L’Emblematur Liber di Andrea Alciato

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di Marco Saporiti

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Andrea Alciato (Milano 1492 – Pavia 1550), famoso giurista del XVI secolo, conosciuto in ambito giuridico per i suoi fondamentali e innovativi contributi al Diritto romano, deve la sua più ampia e imperitura fama ad un piccolo volume, scritto durante le ore libere da impegni, intitolato Emblematur Liber.

In una lettera del 9 dicembre 1522, indirizzata all’amico ed editore Francesco Calvo, Andrea Alciato scrive:

Durante questi Saturnali[1], compiacendo all’illustre Ambrogio Visconti[2], ho composto un libretto di epigrammi intitolato Emblemata, in ciascuno dei quali descrivo qualcosa, tale che significhi con eleganza un qualche cosa tratto dalla storia o dal mondo naturale, donde pittori, orefici, fonditori possano realizzare quel genere di oggetti che chiamiamo scudi e attacchiamo al cappello o portiamo quali insegne, come l’ancora di Aldo, la colomba di Froben e l’elefante di Calvo[3].

Questo importante documento ci informa su alcuni elementi importanti, cioè che nel 1522 Alciato aveva già realizzato il volumetto dal titolo Emblemata e che gli emblemi erano semplici epigrammi senza illustrazioni. Inoltre il paragone con le marche tipografiche di Manuzio e Froben ci permette di chiarire l’idea di Alciato, ovvero che questi epigrammi devono stimolare la fantasia creativa degli utilizzatori per creare nuove icones symbolicæ dal forte impatto allegorico. La volontà di Alciato era quella di non avere immagini a corredo degli epigrammi per non sostituirsi all’immaginazione del lettore. In conformità alle idee dell’autore, per diverso tempo e in edizioni manoscritte, il libello circola senza quest’ultime. Almeno fino al febbraio 1531, quando ad Augsburg, in Germania, vede la luce per mano dello stampatore Heinrich Steyner la prima edizione a stampa degli Emblemata. Rispetto alle edizioni manoscritte ci si trova davanti a questa importante novità: l’edizione è corredata di xilografie che illustrano gli epigrammi.

Non sappiamo come Steyner sia venuto in possesso del testo alciateo, né su quale redazione si sia basato, al punto che quella di Augsburg potrebbe quasi essere considerata una specie di edizione “pirata” che infatti viene aspramente criticata da Alciato (in una lettera a Pietro Bembo del 25 febbraio 1535 definisce «corrottissima» l’edizione di Steyner) che arrivò a sostenere di volerla distruggere.

Una possibile spiegazione per questa pubblicazione è la seguente: Alciato aveva inviato all’umanista, bibliofilo, antiquario e consigliere imperiale Chonrad Peutinger (1465-1547) una copia degli Emblemata in quanto a lui dedicata, Augsburg era la patria di Peutinger e la città dove lavorava Steyner.

Comunque sia, l’edizione di Steyner non ebbe il controllo dell’imprimatur di Alciato e da qui scaturì la volontà dell’autore di eseguire una nuova edizione del testo. Questo progetto si realizzerà nel 1534 con la pubblicazione degli Emblemata da parte del tipografo parigino Chrétien Wechel, della quale seguiranno diciassette ristampe, fino al 1545[4].

La scelta di chiamare “emblemi” gli epigrammi si deve alla parentela che associa i due termini. Il latino emblema significa ciò che si introduce per ornamento in un’altra cosa, come nel mosaico: è un lemma tecnico-artistico. In Cicerone il termine assume una valenza figurata: come nel mosaico è opportuno accomodare con grazia i tasselli, così nel discorso vanno correttamente selezionate e disposte le parole. Le due accezioni del termine sono conosciute da Andrea Alciato che le usa entrambe per denominare gli epigrammi: da un lato quello figurato, dove Alciato considera gli epigrammi come le tessere musive, ovvero un insieme di singole parole il cui ordo lirico produce immagini; dall’altro si raccomanda che tale visualizzazione trovi compimento nel lavoro di pittori e orefici che produrranno icones symbolicae da apporre poi su vesti e cappelli, come accadeva con l’emblema classico.

In questo articolo, prenderemo in considerazione l’emblema LIV. Il testo, sia nell’edizione del 1531 che in quella del 1534, è il seguente:

 

A minimis quoque timendum

 

Bella gerit scarabæus, et hostem provocat ultro,

Robore et inferior consilio superat.

Nam plumis aquilæ clam se neque cognitus abdit,

Hostilem ut nidum summa per astra petat.

Ovaque confodiens prohibet spem crescere prolis,

Hocque modo illatum dedecus ultus abit.

 

Traducibile in:

Si deve temere anche dei più deboli

 

Uno scarabeo fa la guerra e per primo provoca il nemico,

e pur inferiore per forza vince con l’astuzia.

Infatti, non visto, si rifugia di nascosto tra le piume dell’aquila,

per giungere al nido nemico attraverso le più alte stelle.

Trafiggendo le uova toglie ai piccoli ogni speranza di crescere,

e inferta l’offesa, vendicatosi in questo modo, se ne va.

 

Per questo epigramma Alciato si ispira alla favola dell’aquila e dello scarabeo di Esopo[5], che ci insegna a non disprezzare nessuno poiché anche il più debole, se offeso, potrà vendicarsi. Si racconta che una lepre supplicò uno scarabeo di proteggerla da un’aquila che la inseguiva, così il piccolo animale, quando si avvicinò il rapace, lo supplicò di non mangiare l’amica. Per contro l’aquila divorò la lepre sotto i suoi occhi. Da qui il rancore che indusse lo scarabeo a cercare i nidi dell’aquila e rompervi le uova.

Lo scarabeo come segno di capacità bellica è ricordato già da Plutarco[6] ed Eliano[7], i quali riportano la notizia secondo cui la casta guerriera egizia portava al dito un anello con la figura dello scarabeo. Si voleva dimostrare che chi combatteva per la patria non doveva avere nulla di femmineo, come lo scarabeo che, secondo i naturalisti del tempo, sarebbe solo di sesso maschile e si riprodurrebbe versando il seme in una pallina di sterco da cui, dopo ventotto giorni, nascerà la prole, anch’essa solo di sesso maschile. Secondo Erasmo[8], il conflitto tra aquila e scarabeo è metafora del tiranno che amministra lo Stato con ingordigia, creandosi nemici che poi sapranno punirlo e fare giustizia.

Le immagini, di autori ignoti, che corredano il testo nelle edizioni del 1531 e del 1534 mettono in risalto l’odio tra i due animali, in una riuscita composizione di intento morale e pedagogico.

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Note

[1] Si riferisce alle vacanze autunnali dell’anno accademico 1521-1522.

[2] In quest’epoca erano almeno otto gli Ambrogio Visconti, quindi dare un’identità certa a quello nominato da Alciato risulta difficile.

[3] Si riferisce alle marche tipografiche di Aldo Manuzio (ancora con delfino) e di Johannes Froben (colomba su caduceo); invece l’elefante di Calvo è un richiamo scherzoso alla lentezza dell’amico nello sbrigare i lavori.

[4] Per una storia più approfondita sulla genesi degli Emblemata e sulle edizioni vedere Il libro degli emblemi. Secondo le edizioni del 1531 e del 1534, introduzione, traduzione e commento di Mino Gabriele, Milano 2009.

[5] Ovverosia la Favola III.

[6] Cfr. Iside e Osiride.

[7] Cfr. La natura degli animali.

[8] Cfr. Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi.

Le immagini e il testo sono tratti da Andrea Alciato, Il Libro degli Emblemi secondo le edizioni del 1531 e del 1534, nuova edizione riveduta e ampliata a cura di Mino Gabriele, Adelphi, Milano 2015.

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Autore

  • Laureato in Storia e Critica dell'Arte, ha una passione infinita per il Rinascimento tedesco, la batteria e la musica progressive. Ha la capacità innata di diventare un'ombra quando è al cospetto di troppe persone.