere falso, o dovesse essere stato redatto in circostanze sospette. Era un testo completamente asciutto, persino asettico. Mio fratello mi lasciava tutto e non mi mandava nemmeno un saluto, limitandosi a scrivere che era la cosa più logica da fare, visto che lui e Amélie non avevano mai voluto avere dei figli e che lei era rimasta praticamente priva di parenti, a seguito di un brutto incidente risalente a circa dieci anni prima. Come se tutto questo non bastasse, il notaio, un vecchissimo amico di famiglia verso il quale ho sempre nutrito la massima fiducia, mi riferì che quel testamento gli era stato consegnato in fretta e furia due giorni prima di quelle uccisioni. Gérard non gli aveva detto di cosa si trattasse, ma soltanto di lasciare trascorrere quarantotto ore prima di aprire la busta in cui si trovava sigillato. Niente di ciò che era avvenuto rappresentava l’uomo la cui scomparsa mi addolorava tanto.

Fu quindi con un agitarsi di sospetti e incredulità nella mia mente che presi la mia Toyota Prius e raggiunsi l’abitazione isolata in cui Gérard aveva realizzato buona parte dei suoi sogni. Era una villetta rurale tradizionale, formata da due sobrie costruzioni rettangolari connesse che formavano una elle. La sezione principale aveva due piani, l’altra uno soltanto. Entrambe erano inoltre sormontate da una mansarda abitabile. La casa si trovava in mezzo a due polder sul Mare del Nord, in un sito non troppo distante dal capoluogo. Intorno aveva un boschetto di querce e olmi. Gérard era stato un biologo, aveva ottenuto una cattedra di botanica a Gand e si era laureato a Leuven. Nella sua villa aveva costruito, con molti sacrifici e fatiche, una piccola serra semicircolare. Aveva preso a modello il famoso orto botanico comunale della sua cittadina universitaria, un pezzo di storia risalente al 1821. La sua serra era connessa all’edificio più basso e quest’ultimo era praticamente diventato una piccola aranciera con un laboratorio biochimico nella mansarda. Niente di tutto ciò era immediatamente visibile a chi entrava dal passo carrabile. La sezione maggiore della casa si allungava verso l’anonimo cancello verniciato di bianco e quella minore si protendeva verso la sinistra dell’osservatore. La serra era però sul lato opposto, poiché sfruttava anche metà del muro della struttura a due piani. Gli ospiti di Gérard quindi la scoprivano come una sorpresa deliziosa: le piante, spesso esotiche e colorate, che la popolavano non mancavano mai di stupirli. Mi ero spesso divertito con lui a notare come persone, altrimenti molto seriose, introdotte in quel curioso angolo di mondo finissero invariabilmente con l’assumere un’espressione estranea al loro sembiante. Quell’espressione, ci dicevamo, sarebbe stata appropriata sul viso di un bambino che, giocando a fare il pirata nel prato di un giardino pubblico, avesse trovato all’improvviso un vero gioiello smarritovi da qualche ricco passante.

Non mi dispiaceva pensare di rivedere la casa in sé, anche se ovviamente la consapevolezza delle uccisioni che forse vi si erano recentemente consumate mi dava i brividi. La cosa che più mi angosciava era il fatto che la polizia non fosse ancora riuscita a ritrovare il cadavere di Amélie. Quello di Klaus, invece, era stato subito trovato nel giardino. Era orribilmente carbonizzato. L’abitazione era stata setacciata, così come il giardino stesso, ma della donna non era rimasta alcuna traccia. Una vasca di ceramica trovata nel laboratorio era ancora in mano alla scientifica. Al momento, s’ipotizzava l’uso di un superacido al fine di disintegrare il corpo mancante. Mi ricordavo di quella vasca, perché Gérard se ne avvaleva nello studio della vegetazione tipica delle torbiere. Spesso vi lasciava vivere degli insetti che inorridivano sua moglie. Ero convinto che non avrebbero trovato niente su quella pista e speravo piuttosto di notare io qualcosa di importante nella casa. Avevo ragione ad attendermelo, ma la prima cosa strana che notai non attese che varcassi la porta d’ingresso per rivelarsi. Era qualcosa di oscenamente evidente, come lo sarebbe un grinzoso culo flaccido rivelato da una grata della metropolitana che soffiasse in alto la sottana a una vecchia.

Quando aprii il cancello e vi feci entrare la mia automobile per parcheggiarla accanto alla porta d’ingresso, posta a metà della sezione a due piani, notai subito che l’atmosfera del giardino era cambiata. Qualcosa nell’aria mi fece sentire a disagio. Questa sensazione fu travalicata da un vero e proprio spavento che mi presi notando un grande albero posto nel mezzo del prato antistante l’acciottolato del viale. Quell’albero non c’era mai stato e non assomigliava minimamente a nessun albero di mia conoscenza. Io non sono un botanico e mi annoiavo moltissimo quando il mio compianto fratello si provava a spiegarmi certe cose. In seguito agli eventi di quei giorni, mi sono sentito obbligato a capirne qualcosa di più, ma allora versavo agiatamente nella mia ignoranza in materia. Avrei potuto dunque sentirmi semplicemente vittima della suddetta ignoranza, ma di una cosa ero certo: quell’albero era orribile.

Mossi qualche passo incerto nella sua direzione e decretai risolutamente a me stesso che quell’albero non mi piaceva, al punto che sentii persino di odiarlo profondamente. Ci sono molti alberi che, alla giusta angolazione, possono dare impressioni angoscianti. In certe ore crepuscolari, quando una tenue luce violacea si mescola a lunghissime dita di tenebra per effondere i festoni stregati della notte tra i rami contorti, i boschi sono semplicemente terrificanti. Chiunque abbia visto le ombre terribili che una qualsiasi Sophora japonica pendula può gettare sui viali verso l’imbrunire, sa di cosa parlo. Ancora più angosciante può risultare l’effetto di una Wisteria sinensis durante un tramonto autunnale, quando la si osserva arrotolata nelle sue lacere spire e immersa nei lividi raggi obliqui del giorno morente. Ci sono rampicanti che sembrano manifestare intenzioni aggressive nel modo in cui si avvinghiano intorno ai loro sostegni, come serpenti costrittori. Ci sono poi alberi alti e storti che, ammassati al sommo di una collina, possono talvolta apparire come una marcia di aberranti chimere vomitate dall’Inferno. Alberi che sembrano uomini neri, alti e snelli, stagliati contro la Luna. Testimoni senza volto di colpe inconfessabili. In alcune circostanze particolari, queste piante hanno saputo suggestionare anche gli spiriti più freddi e razionali. Tuttavia, appena cambia la luce, il loro aspetto ridiventa semplicemente grottesco, ma nient’affatto spaventoso.

L’albero che vidi allora, in piena luce, era qualcosa di completamente diverso. Non c’erano limiti al fastidio che suscitavano le volute dei suoi rami lunghi e ritorti. Odorava in modo pungente e acre, come una raflesia, ma vi aggiungeva un retrogusto ferroso che ricordava spiacevolmente l’aroma del sangue. Se ne stava abbarbicato a una roccia di granito bianco che non avevo mai visto nel giardino. La stringeva con alcune di quelle sue radici curve che sporgevano sopra la terra come archi di una mostruosa cattedrale. Vedendole, pensai inizialmente a una mangrovia, ma persino io sapevo che nessuna sottospecie di mangrovia poteva vivere così a settentrione. Il colore del suo legno era forse l’aspetto più inquietante. Era pallido, quasi bianco, ma con lievi venature rosa e rossicce. Queste abbondavano soprattutto sul tronco, corto e gonfio come un ventre gravido.

Scossi la testa, gli voltai le spalle e mi mossi rapidamente verso l’ingresso, deciso a non guardare più quella forma di vita così fastidiosa. L’interno della casa era in ordine, gli agenti che l’avevano perquisita parevano persino essersi preoccupati di dare un giro di aspirapolvere. Visitai una stanza dopo l’altra, ma non notai nulla di anormale. L’unico dettaglio che mi colpì fu un leggerissimo sentore dolciastro nella camera da letto, al secondo piano, ma non gli attribuii alcuna importanza. La cucina era al primo piano, nel punto più distante dalla serra. Prima di andare anche in quella sezione della casa, decisi di rilassarmi preparandomi un tè. Trovai subito la grossa scatola di latta che cercavo dove la ricordavo, sopra un vecchio armadio metallico tibetano che se ne stava in cucina tra il frigo e il piano del lavandino. Quel mobile tradizionale era lì da anni, una nota stonata più bella della piatta melodia postmodernista in cui era capitata. Non aveva molte decorazioni, ma alcuni simboli tondeggianti spiccavano su placchette d’argento indiano inchiodate qua e là, apparentemente in disordine, sulla sua lucida superficie. Prendendo la scatola, lo toccai e mi parve incredibilmente freddo. Inoltre ebbi una strana sensazione di vertigini. Lo aprii e lo trovai completamente vuoto. Mi parve strano, perché, seppure il mobile fosse stato più vecchio di quanto apparisse, aveva una struttura robusta. Lo richiusi con un’alzata di spalle e mi spostai sul piano cottura.

Amélie aveva iniziato, poco dopo il matrimonio, a fare post-fermentare le foglie di tè che il marito coltivava in giardino, comprimendole in mattonelle. Cercava di imitare la produzione del Pu’er che tradizionalmente caratterizza la provincia cinese dello Yunnan, dove aveva soggiornato quando era una giovane studentessa. Lei aveva sempre viaggiato molto, studiando le lingue e le usanze orientali nell’ottica di lavorare all’ambasciata cinese a Bruxelles. Era stato, infatti, durante un viaggio che mio fratello l’aveva conosciuta, quando era andato a esaminare la vegetazione acquatica del Mê Kông. Avevano percorso il fiume insieme, divertendosi nottetempo a scrutarne i flutti in cerca delle misteriose luci dei nāga, i leggendari rettili acquatici senzienti della letteratura indiana e indocinese. I pescatori indocinesi giurano ancora di vedere, nelle profondità di quell’antico bacino idrografico che copre ben 810’000 km², lunghi corpi squamosi scivolare tra fosforescenze globulari che proverrebbero da favolosi villaggi subacquei. Pensare a quelle dicerie, in quel momento, mi fece innervosire. Fortunatamente, il tè di Amélie che trovai nella scatola, adorna di rilievi raffiguranti speculoos e bastoncini di cannella, era straordinariamente buono e mi tirò su il morale.

Era tardo pomeriggio quando entrai nella seconda sezione della casa, connessa alla prima da un’unica porta nel salotto al pianterreno. Passando attraverso quella stanza, gettai uno sguardo alla mensola sovrastante il piccolo camino, piena di foto di famiglia. Sigillate nelle loro semplici cornici, quelle foto esprimevano ancora la serenità che mi ricordavo di aver visto dimorare lì negli anni precedenti. La luce entrava abbondante dalle finestre e illuminava perfettamente la scena nostalgica sulla quale non volli soffermarmi troppo. C’era molta luce anche nella piccola aranciera che trovai molto più in ordine e vuota del solito. Essendo luglio, molti dei suoi consueti ospiti dei mesi più freddi erano sparpagliati in giardino, nei loro grandi vasi quadrati. Per qualche oscuro motivo, augurai loro di trovarsi lontani da quel grosso albero così bizzarro che campeggiava nel prato davanti alla porta d’ingresso. Se avevo creduto di poter trovare qualcosa di sospetto in quell’ambiente, mi ero sbagliato. Decisi allora di dare una rapida occhiata alla serra, prima di curiosare nella mansarda dove era alloggiato il laboratorio chimico.

L’impressione terribile che mi aveva dato l’albero nel giardino era stata comunque meno pesante di quella che mi attendeva oltre la porta della serra. In un secondo momento, mi domandai a lungo perché i poliziotti non avessero chiamato un esperto di botanica per chiedergli qualche spiegazione. L’unica idea che tuttora mi convince abbastanza è che quelle persone abbiano voluto soddisfare il loro bisogno di sanità mentale concludendo che l’angosciante stranezza di quel luogo era causata dalla loro ignoranza in materia. Avranno voluto credere che un botanico avrebbe riso del loro allarme. Eppure non potevano essersi sentiti molto meno allarmati di me, quando vidi cosa viveva in quell’emisfero di vetro e ferro battuto.

Prima di quell’incredibile trasformazione, la struttura aveva sempre ospitato una graziosa vasca in muratura colma di alghe, muschi e ninfee. I vasi che circondavano lo specchio d’acqua come una corolla di petali ospitavano solitamente una miriade di magnifiche orchidee multicolori. La vasca era costantemente alimentata da una fontanella a muro, con la bocca a forma di bacchica maschera grecoromana di granito chiaro. Intorno, lungo la parete circolare, correvano dei gancetti appesi ai quali pendevano dei piccoli vasi contenenti giovani virgulti e singoli esemplari di misura ridotta di vari vegetali. In quella vasca erano vissuti diversi magnifici esemplari, perlopiù rari e affascinanti. Vi avevo visto sbocciare fiori grandi e coloratissimi, oppure schiudersi luccicanti foglie smeraldine.

Ciò che vidi in quell’occasione fu ben altra cosa. La parete curva della serra aveva come ospiti nei suoi vasi agganciati una serie di esseri che mi sarebbe stato più facile ritenere grasse larve bianche di coleottero, piuttosto che piante. Si sollevavano un poco sul terriccio nero e poi pendevano molli e flosce in ogni direzione. Nella vasca, invece, aveva preso alloggio un unico, enorme e brutto bulbo marrone che penzolava a pelo d’acqua appeso al soffitto con delle liane. Aveva delle spaccature lungo tutta la superficie dalla forma irregolare. Da queste lacerazioni emergeva un reticolo di sottilissimi filamenti verde smeraldo che galleggiavano sull’acqua e sbordavano dalla vasca, ricoprendola e arrivando a quasi a toccare il pavimento. Questa cosa impossibile aveva solo una dozzina di foglie sparse a caso lungo il corso delle otto liane che uscivano approssimativamente dal centro del bulbo, dove risaltava un’apertura che sembrava la piaga infetta di un appestato. La pianta era caratterizzata da un forte e disgustoso odore dolciastro, simile a quello della frutta marcia. La testa granitica, dalla bocca larga e ghignante, che si protendeva dalla parete mandava ora un flusso d’acqua molto scarso. Sembrava molto più mostruosa rispetto a prima, perché le sottilissime radici filamentose di quella pianta la ammantavano come una massa di capillari verdi. A una delle liane nodose che sostenevano la strana creatura era infine appeso un cartellino.

Lo consultai, sperando di capire qualcosa sulla natura di quell’essere, ma ciò che lessi mi parve incredibile. Vi riconobbi subito un messaggio di mio fratello per me. Vi era scritto Captatio secretorum e, accanto a queste parole, c’era una freccia rossa che indicava il bulbo. Quello non era certo un esempio di nomenclatura binomiale di Linneo. Era, invece, il nome che avevamo dato a un gioco piuttosto cretino che ci eravamo inventati nel periodo in cui frequentavamo le scuole secondarie. Il gioco consisteva nel mettere una mano nel buco di una scatola e palpare un oggetto postovi all’interno al fine di indovinare che oggetto fosse. Guardando meglio la freccia, notai che indicava il foro dal quale le liane emergevano. Guardai con angoscia quel buco ombroso, dai bordi slabbrati e umidicci. Mi vennero i brividi pensando a ciò che mio fratello sembrava starmi chiedendo di fare dall’oltretomba.

Dovetti sinceramente ricorrere a tutta la mia presenza di spirito per produrmi in un serio tentativo, ma sentii distintamente l’urgenza di adempiere a quell’ingrato compito. Il mio cervello riuscì in qualche modo a spegnere il flusso della coscienza, mentre la mia mano si muoveva verso l’umida apertura nella quale convergevano le liane. Per un folle istante, pensai di essere vittima dello scherzo più assurdo che sia mai stato messo in piedi ai danni di qualcuno. Immaginai che la mia mano sarebbe stata agganciata da una trappola per topi a molla, che avrei urlato come un bambino e che mio fratello, vivo e vegeto, avrebbe fatto irruzione nella stanza insieme a tutti i poliziotti del commissariato locale per ridere della mia credulità. Il mio senso di ribrezzo mi strappò a quella strana fantasia non appena, avendo infilato la mia mano nell’apertura, essa toccò una sostanza orribilmente fredda e viscosa che probabilmente riempiva quella parte del bulbo. A quel punto, scattando prima di ritrarsi, le mie dita si chiusero su un piccolo oggetto solido. Quando riebbi la mia mano davanti agli occhi e la coscienza fu pienamente ripristinata, vidi che le mie dita erano impiastricciate di un impasto bianco gelatinoso. Adagiata su quel disgustoso giaciglio, avevano tuttavia trovato un’unità di memoria USB, sigillata con un giro di nastro adesivo. Lavai il tutto nell’acqua della fontana, anche se era diventata molto torbida e non se ne vedeva che la superficie. Dopodiché uscii dalla serra e salii la stretta scala a chiocciola di ghisa che conduceva alla mansarda.

Temevo di trovarvi una nuova scena da incubo, ma ciò che mi attendeva lassù mi apparve soltanto incomprensibile. I tavoli con le teche, i vasi, i reagenti, gli strumenti e i registri erano tutti ammassati sul lato della serra, tanto quanto lo permetteva l’inclinazione del basso soffitto. Sul lato opposto c’era invece qualcosa che non avevo mai visto nelle mie numerose visite passate a quella casa. Sembrava un lungo appendiabiti a rotelle al quale erano agganciati dei contenitori di plastica simili a delle flebo. Il tubo di questi contenitori era intervallato da una sequenza di oggetti metallici che probabilmente erano dei filtri. Ogni flebo ne aveva una quantità differente. Avvicinandomi, notai che i vari filtri erano a loro volta di diversa composizione e che i tubicini in cui si trovavano confluivano tutti in un capiente becher millimetrato. Accanto a questi oggetti c’era una cucina da campeggio su cui erano posti tre bollitori diversi e una caffettiera. Subito dietro questa ennesima stranezza, c’era un tavolino di legno tarlato sul quale era appoggiato un computer portatile. Appeso alla parete in fondo alla stanza, c’era infine un ritratto di Amélie.

Ricordo che Gérard aveva insistito tanto perché lei permettesse a un’amica di Klaus di realizzarlo. Amélie non amava essere fotografata e quelle sul camino del salotto erano le uniche fotografie che la ritraessero a me note. Potevo immaginare quanto meno volesse essere dipinta. Non ho mai compreso la ragione di questa ritrosia, perché era stata una donna davvero graziosa. Aveva lunghi capelli neri e lisci come la seta, la fronte alta e le guance piene. Gli occhi verdi e luminosi, con gli archi delle sopracciglia dalla forma perfetta. Aveva il naso un po’ all’insù e le labbra leggermente sottili. Era piuttosto chiara di carnagione. Il dipinto la ritraeva seduta composta, con il suo consueto bel portamento. Sorrideva gentilmente in direzione di chi arrivava dalle scale.

Sotto al ritratto c’era una piccola mensola sulla quale era posato un ultimo oggetto davvero insolito. Anche quello non l’avevo mai visto prima. Era costituito da due pezzi di legno scuro, piatti e legati l’uno contro l’altro da una corda di canapa. Lo presi, sciolsi il nodo e lo aprii. La corda teneva anche legati, all’interno, dei foglietti di palma colmi di caratteri fitti e tondeggianti. La legatura alta delle lettere mi suggerì che dovesse trattarsi di un testo scritto in lingua sanscrita, mediante i classici caratteri devanāgarī. Aveva un aspetto molto antico, nonostante il materiale relativamente deperibile che lo costituiva. Lo richiusi e lo posai, rimanendo un istante a fissarlo perplesso. Mi sentivo ormai decisamente sovraccaricato da quella folla di stranezze.

Mi voltai e tornai al tavolino del computer, osservando l’oggettistica ammassata lateralmente. Notai che il numero di matracci, cilindri graduati, provette, storte, alambicchi e consimili, un tempo assai esiguo, era considerevolmente aumentato. Tolsi il nastro adesivo dalla chiavetta, sollevai il monitor e accesi il portatile. Era carico e aveva un solo utente registrato: Gérard. Il suo profilo non richiedeva alcuna password, quindi vi accedetti e inserii il dispositivo. Conteneva un unico file di testo, in formato PDF, che s’intitolava semplicemente Per André. Dopo un ultimo istante di esitazione, lo aprii e lo lessi. Ricordo molto bene ciò che vi era scritto, lo ricorderò per sempre.

“Caro André, se tutto è andato come ho programmato, tu sarai l’unico uomo al mondo a leggere questo documento. Presumo che, quando tutto sarà finito, deciderai di cancellarlo. Qui c’è la mia confessione. Non è la confessione del delitto che la gente m’imputerà, attribuendolo a un raptus o a una completa uscita di testa, bensì la confessione di un crimine ben peggiore. Sono l’artefice di uno sciagurato esperimento, un connubio improponibile tra le cose che vivono in un modo e quelle che vivono in un altro. Ho commesso un errore disumano, ma cercherò di porvi rimedio. Mi dispiace moltissimo doverti coinvolgere, ma qualcos’altro potrebbe andare storto. È necessario che tu riesca laddove io dovessi fallire. Ho nascosto il mio diario sotto la piastrella rimovibile che ti avevo mostrato, giù in cantina. Confido che te ne ricorderai. È quella sotto la quale io e la povera Amélie nascondevamo i documenti che non portavamo con noi, ogniqualvolta dovevamo lasciare la casa per qualche giorno. Trova il mio diario e leggilo a partire dall’annotazione del quattro marzo. Non ti chiedo di perdonarmi, ma soltanto di capire. Volevo salvarla.”

Chiusi il documento e spensi il computer. Mi sembrava di avere appena letto i deliri di un folle visionario. Mi alzai e girai intorno al tavolo per andare a guardare, oltre l’abbaino, il cielo che volgeva all’imbrunire. I miei occhi non poterono fare a meno di dirigersi verso l’albero nel giardino, come se sapessero che esso aveva a che fare con le parole appena lette.

Mi tolsi di lì per tornare al piano di sotto, deciso a scendere subito in cantina per trovare il diario. Mentre mi avvicinavo alle scale, notai, appesa al muro accanto alla loro imboccatura, la copia di una illustrazione risalente al 1887 che raffigurava la leggendaria pianta carnivora africana ya-te-veo. Questo essere aveva ricevuto più descrizioni nell’ondata di avvistamenti che in quel periodo lo avrebbero visto protagonista di presunti omicidi in buona parte del Sud del mondo. Stando all’autore dell’immagine, si sarebbe trattato di un arbusto alto circa tre metri che poteva avviluppare in gracili spire un aborigeno, facendolo dissanguare per mezzo di foglie vestigiali taglienti o spine vere e proprie. Non potei fare a meno di credere che fosse una sorta di pazzesco avvertimento, anche perché per terra c’era un orologio da muro il cui segno circolare campeggiava ancora sulla parete. I due oggetti erano stati sostituiti di recente.

La cantina corrispondeva soltanto alla struttura principale della casa. Scesovi, devo ammettere che mi rallegrai, soprattutto in ragione del contesto, di trovarvi due botti colme di birra trappista pronta per essere spillata. Mi aspettavo ormai di averne presto bisogno. Darsi all’alcool non è mai onorevole, né tantomeno saggio. Tuttavia, ci sono ostacoli che la ragione rende insormontabili e che solamente l’irrazionalità ha speranze di fronteggiare. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riuscii a ricordare quale fosse la piastrella corretta. Era effettivamente un nascondiglio eccellente, poiché non si notava alcuna differenza tra quella e le altre. Rimuoverla, infatti, era impossibile senza una ventosa. Proprio per questo mio fratello ne teneva una grossa e rossa, da idraulico, sulla mensola della cassetta degli attrezzi. Quello era il suo unico, insospettabile, uso.

Il vecchio libriccino con la copertina rigida di cuoio marrone fu presto nelle mie mani. Lo portai al pianterreno e lo posai sul tavolo della cucina. Aspettai di essermi preparato una zuppa waterzooi per cena, prima di aprirlo. Ci tenevo ad avere più sangue diretto allo stomaco che al cervello, perché presagivo che la lettura sarebbe stata emotivamente pesante. Quando finalmente mi decisi a cercare la pagina con la data indicatami nel file, erano già le dieci di sera. Il giorno dopo sarebbe stato un venerdì. Dovevo andare a lavorare in ufficio, quindi non potevo andare a letto tardi. Decisi quindi di leggere solo le annotazioni dei primi tre giorni, giusto per dare inizio a quella che mi prefiguravo come una lettura emotivamente provante. Ognuna di esse occupava un’unica pagina. Le prime due non erano molto significative, poiché vi si leggeva qualcosa di normalissimo. Mio fratello diceva di non riuscire più a concentrarsi sulle sue ricerche a causa della malattia di sua moglie. Scriveva quanto l’amava, quanto era affranto per le sue condizioni e quanto gli era difficile fingersi forte e allegro davanti a lei. Aveva messo per iscritto le solite domande che immancabilmente le persone sono obbligate a porsi in questi casi drammatici, nonché un paio di sacrosante lamentele contro la crudeltà del fato.

La terza nota era diversa: più breve e più intensa. Mi colpì sin dall’avvio. “Ieri sera è stata molto male, molto più del solito. Io sono rimasto seduto accanto al suo letto, impotente, incoraggiandola a resistere. Improvvisamente, lei mi ha guardato come in preda a una visione e ha afferrato la mia mano. Ho sentito che, con quei gesti febbrili, supplicava che fossi io e non i suoi farmaci a curarla. Io non sono un medico, sono un botanico. Che cosa posso fare? Anche se ricordo che proprio quando l’ho conosciuta, stavo conversando con un vecchio tibetano in merito alle sorgenti del Mê Kông. Ero sorpreso dalla difficoltà che sussisteva nel determinarne la posizione esatta. Egli mi disse delle cose che non ho più potuto dimenticare sulle piante e sulle malattie. Chissà se mi è possibile contattare qualche suo parente, lui ormai sarà morto da anni.”

Pensando al Tibet, gettai uno sguardo all’armadio metallico. Anche quell’elemento della casa cominciava a inquietarmi seriamente. Decisi di continuare a leggere, solo altre due note, perché la questione sembrava intrigante. Dal sei, la sequenza passava direttamente all’otto marzo con un’annotazione simile alla precedente in fatto di lunghezza. “Non posso crederci! Quell’uomo è ancora vivo. Sono riuscito a telefonargli. Mi ha detto che certe cose devono rimanere sepolte insieme ai gradi guru del passato. Ma io ho bisogno di capire se qualcosa nell’ambito della magia nera tibetana può aiutare Amélie. Dopotutto, la maggioranza dei farmaci utilizzati oggigiorno in Occidente deriva da conoscenze molto antiche che riguardano le proprietà curative delle piante. Quelle scoperte le hanno fatte individui che si presentavano come sciamani o stregoni che si ammantavano di mistero. Io devo vederci chiaro… Andrò là! Non importa quanto costa il viaggio. Andrò là e convincerò il vecchio a parlarmi di quella sua pianta segreta. Al peggio, sarà un viaggio inutile. Non è necessario informare nessuno dei miei parenti. Chiederò soltanto al buon vecchio Klaus di prendersi cura di Amélie mentre sono via.”

Il mio stupore giunse alle stelle. L’aveva fatto veramente? Spostai lo sguardo sulla pagina accanto, dove lessi l’intestazione “28/05 – Villaggio di Shaqiong.” Sconcertato lessi oltre: “Sono stanchissimo, ma in una ventina di giorni eccomi qui! È incredibile… Il vecchio Lobsang non sembra nemmeno cambiato molto. Quel brav’uomo si è preso un tempo tremendamente lungo per decidere se piegarsi alla mia insistenza, mi è parso il tempo più lungo che abbia mai sofferto nell’attesa di una decisione importante. Alla fine devo averlo mosso a compassione, perché ha accettato. Domani andremo insieme alla Riserva Nazionale Naturale di Sanjiangyuan, la zona in cui il Mê Kông nasce. La sorgente si trova presso il monte Gouzongmucha ed è proprio vicino a quel monte che si trova la grotta con lo stagno sotterraneo di cui Lobsang mi aveva parlato anni fa.”

Lessi anche la nota successiva. Era più lunga e datata due giorni dopo. “È stupefacente. Davanti a ciò che ho visto in quella piccola, assurda grotta posso solamente alzare le spalle e scuotere la testa. Non ho la più pallida idea di che accidenti sia quel vegetale. È diverso da tutte le piante di mia conoscenza, radicalmente diverso. Non sembra nemmeno di questo mondo, per certi aspetti. Potrei accostarne l’aspetto a quello di certe Polypodiaceæ, ma non è di quella famiglia. Ad ogni modo, sono riuscito a prendere dei campioni di tessuto e a estrarre i succhi che mi servono per sintetizzare il farmaco. Ho anche raccolto una cosa verde, piatta e ovale che Lobsang reputa un seme. A guardarlo, mi sembra piuttosto una sorta di grasso cladodio, ma effettivamente laggiù la luce è pochissima e una pseudo-foglia non risulterebbe molto utile all’organismo. Non giurerei che si tratti veramente di piante, non so nemmeno se siano capaci di effettuare la fotosintesi. Hanno qualche caratteristica fungina, questo è certo. L’oggetto che ho raccolto galleggiava nello stagno nero nel quale vivono questi criptidi. Non ce n’erano altri e non so immaginare da dove sia uscito, perché non ho nemmeno capito se si tratta di crittogame o fanerogame! Quelle piante, se così vogliamo chiamarle, sono immerse solo per metà nell’acqua. Forse galleggiano, ma hanno anche delle liane attaccate, non so come, alle stalattiti. Ho contato quarantadue esemplari. Lobsang sostiene che quella cifra sia immutabile. Un nuovo esemplare cresce solo quando ne muore uno vecchio, lasciandogli il proprio spazio. Dice che in un’altra caverna, non molto lontana da lì, abita una sorta di coscienza dèmoniaca o uno spettro intelligente che controlla e regola a distanza i processi vitali di queste creature. Mi pare che si sia riferito a questa entità usando il nome femminile di Lha-mo. È un nome che ho già sentito durante i miei viaggi. Mi sembra che fosse stato usato come esclamazione da una donna di Shigatse che aveva appena smarrito suo figlio. Un tempo avrei bollato questi ultimi riferimenti come pura superstizione, ma ora non sarei più pronto a scommettere granché su questi residui di positivismo. Se solo avessi scoperto tutto questo in altre circostanze! Sarà bene non pensarci, perché non voglio rattristarmi anche a causa di queste considerazioni. Comunque non capisco perché quel vecchio insista tanto nel chiedermi di giurare e rigiurare che non renderò l’esistenza di queste piante di pubblico dominio. È bravo a contenere le sue emozioni, ma io credo che abbia paura di quei vegetali e dell’uso che le persone potrebbero farne. Domani farò una cosa sbagliata. Lobsang mi ha detto come ottenere un farmaco prodigioso da questa pianta seguendo le istruzioni di un testo antichissimo in suo possesso. È scritto in sanscrito, non in tibetano. Lui dice che è un’edizione anomala dell’Ayurveda hindū. Forse è unica nel suo genere, perché fu modificata dagli stregoni medievali che praticavano la celebre magia nera tibetana. Ho la netta sensazione che quell’uomo mi stia nascondendo qualcosa d’importante. Mi sono convinto del fatto che quella da lui descrittami non sia l’unica medicina derivabile dalla pianta. La farmacopea indiana è sempre stata ricchissima e molto accurata. Ho deciso che gli ruberò quel testo e lo farò tradurre dei miei amici glottologi dell’università. Conosco un sanscritista e so che mi aiuterà accettando una spiegazione qualsiasi. So di essere un ingrato, ma il bene di mia moglie viene prima della morale.”

Mi alzai, lasciando il diario aperto sul tavolo. Dovevo proprio andare a letto. Finalmente comprendevo che cosa fosse quello strano manoscritto che avevo notato nel laboratorio. In quella casa era sicuramente accaduto qualcosa di più preoccupante rispetto a ciò che la gente aveva pensato. Dovevo dormire prima che questa intuizione, al momento appena abbozzata, mi riempisse d’angoscianti fantasie. Quando raggiunsi la camera da letto, fui nuovamente colpito da quell’odore dolciastro che m’indusse a tenere schiusa la finestra, rivolta alla boscaglia sul lato destro della casa. Dall’altro lato non avrei proprio voluto guardare fuori.

Il letto aveva qualcosa di strano. Non era matrimoniale, ma solamente da una piazza e mezzo. Inoltre non stava al centro della stanza, ma la testa e il lato destro erano aderenti alla parete, dove un artigiano aveva creato una decorazione elegante con pannelli di legno d’acero. Mi domandai se Amélie, magari a causa della sua malattia, avesse avuto l’abitudine di muoversi nel sonno, rischiando di cadere. Non potevo proprio saperlo.

Quella notte, nel mio usuale dormiveglia, mi parve di vedere un’ombra nera ai piedi del letto. Era immobile e immateriale, come le immagini che mi si erano fissate in testa, ma ricordava un profilo parodicamente umano. Avrei tanto voluto dormire profondamente e qualcosa d’incredibilmente maligno, in fondo al mio cervello, mi suggerì perversamente che avrei potuto farlo soltanto distendendomi sotto i rami contorti di quel dannato albero. L’albero che mi attendeva muto là fuori, nella notte, sotto gelide stelle occultate da immense nuvole nere. Mi sembrava quasi di vederlo, proprio attraverso quella strana ombra magra, ondeggiare la sua chioma lentamente, anche nel cuore di quella nottata perfettamente priva di vento. Sognai di camminargli incontro. Fu la prima volta in tutta la mia vita che il suono della sveglia mi fece tirare un sospiro di sollievo. Purtroppo non sarebbe stata l’ultima.

Tra il lavoro e quel minimo di spesa che dovevo fare, non rincasai prima delle otto di sera. Cenai e ripresi tra le mani il vecchio diario tascabile. Ero piuttosto ansioso di sapere come proseguiva la narrazione, ma una parte del mio cervello mi suggeriva che qualcosa non andava nelle annotazioni successive a quelle già lette e creava in me una strana esitazione verso il proseguimento della lettura. La grafia, in effetti, subiva una variazione evidente e, sfogliando rapidamente le pagine successive, si notava un’accentuazione costante di quel cambiamento. Progressivamente le lettere erano scritte con una maggiore inclinazione verso destra e si facevano più confuse. La mano che le aveva scritte era diventata ogni giorno più nervosa e forse ostacolata nelle sue operazioni da angosce e sensi di colpa.

La pagina successiva era datata 19/06. “Sono tornato a casa. Lei è peggiorata e la mia assenza deve averla intristita. Spero che capirà e soprattutto spero di avere scoperto qualcosa di concretamente utile. Quella sorta di seme che ho portato via dalla grotta è già germogliato in una teca del laboratorio. Mi chiedo quanto tempo gli occorra per svilupparsi. Nel frattempo, sto esaminando a fondo gli altri campioni. Ho anche già provveduto a consegnare il manoscritto al mio amico dell’università, il professor Geert Cox, inventandomi un mucchio di fesserie sulla sua provenienza. Sembrava molto eccitato alla vista di quel reperto. La medicina che Lobsang mi ha insegnato a preparare sarà pronta entro domattina. Non vedo l’ora di testarne l’efficacia.”

Proseguii con l’annotazione del 23/06. “Dopo la somministrazione, ho notato dei miglioramenti nelle condizioni di Amélie. Lei non si è resa conto di nulla, perché ormai non si domanda nemmeno come mai qualcuno venga a farle mangiare qualcosa o a praticarle un’iniezione. Anche il suo medico curante ne è stato colpito. Non gli ho ancora parlato della pianta, voglio aspettare perché non posso prevedere le conseguenze che la divulgazione di questa scoperta comporterebbero per me, per il mio tempo e soprattutto per i campioni che ho raccolto. Per ora devono rimanere a mia completa disposizione. Ho fatto tutto questo per mia moglie. Tutto il resto è secondario, l’intera umanità è secondaria. Il germoglio nel laboratorio cresce a vista d’occhio. Forse potrò presto disporre di un esemplare adulto di quelle piante incredibili. Sono sicuro che potrò alloggiarlo bene nella mia serra, gli ho già sistemato gli appigli per quando avrà sviluppato i suoi spessi viticci.”

Il giorno dopo continuava. “Oggi il vecchio Lobsang mi ha telefonato dal Tibet. Alla fine, è riuscito a recuperare il mio numero. Ho fatto il finto tonto davanti alle sue accuse e la sua reazione è stata davvero inaspettata. Invece di arrabbiarsi sempre di più, come prevedevo che avrebbe fatto, mi è sembrato triste e in pena per me. Mi ha lanciato stranissimi avvertimenti riguardo ai contenuti del manoscritto. Insisteva perché io non facessi altro che sintetizzare il farmaco che lui mi ha insegnato a produrre, senza tentare altre sperimentazioni legate alla pianta. Ha inoltre insistito nuovamente per farmi giurare di non dire a nessuno ciò che ho visto e appreso. Forse voleva solo spaventarmi. Devo ammettere che in questo caso, in qualche modo, ci è riuscito. Comunque, nonostante le mie promesse al riguardo, ulteriori sperimentazioni dovrò farle per forza. Quel farmaco non sta guarendo mia moglie. Come avevo previsto, aiuta il suo organismo a combattere la malattia e lo fa in maniera eccellente, ma non è sufficiente. Domani andrò a trovare Geert per sapere se ci sono delle novità riguardo al testo. So che ha messo a lavorarci alcuni suoi studenti e colleghi. Per fortuna, sembra essere ansioso quanto me di sapere cosa c’è scritto. Anche se i suoi caratteri sono piccoli, non si tratta di un libro lungo. Posso sperare di averne la traduzione molto presto. Intanto continuerò a dare ad Amélie quella medicina che, se non altro, le sta allungando la vita e lenendo i dolori. La pianta continua a crescere svelta, pare che il nutrimento che le fornisco sia azzeccato.”

Non riuscii a leggere subito la nota seguente, perché un forte torpore m’indusse a coricarmi presto.

A parte il solito aroma dolciastro, non notai nulla di strano nella camera da letto. Fu nel sogno che provai qualcosa di fastidioso. Sognai Amélie. Non la vedevo in viso, ma sentivo dalla stentatezza del suo respiro e dalla freddezza del suo corpo che era emaciata. Mi abbracciava e provai la terribile sensazione che quello fosse l’abbraccio freddo di un cadavere. Le sue braccia magre e deboli si movevano in modo innaturale e costruivano fantasie orribili nella mia mente. Pensai di essere tornato ai primi del XIX secolo e di stare osservando uno dei macabri spettacoli di Giovanni Aldini, il nipote di Luigi Galvani che cercava di resuscitare i morti grazie agli studi del suo predecessore. Potevo quasi vedere il viso di quell’eccentrico fisico italiano intento a sorridermi malignamente, mentre attivava degli elettrodi per stimolare i nervi delle braccia recise di un cadavere da lui recuperato in un manicomio per l’occasione, inducendole a stringersi orribilmente intorno a me. Inoltre, trovavo sgradevole il fatto stesso di giocare, seppure in quel modo così atrocemente distorto, il ruolo di mio fratello nella sua intimità coniugale. Quando mi svegliai di soprassalto, mi accorsi che era già mattina. Osservai il punto dove, nel sogno, si era trovata la donna, ma vidi solo la lastra di legno ornamentale che con altre due più corte ornava la parete accanto a me. La sveglia suonò, facendomi sobbalzare. L’odore dolciastro era aumentato e ora mi ricordava vagamente quello che avevo sentito aleggiare nel vecchio coffee shop di Maastricht, quando diversi anni prima avevo voluto provare a fumare la cannabis. Ricordai di aver acquistato un purino realizzato con una sottospecie cresciuta in una coltura idroponica che tutti reputavano ottima e che mi fece stare malissimo. Le divertenti conseguenze di quel mio esperimento mi fecero sorridere e attenuarono il senso di oppressione che provavo. Aprii la finestra e uscii. Ebbi da fare anche quel giorno per tutto il dì.

Ripresi la lettura del diario dopocena, sedendomi su una poltrona in soggiorno, posta davanti al camino spento. Sentivo crescere in me l’ansietà per i contenuti che andavo a indagare. La nota del 25/06 fu una delle cose più stravaganti che avessi mai letto in vita mia. “Non posso crederci! Non ha senso… Eppure è chiaro ciò che mi viene chiesto di fare. Quel documento sembra proporre un’operazione che suona molto simile a una manipolazione genetica. Il professore non riusciva a credere a ciò che aveva tradotto. Ai suoi occhi sembrava soltanto un’assurdità i cui termini gli suonavano perlopiù incomprensibili, anche perché si riferiva a cose la cui descrizione gli sembrava priva di significato. Non aveva mai trovato niente del genere nei libri tradizionali del canone ayurvedico. Secondo lui, deve trattarsi di un rituale strettamente tibetano e puramente sciamanico, peraltro reso ancora più difficile da intendere dal fatto che la lingua e lo stile di scrittura presentano numerose corruzioni dialettali. Quel buon uomo si sta ancora scervellando per rileggere in chiave simbolica e mistica la maggioranza delle espressioni che ha incontrato. Io non gli ho detto nulla, ma per me i riferimenti erano fin troppo chiari sia perché sono un botanico, sia perché ho sondato le tenebre nella grotta dei criptidi. La sezione centrale del testo dice che è possibile inserire il sangue di una persona in una minuscola sacca della pianta, posta in mezzo alla rientranza dove convergono i viticci. Pare che la reazione della pianta consista nel convertirlo in una sostanza biancastra che riempie proprio quella rientranza. Se poi quella sostanza viene decantata, filtrata e immessa nelle radici di un albero questo acquisisce, stando alla lettera del testo, un’essenza umana. Dopo una settimana, si può far bere la linfa estratta da quell’albero alla persona dalla quale veniva il campione di sangue iniziale, al fine di renderla immortale. È incredibile e non riesco nella maniera più assoluta a credere che una pianta possa fare una cosa del genere. Perché mai l’evoluzione avrebbe portato all’esistenza di una simile forma di vita vegetale? È anche vero che l’universo è tanto grande quanto capriccioso. Quale legge impedirebbe all’era geologica dimenticata di un pianeta remoto di cambiarmi la vita qui e ora? Per quel che ne capisco, questi criptidi potrebbero anche essere usciti direttamente dall’Inferno, ma non ha importanza. A questo punto, io devo fare anche questo tentativo. La sacca perlomeno esiste, l’ho già individuata. Sembra, in effetti, una sorta di vaso per la raccolta di qualcosa, ma non capisco di cosa. Mi domando se ne possa uscire un fiore nella giusta stagione. In ogni caso, sistemerò la pianta nella serra, perché è già troppo grande per le teche e i vasi. Domani prenderò ad Amélie una mezza siringa di sangue, dicendole che il dottore vuole analizzarne un qualche valore. Mi costa un’inaspettata fatica compiere azioni così poco scientifiche, per nulla morali e nemmeno vagamente razionali.”

La nota seguente, di due giorni dopo, fu la prima a farmi andare davvero il cuore in gola: “Non so se essere più stupito, più esultante o più spaventato dal fatto che l’esperimento abbia finora funzionato a meraviglia. Se non l’avesse fatto, avrei potuto imputare il fallimento anche alla giovanissima età dell’esemplare nella serra. Invece ha fatto il suo misterioso lavoro nel giro di una giornata. Ci ho versato il sangue ieri pomeriggio e stamattina sono andato a vedere come andavano le cose. Ho trovato l’incavo pieno di una sostanza viscosa e bianca, simile a latte condensato. Ne ho posta una dose in tre siringhe e l’ho inoculata abbondantemente nelle radici di un giovane platano che ho comprato per l’occasione e piantato oltre la piazzuola dell’ingresso. Posso tenerlo sotto osservazione direttamente dalla mansarda e dall’aranciera. Forse peccherò di vana curiositas, ma sono davvero ansioso di vedere cosa accadrà. Ora vado a somministrare invece un’altra dose della medicina di Lobsang ad Amélie. Povero, il mio caro amore! Sono così in pena per lei. Ah, il vecchio non si è più fatto sentire. Spero che abbia rinunciato definitivamente all’idea di relazionarsi con me.”

Mi separai dal diario e camminai fino all’ingresso, come stordito. Un platano? Un giovane platano? Quella brutta cosa lì fuori, dalla cui vista ora mi divideva solamente la porta di legno massello, non era affatto un platano. Per quanto ignorante potessi essere in fatto di alberi, sapevo che quello in giardino non era nemmeno lontanamente un esemplare di quella specie. Cominciavo a pensare che veramente mio fratello avesse trafficato con cose che erano fuori dalla sua comprensione o quantomeno dal suo controllo. Avevo visto e letto molte assurdità in quella casa che potevo attribuire a delle fantasticherie e a delle suggestioni. Ma questa no! A questa ci credevo. Quell’albero orribile aveva davvero bevuto il sangue di Amélie, trasmutato in una sorta di ricombinatore genetico dal criptide esotico che ora troneggiava nella serra. Possibile che quella pacifica villetta di campagna fosse diventata un autentico museo degli orrori? Schiusi la porta, dovetti farlo, e nell’oscurità avanzante guardai quella cosa orribile che stava lì fuori, come un lupo in agguato nella notte. Il suo profilo oscillava lentamente con movenze serpentine, quasi ipnotiche. Richiusi la porta e ci appoggiai la schiena, cercando di calmarmi e traendo grossi sospiri. Ma non potevo fare a meno d’immaginare quella cosa intuire i miei pensieri, sollevare le sue radici animate e strascicarle verso la casa, verso di me. Lenta e inesorabile. Potevo quasi sentirla fremere le sue fronde mutanti, emettere schiocchi minacciosi dalla corteccia molliccia e schiudervi occhi provvisori, come quelli di uno shoggoth lovecraftiano. Potevo quasi sentirla avanzare sulla ghiaia verso di me, producendo un cupo tramestio. Doveva essere vicina, così vicina! Fu allora che sentii bussare alla porta.

Ancora oggi non so dire come, a quel punto, io non sia svenuto. Quel battito regolare sul legno si comunicò alle mie scapole. Ero raggelato e mi sentivo morire. Tuttavia, invece di gridare terrorizzato, mi trasformai in una sorta di automa. Fu come se uscissi dal mio corpo e lo guardassi da lontano, mentre si scostava silenziosamente dall’uscio e calava una mano tremante sulla maniglia per accogliere la propria distruzione.

Il sollievo che provai fu tanto travolgente quanto scontato, appena vidi sulla soglia l’inconfondibile profilo del mio più vecchio e caro amico Jos Alexis Wilders. Fu divertito dall’aria mezza sconvolta che dovette rilevare sulla mia faccia, ma anche un po’ preoccupato. Avendo saputo che per qualche giorno intendevo rimanere in quella casa, aveva pensato di venirmi a trovare. Come al suo solito, non mi aveva però avvisato. Fui felice della sua visita. Nessuno dei due aveva niente di particolare da fare l’indomani, quindi potevamo rimanere svegli fino a tardi a chiacchierare come era nostra abitudine in simili occasioni. Sembravamo proprio due comari. Per quanto fossi curioso di sapere come proseguiva la narrazione del diario, preferivo di gran lunga svagarmi. Era maturata in me la stravagante convinzione che non sarebbe accaduto nulla di letale, finché non avessi preso pienamente coscienza di quanto era accaduto a mio fratello e a sua moglie. Forse era la stanchezza a suggerirmi quest’idea assurda, dopotutto avevo lavorato sodo in ufficio nell’ultima settimana e il mio sonno era stato sempre disturbato. Con una scusa, tornai da solo in soggiorno per nascondere il diario in mezzo ad altri libri su uno scaffale, dopodiché pensai solo a svuotarmi il cervello.

Bevemmo dignitosamente la birra che avevo trovato in cantina, ma parlammo oltre ogni ritegno. Io finii con l’addormentarmi sul divano, borbottandogli che poteva prendersi la camera da letto in cima alle scale. Lui ci andò e io sprofondai negli abissi di un sonno molto più calmo e sereno di quello delle due notti precedenti. L’indomani il mio amico fu il primo a svegliarsi e quando lo vidi in cucina che si preparava la colazione mi parve alquanto teso. Gli domandai se avesse dormito bene e lui mi rispose di sì. Era ovvio che stesse rispondendo così per pura cortesia, ma io decisi di non insistere. Non seppi mai cosa avesse visto, udito, fiutato o in qualche altro modo percepito lassù. Tuttavia, sembrò stranamente ansioso di andarsene. Decisi di assecondarlo e lo accompagnai al portone appena ebbe finito di mangiare. Prima di andarsene, gettò un’occhiata intensa all’albero mutante nel cortile e mi domandò che cosa fosse. Io scelsi di mentire, affermando che semplicemente non lo sapevo e che doveva trattarsi di una specie rara studiata dal mio compianto fratello. Lui annuì e se ne andò. Era ovvio che quell’albero avesse innervosito il mio amico tanto quanto aveva allarmato me la prima volta che l’avevo visto.

Quel giorno fui assalito dalla sciocca volontà di non leggere nemmeno una delle terribili pagine scritte da mio fratello. Sapevo che ne erano rimaste soltanto quattro o cinque, ma non volevo percorrere quella strada d’inchiostro nero che mi avrebbe condotto a ben più nere rivelazioni. Le righe che mi distanziavano dalla verità erano come un muro d’ignoranza erto a tutela della mia sanità mentale, contro la consapevolezza di qualcosa che non potevo sopportare. Passai l’intera giornata a negare ogni cosa a me stesso. Mi comportai nella maniera più pateticamente normale che si possa immaginare. Imputai tutto ciò che mi era accaduto a una psicotica trama di suggestioni e stress. Dall’esterno chiunque avrebbe pensato che stessi agendo in maniera assurda, ma vivere un’esperienza del genere è qualcosa che ottunde ampiamente i sensi e la ragione. Riuscii quasi a convincermi di essere stato vittima di allucinazioni provocate da una qualche esalazione proveniente dalla pianta che cresceva nella serra. Immaginai che anche mio fratello ne fosse stato vittima e che per questo fosse impazzito. Quando andai a letto, quella notte, ero così convinto di questa teoria che mi addormentai con la certezza di dover chiamare un medico tossicologo il giorno dopo. Ricordo che ero perfettamente sicuro di quello che avrei fatto e la cosa mi faceva sentire tranquillo quasi quanto lo ero stato prima di mettere piede in quella casa. Poi la sensazione finì, perché vennero i sogni! Sognai l’abbraccio freddo di pallide braccia morte, strette intorno al mio petto impietrito dall’orrore. Sognai caverne buie, smarrite tra le nebbie incolori di montagne dimenticate, e udii una brezza sinistra fischiare tra le stalattiti sgocciolanti. Sognai di camminarci attraverso, guidato da un’ombra antica che m’indicava teredini raggrumate negli angoli più remoti di quegli antri plurimillenari. E ovunque puntasse quel dito raggrinzito, vecchio forse più di quel posto maledetto, sentivo strisciare e brulicare piccole masse confuse che potevo sempre e solo intravvedere vagamente. Infine sognai l’albero, lo schifoso albero palpitante e viscido che stava in agguato fuori dalla mia porta!

La nota datata 28/06 dette inizio all’ultima mattina infernale che passai in quella casa. Parlava di ciò che avevo appena, nuovamente sognato e lo faceva nei termini più indesiderabili. “L’albero sta mutando! Non riesco a credere ai miei occhi. Muta ogni giorno, quasi ogni ora. Muta a vista d’occhio. Non solo sta crescendo più in fretta della pianta nella serra, ma è anche diventato qualcosa di completamente diverso da un platano. È incredibile! Ora mi sento davvero male all’idea di ciò che sto per fare. Vorrei credere ancora che non sia possibile farlo. Dopotutto, pochi giorni or sono, avrei affermato con forza, a chiunque fosse stato tanto strampalato da farmi una domanda in materia, che il regno vegetale e il regno animale non possono mescolarsi in nessun modo. L’idea di poter congiungere o mescolare un organismo autotrofo con uno eterotrofo mi sarebbe apparsa grottesca, se non proprio ridicola. Certo, ci sono taluni molluschi marini che hanno rapporti simbiotici davvero stupefacenti con determinate alghe che vivono nei loro corpi traslucidi e che vi svolgono la fotosintesi, ma altre cose, cose più spinte, non possono e non devono accadere. Non devono, no… So che è così, ma vedo anche che Amélie sta tanto male! Sta davvero troppo male! Negli ultimi tre giorni è peggiorata terribilmente e anche la medicina che le ho sintetizzato non la sta più aiutando in nessun modo. Aspetterò ancora due giorni, per assicurarmi che la mutazione sia stata completata, dopodiché farò ciò che va fatto. Ho tanta paura delle conseguenze che la mia scelta porterà con sé, ma ho ancora più paura all’idea di perdere mia moglie. Sento scorrere nelle mie vene la rabbia febbrile di un alchimista, di un Faust goethiano che mira a dominare l’intero spettro dei processi naturali. Gli uomini non sono animali capaci di adattarsi, sono animali rappresentazionali dotati di organi manipolatori. Se le cose vanno male, gli uomini cambiano le cose, non se stessi. L’hanno sempre fatto e i migliori tra loro l’hanno fatto più degli altri. Non c’è niente di meno giusto della natura, niente di meno sopportabile della morte. L’uomo è chiamato dai propri limiti a superare i limiti del mondo. Io distruggerò il palazzo della vita e lo ricostruirò più grande e più bello di prima.”

Riflettei su quelle ultime parole. Non era la prima volta che mio fratello faceva discorsi simili, ma, fino ad allora, mi era sempre stato facile trovarmi d’accordo con lui. In passato, infatti, aveva usato quei toni contro il patetico bigottismo di certi ignoranti che rifiutano talune terapie o che non vogliono concedere ai loro simili talune libertà perché le considerano contrarie a un’ipotetica natura umana. È chiaro che, parlando di natura, costoro parlano della morale biblica, o di altri concentrati religiosi che sono in realtà artefatti sociali perfettamente innaturali. È tanto facile quanto comodo confondere la natura umana con la propria natura individuale.

È altresì logico notare che, se davvero l’uomo dovesse abbandonarsi alla natura, intesa come state of affairs, allora non dovrebbe nemmeno tentare di correggere tutte quelle ingiustizie che il mondo da sempre produce, come le malattie e le disabilità. Eppure l’uomo le ha sempre corrette, o almeno ha sempre tentato di farlo. Non ci vuole un filosofo per capire che la giustizia e la natura sono concetti profondamente differenti e spesso tragicamente conflittuali. Con buona pace di Francesco d’Assisi, non c’è e non ci sarà mai alcuna giustizia nella miseria e nella morte. La lezione del Frankenstein di Mary Shelley è sostanzialmente sbagliata, perché non è vero che ci sono conoscenze che l’uomo non deve avere. È piuttosto vero che ci sono modi estremamente sbagliati di usare siffatte conoscenze, dopotutto ci sono modi estremamente sbagliati di usare qualsiasi cosa. Ma Gérard aveva sbagliato anche da questo punto di vista. Aveva agito ancora prima di conoscere alcunché. Era andato procedendo a tentoni in una camera buia, pur sapendo che in quella stanza stavano ammonticchiate in equilibrio precario alcune cose molto delicate, molto preziose e molto pericolose. Esistono verità simili a luccicanti coppe di cristallo boemo, colme di nitroglicerina.

La nota successiva era orribilmente ovvia. “L’albero è diventato l’incarnazione di un incubo! Non so più nemmeno capire se sia ancora un vegetale. Oggi provavo una ripugnanza insopportabile mentre mi avvicinavo e ne tagliavo la corteccia per prelevarne la linfa. Quella corteccia così gommosa e spugnosa all’interno! E, peggio ancora, quella linfa rosata! Mentre incidevo il legno, mi è sembrato che le fronde fremessero infastidite e, quando mi sono allontanato con i campioni appena raccolti, mi è sembrato che l’albero fissasse adirato la mia schiena con milioni d’invisibili occhi. Ho iniettato piangendo quella roba nel braccio del mio amore. Povero angelo, era svenuta! Non so nemmeno come ho fatto. Non capisco più cosa mi dia la forza di agire. Ormai mi sembra di riottenere un briciolo di lucidità solamente quando scrivo questo diario. Subito dopo, l’ho portata in ospedale come se niente fosse. Ora vado a letto. Domani sarò da lei. Ho un sonno insopportabile, anche se ho il terrore di averla appena assassinata. Klaus mi ha telefonato, perché ha saputo che lei sta tanto male. Domani verrà qui e mi accompagnerà in ospedale. Sono distrutto.”

Voltai pagina, pregando a questo punto di stare per leggere qualcosa di razionalmente meno devastante. Invece lessi esattamente l’opposto: “Sta bene! Amélie sta bene! Il manoscritto dice la verità dall’inizio alla fine. Nell’ospedale non riuscivano a crederci. Le hanno fatto un mucchio di analisi e mi hanno pregato di riportarla lì settimana prossima. Forse dalle analisi capiranno che c’è qualcosa di strano, ma, se tutto va bene, perché non dovrei pubblicare questa scoperta epocale? Perché un vecchio mezzo stregone superstizioso mi ha chiesto di non farlo? È tutto così grandioso! Amélie sta bene! Sta bene…”

La nota successiva era del giorno dopo, il primo di luglio. “Sono contento che Klaus possa rimanere con noi un paio di giorni. Amélie è strana. La sua pelle ha un clorito insolito, quasi olivastro. Stamattina le ho toccato il polso e mi è sembrato che il cuore non battesse, ma poi, riascoltandolo, ho appurato con sollievo di essermi sbagliato. Forse sono soltanto mie impressioni, ma il suo umore sta attraversando fasi alterne. È prevalentemente serena, ma talvolta sembra arrabbiarsi senza motivo. C’è qualcosa in lei che addirittura mi spaventa, ma non capisco cosa possa essere. Forse la cosa più inquietante è il profondo fastidio che sembra provare per la luce solare.”

Il giorno dopo, mio fratello scriveva: “È terribile. Perché quel maledetto manoscritto non metteva in guardia da questa possibilità? Mia moglie sta cambiando nella stessa maniera in cui è cambiato l’albero nel giardino. Ecco cosa mi faceva paura di Amélie già ieri sera! Ravvisavo in lei qualcosa di quell’albero. È l’odore della sua pelle. Assomiglia a quello della linfa che ho estratto. Ora i suoi movimenti sono diventati più sinuosi. Il suo sguardo è vacuo, ma continua a digrignare i denti verso di me. Ha smesso di parlare e mangiare. Si è chiusa in camera da letto. Klaus è spaventato e mi sta chiedendo di riportarla subito in ospedale, ma non so se loro potranno più fare qualcosa. La lasceremo stare fino a domattina.”

La nota seguente aveva la data scritta con una penna di un altro colore. Probabilmente era stata aggiunta dopo. Era del giorno successivo. “Stanotte ho sentito dei rumori in cucina e ho trovato Amélie intenta a divorare della carne cruda. Cosa scrivo? Quella cosa non è più Amélie, non è più mia moglie. È un mostro carnivoro uscito da un incubo delirante. I suoi denti ora sono affilati. Il suo viso… No, è un insulto a ciò che lei era descrivere il modo in cui sta diventando. L’ho legata a letto. Klaus per fortuna era andato a trovare un nostro conoscente. Tornerà qui dopocena. Forse è arrivato il momento di confidarmi con qualcuno.”

La nota successiva non aveva nessuna data, ma i contenuti suggerivano che fosse stata scritta il giorno stesso. La grafia era quasi illeggibile, ma stranamente la mia lettura riuscì scorrevole, come se qualcosa nel mio subconscio fosse dotato di chiavi d’interpretazione che non avevo mai usato prima. Mentre leggevo, le mie mani tremavano e i miei occhi lacrimavano dall’orrore.

“Ha ucciso Klaus! Era appena entrato dal cancello quando quella cosa, liberatasi dai lacci con cui l’avevo imprigionata, si è scagliata contro di lui e lo ha trascinato ai piedi dell’albero mutante. Qui gli ha strappato a morsi mezzo collo. Io ho visto la scena dalla finestra della mansarda e non sono riuscito a intervenire. Non ho potuto fare niente. Sono sceso nell’aranciera, mentre lei continuava a sbranarlo. Ho preso il diserbante più potente che avevo e l’ho spruzzato su quella faccia così orribile, ancora intenta ad affondare i denti. Le urla che quella creatura ha lanciato erano persino più orribili e spaventose del delitto che aveva compiuto. Avevo creduto che fosse ormai muta! Ero arrivato a credere che potesse solo ringhiare. Invece, ha emesso una sorta di stridio, come un cicaleccio amplificato fino a risultare assordante. Sarei impazzito, se non avesse smesso dopo pochi istanti. È caduta di lato, morta… E quel mostruoso albero ha sollevato dal sottosuolo le sue radici e le ha avvolte come serpi sul cadavere di Klaus, trascinandolo nel terreno sottostante il tronco. Il corpo dell’altro mostro non l’ha toccato, forse sarebbe stato cannibalismo o persino qualcosa di peggio. Cosa ho fatto? Cosa devo fare ora? Ecco a cosa hanno portato tutti i miei sforzi! Vorrei uccidermi immediatamente, ma non posso lasciarla così. C’è un vano nella parete accanto al suo letto. Ha l’altezza giusta. Se alzo un pochino il materasso e lo appoggio al muro, posso chiudere il vano con un pannello di legno. Sembrerà una decorazione della stanza. Nessuno penserà di doverlo rimuovere. I cani della polizia non sentiranno nessun odore. Lei, ormai, odora soltanto di resina e linfa. Chiuderò il suo corpo lì dentro. Non voglio bruciarlo, potrebbe non bastare a rendere segreto per sempre il mio operato. I suoi resti carbonizzati potrebbero essere analizzati. Non ho tempo per procurarmi l’acido, quindi vada per il muro! Poi penserò all’ultima persona che deve morire per quest’orribile vicenda. Devo farlo. E devo anche eliminare la linfa mutante che mi è rimasta. È sbagliato, è tutto sbagliato. Soltanto ora mi accorgo di quello che stavo costruendo. Soltanto ora mi accorgo anche che quella maledetta linfa, quando si ossida, diventa fosforescente. M’illuminerà la strada fino al luogo in cui mi sparerò. Amélie, perdonami! Mi dispiace tanto.”

Gettai a terra il diario. Non potevo crederci. Non volevo crederci. Lei era sempre stata accanto a me, durante quelle notti. E anche accanto a Jos. Eravamo stati divisi solo da quel maledetto pannello.

Salii le scale di corsa. Entrai nella camera da letto e fui investito dal solito odore dolciastro. Ora sapevo da cosa si generava! Afferrai il vano che avevo fissato con angoscia in una di quelle tormentose nottate, come mosso da un istintivo rifiuto per ciò che quel maledetto pannello aveva lungamente celato. Lo rimossi con un gesto rapido, così da potermi ritrarre in fretta.

Fui contento di averlo fatto, quando lo stupore e la ripugnanza per ciò che avevo svelato mi paralizzarono. Il legno mi cadde di mano e mi colpì il piede destro. Fu una fortuna, perché mi permise di reagire e di correre fuori da quella stanza maledetta, quando il mio cervello quale aberrazione stava osservando. Corsi verso la cucina, pensando a quella forma innaturale. Non volevo rappresentarmelo, ma le immagini rimbombavano nella mia testa come echi in una buia caverna. Mentre scendevo le scale, realizzavo fino in fondo quale fosse la mia situazione. Devo però ammettere che la mia consapevolezza in quel momento era fortemente obnubilata dall’agitazione, perché non sarebbe stato possibile a nessuno mantenere il controllo sulle proprie emozioni dopo avere visto ciò che io avevo appena visto. Anche ripensandoci ora che forse tutto è finito, mi è impossibile rimanere sereno. Avevo visto l’emblema inconfondibile del delirio.

Un corpo vagamente umano, ma allungato e deforme. Era un corpo magrissimo, ma ancora dotato di curve eccessivamente sinuose, con la pelle scura e verdastra tirata su di esse, troppo ruvida in alcuni punti e troppo liscia in altri. Quei neri capelli lunghi, ancora umani, che incorniciavano la grottesca parodia di un volto. La pelle era verde, liscia dappertutto tranne che intorno agli occhi chiusi, dove formava due piccoli vortici di rughe. Il naso era appiattito, le guance erano gonfie e i denti, piccoli e affilati, s’intravedevano a causa dell’assenza di labbra.

L’orrore aveva raggiunto il culmine quando quegli occhi si erano spalancati, rivelando due iridi completamente nere, come inchiostro di seppia. L’essere aveva iniziato a respirare freneticamente e aveva girato la testa verso di me. Poi… Buon Dio! Aveva proteso due lunghe braccia ossute e artigliate nella mia direzione!

Né pianta, né animale e neppure un qualcosa di normale che stesse a metà strada tra i due regni principali. Un’altra vita, una vita molto più difficile da distruggere. Com’era sopravvissuta lì dentro? Era stata avvelenata e non aveva ricevuto cibo, né acqua, né luce e probabilmente ben poca aria. Eppure era ancora viva, come aveva promesso il manoscritto tibetano. Un orrore immortale.

Altri pensieri orribili s’impadronirono di me. Pensai a quell’asse che provvidenzialmente, quando le mie mani avevano smarrito ogni vigore, mi era piombata su un piede, risvegliandomi a me stesso. Pensai ai piccoli cardini che vi avevo scorto sul rovescio, prima di scappare a gambe levate. Piccoli cardini e grosse molle! Nel cuore della notte, forse, quella cosa aveva potuto dischiudere l’asse che la occultava e allungare le braccia fuori dal suo tetro giaciglio. Forse lo faceva solamente nel cuore della notte perché, considerando l’aspetto dei suoi occhi così dilatati, la creatura era diventata fotofoba. Poteva darsi, Cristo, poteva darsi che mi avesse toccato veramente, nei momenti atroci in cui l’avevo sognata. Probabilmente, non mi ero limitato a fare degli incubi in quella camera.

Proprio mentre realizzavo quest’agghiacciante possibilità, udii un brontolio stranamente acuto provenire dalla sommità delle scale, lo scricchiolio del letto e un tonfo. La creatura si stava muovendo. Voleva inseguire l’uomo che l’aveva ridestata. Allora feci una cosa decisamente sciocca e insensata: mi chiusi nel vecchio armadio tibetano. Il lato eternamente infantile del cervello aveva sviluppato la vaga idea che un armadio di metallo potesse proteggermi dalla cosa più spaventosa che avessi mai visto. Entrai in quelle tenebre e mi ci chiusi dentro, pregando di non essere stato udito e di non poter essere in alcun modo percepito dalla cosa che stava scendendo le scale. Non mancai di notare una certa ironia nel ribaltamento appena creatosi tra la mia libertà di movimento e quella della creatura.

Se, a questo punto, ritenevo di avere già assistito a tutti i più stupefacenti prodigi di quei giorni, ero lontanissimo dalla verità. Rimasi immobile nelle tenebre ad ascoltare l’essere in movimento, cercando di capire cosa stesse facendo. Sentii muoversi qualcosa vicino all’ingresso della cucina. Qualcosa che sospirava e brancicava sul pavimento. Ma quei rumori furono accompagnati da un fragore ben più potente: un ululato echeggiante proveniente dalla parete alle mie spalle. La mia capacità di provare terrore era al limite della saturazione e per poco non svenni. Mi voltai e vidi un tunnel alle mie spalle. Era un’architettura di sconfinata profondità, una fuga di megalitici pilastri che sostenevano una volta sotterranea illuminata da fiamme azzurre nascoste in nicchie triangolari. Un vento gelido scorreva fuori da quel tunnel come un fiume in piena. Era quel vento a stridere e ululare come una bestia imprigionata nel cuore di quell’incalcolabile distanza. E c’era una figura umbratile che incedeva verso di me. Un’indistinta figura umana. Chiusi gli occhi, li riaprii e vidi solo il buio.

Tremavo e sudavo freddo. Dovevo essermi immaginato tutto. Il tunnel non c’era più, così come il vento e l’ombra che vi avevo scorto. Pensai di essere impazzito completamente. Forse non c’era niente di strano in quella casa. Forse non avevo letto nessun diario e non avevo liberato nessun mostro in camera da letto. Pensai che la morte di mio fratello e la stranezza di quella casa dovessero avermi sconvolto al punto da farmi precipitare nella paranoia e in un allucinato delirio. Come vorrei aver avuto ragione in quel momento! Invece compresi subito di avere avuto torto, perché la creatura era entrata nella cucina e potevo udirla distintamente fiutare nell’aria umida. Mi cercava. Il suo respiro era rumoroso, quasi gutturale… ed era sempre più vicino. I suoi movimenti erano pesanti e scoordinati. Probabilmente avanzava carponi, cercando ogni tanto di rimettersi in piedi. Il mio corpo andò in contro a una progressiva pietrificazione dovuta al crescente terrore, mentre quella cosa raggiungeva sospirando l’armadio e arrivava a toccarne un’anta. Mi stavo ormai prefigurando una fine orribile e invece la creatura emise una sorta di grugnito appena entrò in contatto col metallo dell’armadio e fece un rumore tale da farmi pensare che fosse ruzzolata all’indietro contro una sedia che si rovesciò. Fu allora che udii nuovamente l’ululato del vento alle mie spalle e quella volta lo sentii anche scivolare pungente sulla mia pelle. Prima che potessi voltarmi ancora, stordito com’ero, sentii che insieme al vento anche un’altra cosa più solida scivolava sulla mia schiena e si adagiava sulla mia spalla. Mossi la testa quanto bastava a vedere cosa fosse, grazie alla luce bluastra che si diffondeva nel mio nascondiglio. Era una mano, magra, olivastra e grinzosa, con due grossi anelli di ferraglia che l’adornavano malamente con le loro forme abbozzate.

Da allora non so più dire cosa sia accaduto esattamente. Quando mi riebbi, l’ipotesi migliore mi parve essere quella di un banale svenimento. Infatti, non ricordavo pressoché nulla di quanto fosse avvenuto. I ricordi sono sopraggiunti solo successivamente e gradatamente, come gocce di pioggia stillate attraverso un intrico di fronde primaverili. So di avere compreso improvvisamente una montagna di cose. Per esempio, seppi che l’iniziale fotofobia di ciò che Amélie era diventata faceva parte di una sua fase di sviluppo ormai conclusa. A quanto punto, la luce solare avrebbe piuttosto portato a termine la crescita dell’ibrido, rendendolo spaventosamente forte. Mio fratello non l’aveva capito, altrimenti avrebbe incenerito il mostro che sua moglie era diventata, invece di nasconderlo. Ebbi l’impressione che oltre le ante dell’armadio non vi fosse quella creatura, ma soltanto un vecchio in abiti purpurei. Questa dovette essere solamente un’allucinazione, perché, appena aprii l’armadio per uscire, vidi che davanti a me c’era solo una sedia rovesciata. Eppure sapevo perfettamente che l’ibrido era ancora nell’edificio. Sapevo che si era spostato nella serra, attratto dall’odore di una delle sue matrici biologiche. Probabilmente si stava già cibando di quella poltiglia biancastra della quale il criptide tracimava.

Uscii dalla stanza e aprii la porta d’ingresso per uscire nel giardino. Ivi guardai l’albero mostruoso. I suoi rami si dibattevano come serpi sulla testa di un’enorme medusa. Ormai anche quella chimera si era completamente destata. Ma io e l’albero non eravamo soli. Con mio sommo stupore vidi un vecchio sotto l’albero, un vecchio vestito di abiti evidentemente fatti a mano, in tinte rosse, blu e oro. Il suo colorito e i tratti del suo viso suggerivano origini orientali. Stava cospargendo la pianta di benzina e recitava un’oscura litania. Mi avvicinai, ormai completamente straniato dalla realtà. Lui mi vide e continuò a fare ciò che stava facendo. Io mi fermai a pochi metri e notai che le sue mani ossute avevano molti brutti anelli. La benzina doveva averla presa dal piccolo ripostiglio di legno del giardino.

Quando ebbe finito, il vecchio gettò sull’albero un fiammifero acceso e si allontanò. Le fiamme divamparono e la pianta si contorse orribilmente. Le radici più grandi uscirono dal terreno e iniziarono a frustare la corteccia infuocata. Da un punto indefinito di questa giunse un fischio acuto che, crescendo, diventò sempre più simile a un grido disperato. Una specie di ruggito fu invece quello che udii alle mie spalle. Mi voltai lentamente e vidi la cosa che avevo appena liberato trascinarsi carponi lentamente verso di noi, emettendo versi a metà tra il lamento e la minaccia. Puntai uno sguardo disperato sul vecchio uomo che si limitò a incamminarsi verso l’aranciera facendomi segno di seguirlo.

La mostruosità uscita dall’abitazione non badò oltre a noi due. Si mosse invece continuando a emettere lamenti sempre più strazianti in direzione dell’albero che continuava a muoversi e fischiare, ma sempre più debolmente. La creatura strisciò e gattonò più in fretta che poté verso la pianta. A un tratto, essendo ormai le radici uscite quasi tutte dalla loro sede, l’albero cadde proprio addosso alla creatura, intrappolandola nella chioma ormai ridotta a una palla di fuoco. Le grida dapprima si acuirono, poi si spensero.

Volevo ringraziare il vecchio, ma mi accorsi che era scomparso. Mi accorsi inoltre che le taniche di benzina erano finite in mano a me e che quegli orribili anelli erano sulle mie dita. Me li tolsi, volsi le spalle all’incendio che divampava furente nel giardino e tornai in casa. Salii al laboratorio e presi il manoscritto che aveva reso possibili tutti quei mali. Lo portai in cucina, aprii l’armadio tibetano e vi gettai sia il manoscritto, sia gli anelli, sia il diario di mio fratello. Sbattei le ante e finalmente, per la seconda volta svenni.

Quando i pompieri, allertati da qualche abitazione abbastanza vicina da notare la colonna di fumo, mi fecero riavere sollevandomi dal pavimento, mi accorsi che l’armadio davanti a me era andato in pezzi in una maniera stranissima. Era come se qualcuno lo avesse inciso con un bisturi laser, smontandolo con una serie di linee curve. Non ho mai tentato di farlo, ma sono convinto che, rimettendo insieme i pezzi anneriti, essi delineerebbero dei simboli simili a quelli che quello stesso mobile recava sulle piastrine d’argento inchiodate. Non raccontai a nessuno gli eventi di quei giorni e nessuno si accorse della stranezza dell’albero bruciato, della sua linfa rossastra che si era raggrumata qua e là in dense macchie appiccicose. La creatura che era stata Amélie non doveva avere più niente di umano, neppure le ossa. La sua salma rovente non fu distinta da quella della sorella maggiore. Non rimase traccia di lei. Quanto al criptide, il giorno dopo lo feci a pezzi e lo seppellii. Puzzava in maniera insopportabile e potrei giurare che un paio di volte si sia contorto orribilmente mentre calavo l’accetta su di esso. Pensai di voler contattare Lobsang, ma alla fine risolsi che fosse meglio evitare. Certe cose si possono affrontare soltanto con una sepoltura.

 

The_ya-te-veo

Indigeni divorati dallo Ya-te-veo, illustrazione di J.W. Buel per il suo libro Land and Sea, 1887.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.