L’esercito

di Federico Filippo Fagotto

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Era un venerdì pomeriggio, agli inizi di novembre. Finalmente Milano si era decisa ad immergersi nell’apnea di grigio, come ogni autunno. La nostra università, in particolare, ne era intrisa. Avevo finito due lezioni e mangiato qualcosa insieme al mio amico Pietro. Pensavo fosse quello il giorno giusto per consultare l’I King e decidere il primo tema della rivista che, assieme agli altri miei amici, avevamo deciso di aprire. Pietro mi stupì dicendomi di avere anche lui il libro cinese con sé, sperava infatti che gli spiegassi meglio come funziona l’oracolo, dovevamo però trovare il luogo adatto. Nel girovagare notai una porticina che portava sottoterra. – Non hai mai visto le cripte della Statale? – mi disse Pietro. Erano quelle sotto la chiesa di S. Maria Annunciata e fino ad allora ne ignoravo l’esistenza. Entrambi colpiti dall’intensa atmosfera di quei cunicoli e dalle loro volte ad arco, approfittammo d’essere soli per sederci a terra e tirare fuori le monete con cui chiedere al libro di trovare per noi l’esagramma giusto. Tirammo una volta a testa e, dopo tre lanci, uscì un trigramma che io confusi con quello del “fuoco”, mentre in realtà simboleggiava “l’acqua” (Kkann). Il trigramma superiore era invece senza dubbio quello della “terra” (Kkunn). La prima coincidenza fu che Pietro collegò i due segni usando una tabella per ricavare l’esagramma completo, confondendo anche lui l’acqua col fuoco senza sapere quale fosse l’immagine di quest’ultimo. Ne uscì allora un responso inquietante, che nominava «L’ottenebramento della luce», secondo cui si stava uscendo da un periodo oscuro e difficile. In effetti, per quanto riguarda me e, credo, anche il mio amico, ci aveva preso in pieno. Anche lo spirito comune di coloro che prendevano parte alla rivista era animato dai dubbi circa il proprio futuro, in un momento di importanti decisioni di vita. Mi accorsi però dell’errore. Rifacemmo i calcoli e uscì un esagramma diverso, il n°7, dal titolo «L’esercito» (Scï).

ESERCITOs

Mi turbai ancor di più: non volevo certo che la rivista venisse presa per un libello attivista. Pietro, intanto, si faceva una risata. Per fortuna, quando iniziammo a leggere, ci fu facile capire che la metafora militare, tipica dell’antica cultura confuciana, era ben più profonda di quanto sembrasse. Essa esprimeva in generale quel desiderio di aggregarsi percepito da un qualsiasi gruppo di persone. Non potevo crederci: era proprio il nostro! Esso veniva raffigurato dai due elementi naturali posti uno sopra l’altro, cioè l’immagine dell’acqua che scorre al di sotto della terra. Azzeccato, dal momento che ci trovavamo in una cripta. L’I King la paragonava all’azione invisibile con cui una moltitudine si trasforma in esercito nei momenti di necessità. La forma dell’esagramma era infatti curiosa. C’erano solo linee “spezzate”, che rappresentano la moltitudine, ed una sola intera, il comandante. Di solito, però, la linea principale è la quinta dal basso, simbolo dell’imperatore, che in cinese era chiamato Tianxia, «tutto al di sotto del cielo». È lei, di norma, il cosiddetto «signore del segno». Il cielo è invece la sesta linea in alto. Stavolta, però, appariva chiaro che la linea principale fosse la seconda dal basso. Questa si mostra allora come un comandante che combatte nelle prime fila, mostrando il giusto coraggio con cui unire gli animi, ma rischiando anche la vita e, quindi, di lasciare le truppe senza una guida. Nella società cinese infatti – la cui struttura gerarchica è ben resa dalla forma verticale di un esagramma – era necessario tutelare l’integrazione reciproca dei ruoli. Il leggendario generale Sun Pin, autore di un trattato sull’arte militare del IV secolo a.C., diceva che «le frecce sono le truppe, la balestra è il generale, chi scocca le frecce è il sovrano». Quest’ultimo, tuttavia, sembrava mostrare qui una debolezza. A quel punto, spiegai al mio amico che i lanci delle tre monete con cui, usando il giusto metodo, avevamo scoperto le sei linee dell’esagramma, ci avevano anche detto quali di queste linee erano “mobili”. – Cosa vuol dire? – Chiese lui, giustamente confuso da quella strana pratica. Intanto, le voci di alcuni visitatori nella cripta si avvicinavano, ma noi, presi dalle nostre buffe faccende, le ignorammo. Le linee mobili, gli spiegai, sono quelle che si mutano nel loro contrario (se è “spezzata” diventa intera e viceversa), formando un nuovo esagramma, quello di “sviluppo”, che mostra come la situazione dovrebbe evolversi. Qui sopravvenne la coincidenza più forte: le uniche due linee “mobili” erano proprio la seconda e la quinta, e questo l’I King non poteva certo prevederlo! Ne venne fuori l’esagramma numero 8, «La solidarietà» (Pi).

SOLIDARIETAs

‘Promette bene’ – pensai. Anche il commento in fondo al libro era incoraggiante. «La solidarietà è cosa allegra», diceva. Che bello! Anche Pietro, che cominciava a capire, non nascose un sorriso. Invertendo le due linee, infatti, avvengono due cambiamenti niente male. Gli elementi di acqua e terra si ribaltano: il torrente carsico emerge rivelando così la sua portata. Era stato l’altro mitico generale cinese, Sun Tzu, a dire, in un altro bel trattato militare, che «la disposizione delle forze di un esercito può essere paragonata all’acqua [perché] come l’acqua non ha mai una forma definita». In esso, quindi, «nessuno dei cinque elementi ha prevalenza sugli altri». È questo il fatto più importante: la capacità che hanno avuto le due linee di scambiarsi il ruolo di comando. Infatti, come dice l’I King, «vi deve essere un centro attorno al quale gli altri si raccolgono», ma lo scopo è, alla fin fine, quello «di aggregarsi ad altri per completarsi reciprocamente». La solidarietà si ottiene, pertanto, col solo atto di umiltà di chi è capace di condividere i poteri. Adesso l’esagramma era perfetto, con il “signore del segno” al quinto posto in posizione forte. Tant’è vero che già nel libro i due esagrammi (numeri 7 e 8) vengono in sequenza, uno dopo l’altro, indipendentemente dalla casualità del nostro lancio. Ci ridestammo che ormai i visitatori ci camminavano intorno. Per non fare la figura dei matti, o peggio degli eccentrici, pensammo bene di togliere il disturbo. Ce ne andammo però con in testa il consiglio dell’I King: non sempre chi ha sentito per primo il desiderio di aggregarsi è anche la persona più adatta a fungere da centro di raccolta. In quei casi occorre la modestia di partecipare a propria volta, per fondare un solido gruppo. Per l’idea della rivista, quelle parole furono miele. Mi tornò in mente una frase che avevo scritto nella tesi e anche altrove, e che merita di ripetersi. Sempre Zhuāng-zı˘, il grande taoista, disse che «il re illuminato estende ovunque la sua opera benefica, ma non fa sentire di esserne l’autore. Aiuta e migliora tutti gli esseri senza che questi sentano di essere sotto la sua dipendenza». Anche Confucio la pensava allo stesso modo. Quando i due vanno d’accordo significa che l’animo cinese è del tutto espresso. Secondo lui, infatti, nonostante la venerazione riservata all’imperatore, il loro popolo era come se fosse privo di un sovrano. Un allievo ficcanaso gli chiese perfino: «Maestro, perché non sei al governo?». Quel saggio vecchietto, col suo modo un po’ scorbutico, rispose seccamente: «Anche questo è governare. Che necessità c’è di essere al governo?». Mentre uscivamo dai sotterranei di Ca’ Granda – in cui ancor oggi restano sepolti molti di coloro che presero parte alle cinque giornate di Milano, per liberarsi dal giogo di un imperatore che aveva fatto il suo tempo – venne a galla il nome della rivista. Un altro noto capo di stato cinese, ben più recente, aveva infatti detto che al mondo vi è una legge dell’unità dei contrari secondo cui ogni cosa è duplice. I suoi avversari erano perciò delle «tigri di carta», cioè tigri vere che, come il nostro esagramma, «si sono trasformate a poco a poco nel loro contrario» e che verranno rovesciate dal popolo. Quella tigre, però, che sarà capace di prendere coscienza della propria ingenuità e osservare le proprie striature come altrettante linee – intere o spezzate – dipinte sulla fragile carta di riso, sarà allora capace di cedere la propria forza al momento opportuno, senza agire «con mezzi violenti», così come dice l’I King, ma destando l’entusiasmo nei cuori altrui. Smetterà allora, la tigre, di essere di carta? No di certo. Farà della carta la sua forza.

– «Maestro, se tu comandassi tre armate, chi vorresti al tuo fianco?»

Domandò il solito allievo impertinente. Confucio, si prese allora la libertà di prenderlo in giro.

– «Uno che affronta le tigri a mani nude …», rispose.

Dopo un attimo di silenzio, aggiunse:

– «… Io non lo vorrei. Dovrebbe essere, invece, un uomo prudente nei momenti critici»

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!