L’efficacia della filosofia

di Matteo Nepi

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Chi crede che la filosofia sia una disciplina che ha qualcosa a che fare con la conoscenza non dovrebbe bollare troppo superficialmente l’avvicinamento di questa disciplina alle scienze positive come un segno di chiusura mentale. Il rischio sarebbe quello di non comprendere le ragioni profonde di questo fenomeno, ma anche di sbarrare le porte alla possibilità di un dialogo onesto e proficuo tra i filosofi di diversi orientamenti.

Nel corso del Novecento si è assistito a un progressivo affiancamento della filosofia alla scienza, specialmente in ambito anglosassone, che ha prodotto fra l’altro un certo irrigidimento del discorso filosofico sul modello della ricerca scientifica. L’efficacia del metodo scientifico riscontra  in effetti grande approvazione nel senso comune e anche grande fascino agli occhi del filosofo, il quale al contrario ha cominciato a godere di sempre minor considerazione, come evidenziato dalla progressiva scomparsa dei dipartimenti di filosofia, nell’indifferenza generale. Questo spiega, in parte, come la decrescente capacità dei filosofi di legittimare il proprio lavoro agli occhi della società spinga molti di questi a cercare sostegno a partire da forme di legittimità già affermate, come lo sono quelle delle scienze naturali.

Non voglio dire con questo che l’indagine filosofica debba ricercare la propria legittimazione attraverso il consenso, anzi, ma non bisogna dimenticare che, perché una ricerca sia dotata di efficacia, deve avere un metodo che si provi efficace allo stesso modo di quello che la scienza ha saputo affermare. Per la filosofia tale efficacia potrebbe consistere nel saper rendere conto attraverso un sistema coerente (ma aperto e dinamico), del più vasto numero possibile di fenomeni (nel senso più ampio di questa parola), e nel saper trovare per ogni proposizione che venga giudicata vera o falsa, una collocazione adeguata all’interno di quel sistema. Deve dotarsi, dunque, di un metodo che le consenta non solo di formulare ipotesi, ma anche di scartarne alcune. Ciò non toglie ovviamente che lo scienziato possa tornare sui propri passi, ma se in una disciplina scientifica tutte le ipotesi potessero essere sostenute nello stesso momento, questa perderebbe immediatamente il suo valore.

D’altra parte, il progresso della conoscenza sarebbe parimenti impossibile se non vi fosse mai il disaccordo, poiché spesso gli stessi “dati” ammettono più interpretazioni. Ma se nel mondo delle scienze dure esiste una convenzione tale per cui la comunità scientifica esprime una preferenza fra le possibili interpretazioni, ponendo di fatto un limite alla libertà dei punti di vista ammissibili, nel mondo della filosofia tale convenzione sarebbe impensabile, poiché qualsiasi limite apparirebbe come una imposizione arbitraria.

Tuttavia, se una parte della filosofia si irrigidisce intorno agli schemi delle scienze dure secondo l’esigenza di porre un freno allo studio dell’inesistente, un’altra parte risponde radicalizzando l’esigenza opposta, cioè quella della libertà della molteplicità delle prospettive a scapito del rigore.

Entrambe le tendenze, in quanto irrigidimenti, finiscono per avere lo stesso sterile esito: l’autoreferenzialità. Nel caso delle filosofie cosiddette “continentali” questo si verifica nel momento in cui la filosofia, per sua stessa ammissione, cessa di avere a che fare con la ricerca della verità e si arresta a una serie di interpretazioni di cui nessuna è preferibile a un’altra o può provarsi privilegiata in base a dei criteri razionalmente stabiliti. Nel caso invece delle filosofie di orientamento “analitico”, queste, smettendo di interrogarsi sul proprio fondamento e sui propri metodi, finiscono per rinchiudersi a risolvere equazioni con proposizioni formalizzate e a procedere attraverso assiomi e definizioni che non si riferiscono più al mondo dell’esperienza. In una situazione di questo tipo il dialogo è impossibile poiché i linguaggi dei due orientamenti non sono più gli stessi.

È evidente che nessuno di questi esiti è auspicabile, e se la filosofia vuole riprendere la ricerca della conoscenza lo può fare solo nel momento in cui si fa padrona dei propri strumenti, senza ridursi a prendere in prestito metodi e linguaggi da altre discipline (inappropriati perché rispondono a domande diverse da quelle filosofiche), ma senza nemmeno rinunciare alla precisione e al rigore che si confanno a qualsiasi ricerca che si reputi scientifica, nel senso di votata alla conoscenza.

Una filosofia di questo tipo è una filosofia che si interroga prima di tutto sulle sue condizioni di possibilità, e in questo senso essa è trascendentale; si deve interrogare anche sui propri linguaggi, per essere certa che l’opposizione fra punti di vista si svolga su piani confrontabili, e in questo senso essa conserva gli aspetti costruttivi del metodo analitico; e deve essere sempre disposta a ritornare su quanto già costruito per non rimuovere la possibilità del dubbio, secondo le sagge proposte di tanta filosofia continentale. Questa filosofia esiste già, pur senza confini precisi, e si muove tra i due estremi, rischiando di affondare insieme a tutta la nave qualora l’esito di questo confronto/scontro tra fazioni assuma la forma delle opposizioni calcistiche tanto amate nel nostro paese.

In questa prospettiva, risulta essenziale che la comunità filosofica si riappropri della sua disciplina ritrovando innanzitutto la capacità di dialogare con se stessa. Solo allora si apre nuovamente la possibilità della sensatezza di una qualsiasi ricerca, e in questo ritrovato dialogo si può anche, certo, chiedersi quale rapporto abbiamo con le scienze dure o domandarsi quale senso abbia studiare la nostra storia, ma questo è soltanto un modo indiretto di chiedere che cosa sia la filosofia stessa, quale la sua legittimità. Perché questa disciplina abbia ragione di esistere è chiaro che debbano esservi interrogativi filosofici, e che questi abbiano da essere diversi da quelli scientifici, poiché altrimenti si verificherebbe quello che già  sta succedendo, cioè lo scontro a muso duro tra linguaggi diversi che rispondono alla stessa domanda. Ma le domande filosofiche ci sono, e sono molto importanti; la scienza, infatti, da sola non è in grado di essere fondante, poiché i suoi risultati si giustificano solo a posteriori. Affinché questi risultati possano fregiarsi a buon diritto di chiamarsi scientifici, è indispensabile rintracciare il fondamento che legittimi anche a priori la loro validità. Nel momento in cui la scienza inizia la ricerca di un fondamento per le proprie scoperte, essa diventa filosofia, e deve essere pronta a cercare le risposte in un linguaggio appropriato alle nuove domande che pone.

Il campo delle domande filosofiche è però più ampio della sola epistemologia: anche la storia e la sfera dei sentimenti fanno parte della nostra esperienza e come tali sono parte del mondo che stiamo indagando. Si può tuttavia studiare queste realtà solo se ci si pone alla distanza dello studioso mettendo – per dirla con Husserl – il mondo “fra parentesi”, se cioè non si cade nell’errore di trasformarsi nel proprio oggetto di studio. Anche quando guardiamo alla scienza, essa rimane un oggetto per noi, non un metodo.

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