Il ruolo sociale delle cure palliative

Prendersi cura della vita attraverso il morire

«Ho dovuto studiare molte cose all’università di medicina, ma la mortalità non rientrava tra queste».

Con una frase di Atul Gawande, medico chirurgo statunitense di origine indiana, voglio aprire questa breve riflessione sul “morire”, che porti non a sconfortarsi di fronte all’ineluttabile conferma della morte ma in qualche modo ci spinga a ricavarne un proprio senso di sollievo e un motivo forte per poter avere cura del tempo che passa e della propria vita vissuta.

Perché prendersi cura della vita, la nostra e quella dei nostri pazienti, significa prendersi anche cura del suo compimento, ovvero della morte, e di ciò che verrà dopo per chi rimane.

Autoritratto come uomo morente. Olio su tela di Théodore Géricault 1824
ruolo sociale cure palliative

Morire

Per molto tempo, anche mentre studiavo e lavoravo in ospedale, la morte è stata quasi soltanto una parola stampata su un libro, il punto finale di una patologia acuta o cronica, il rischio di un farmaco, l’endpoint di uno studio clinico, oppure un evento inatteso o predetto – ma comunque incidentale – che avveniva tra le mura di un reparto.

Il punto in cui il medico e tutti gli operatori sanitari con il paziente “ce l’avevano messa tutta ma non erano comunque riusciti a salvarlo”.


La morte, insomma, è qualcosa, nell’ambito sanitario, da evitare a ogni costo. Ma cosa succede quando la morte è l’unica certezza del paziente e si è chiamati a prendersi cura proprio della sofferenza e del morire? E quella certezza non è forse poi comune non solo a tutti gli esseri umani, ma ad ogni forma di vita?


Certo è che prendersi cura del morire è un problema contemporaneo. La medicina e la società moderna occidentale hanno permesso di aumentare la prospettiva di vita, portandosi dietro però alcune questioni irrisolte: non solo una popolazione sempre più anziana e più fragile, ma anche l’allungamento delle condizioni di sofferenza a favore di un “curare a ogni costo” che, soprattutto nei decenni a cavallo del millennio, ha caratterizzato l’atteggiamento paternalista della medicina occidentale.

Litografia di Edvard Munch (1896) "Letto di morte"
Ruolo sociale cure palliative
Letto di morte. Litografia di Edvard Munch 1896

La sanità pubblica ha cambiato la traiettoria delle vite delle persone, modificando anche l’evidenza della morte poiché se vita e salute, nella storia dell’uomo, sono andate sempre di pari passo, oggi le nuove scoperte mediche hanno invece spinto sempre più lontano la prospettiva di vita, anche dove la salute peggiora inesorabilmente.

Abbiamo quindi sconfitto gran parte delle patologie acute a favore però di un esercito di malati cronici che convivono, più o meno facilmente, con la propria patologia.


I malati sono sottoposti ai trattamenti periodici e i sintomi tenuti sotto controllo, così una persona malata non si sente più tale e può tornare a fare una vita quasi normale.

L’Istat, nel 2010, stimava che oltre il 45% della popolazione italiana sopra i 6 anni di età fosse affetta da una malattia cronica.

Scompenso cardiaco, BPCO, Diabete mellito diventano quindi alcune delle nuove sfide della medicina del ventunesimo secolo, insieme alla lotta contro le neoplasie e alla costante ricerca per contrastare le patologie degenerative.

In questo contesto, quindi, che prende forma il significato medico e sociale degli hospice e delle cure palliative.

«Crediamo che a questo punto ci siano pochi punti cardine nella terapia del dolore intrattabile.»

Cicely Saunders, considerata da molti la più importante promotrice della diffusione degli hospice e delle cure palliative, parte da questa definizione di dolore per definire, passo dopo passo, gli aspetti fondamentali della presa in carico della sofferenza di un paziente, ed è così che nasce nella seconda metà del Novecento la prospettiva di poter affidare un soggetto sofferente, incurabile, terminale o cronico, alle cure palliative che rappresentano un approccio globale al trattamento del dolore e della sofferenza associati a malattie terminali o croniche.

Lasciare andare

La nostra cultura «decostruisce la morte» (Bauman Z.): la scompone nelle sue cause, e dà una delega alla medicina affinché le elimini. Nel riquadro dedicato alla morte, il tessuto è liso, c’è poca cura, poca attenzione e poca sensibilità alla tematica della morte e questo si traduce in scarsa ritualizzazione e regolamentazione e in una minore ideazione.

Siamo quindi portati a pensare alla morte come a un mero processo biologico e si è propensi a pensare che “quella specifica morte” possa essere in qualche modo evitata, che forse i curanti siano stati poco attenti, che forse la medicina non sia ancora abbastanza progredita.

Tuttavia la morte non è solo biologia: è un processo complesso, culturale oltre che biologico, e il modo in cui avviene il morire non è un aspetto indifferente, ha delle conseguenze che si ripercuotono sul vissuto di chi muore ma anche di chi resta e sulla loro qualità di vita e dei curanti.

È forse utile, quindi, dividere due concetti paralleli: il morire e la morte, laddove il primo riguarda più il paziente, mentre il secondo forse interferisce di più su chi resta e vive la perdita.

In entrambi i casi, integrare queste esperienze all’interno del proprio vissuto, stia esso finendo o no, è un aspetto fondamentale per reintrodurre il concetto della morte e permetterci di dare un valore in più alla vita.


Nella perdita assoluta

Nel lutto vero e proprio, in cui l’altro ora non c’è più per cause oggettivamente identificabili e comprensibili (come una malattia, un incidente, ecc), la persona deve confrontarsi con un dolore enorme, davvero inconsolabile, col pensiero che l’oggetto del dolore non sia più qui (fisicamente) a confermare in modo così evidente le parti di me che ho bisogno di confermare.

Ma questo dolore e questa assenza paradossalmente operano come conferma e come potente rinforzo del mio sentimento di me stesso: lui (dentro di me) potrà essere sempre lui, anzi, possibilmente ancora più lui. (Lambruschi F., Battilani L.)

Con il lutto, la progressione emotiva della perdita chiede al soggetto di integrare gradualmente l’evento della morte all’interno della sua narrativa personale.

È necessario, per il soggetto, ripristinare la sicurezza di attaccamento con la persona deceduta e revisionare la natura del legame costruendo un dialogo interno con la persona che non c’è più, ma di cui si continua ad avere una rappresentazione mentale.

Natura morta con fagiano. Olio su tela di Chaim Soutine 1924. Musée de l'Orangerie Parigi.
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Morte
Natura morta con fagiano. Olio su tela di Chaim Soutine 1924. Musée de l’Orangerie Parigi.


I familiari e i caregiver vivono situazioni stressogene intense a causa del confronto con la malattia, del ricordo che si ha del proprio caro e della convivenza in un reparto dove la morte è quasi sempre l’unica soluzione.

Di fronte al dolore della perdita ci si rende conto che non si può negare la morte e il soggetto deve combattere contro tutta l’informalizzazione (N. Elias) che fino a quel momento l’hanno separato dal concetto di perdita: nella società, infatti, l’imperativo sembra essere quello di rimuovere il dolore.

Se ciò non è possibile, vengono attuate strategie per nasconderlo o edulcorarlo agli occhi di chi non lo vive. Sono quindi diventate sospette e imbarazzanti le convenzioni tradizionali (la retorica rituale) applicate alle situazioni di crisi della vita umana e piuttosto che affrontare il dolore si preferisce volgere lo sguardo altrove.

Non sorprende quindi l’improvvisa insensibilità delle persone nei confronti dei sofferenti (si pensi, solo per fare qualche esempio, all’inerzia della collettività di fronte alle evidenze ambientali o di fronte alla ormai nota sofferenza animale dei macelli).

La negazione della morte è parte integrante della cultura occidentale e quando questa viene meno trovare il gesto e la parola giusta spetta così all’individuo, spesso impreparato.

La morte è ritenuta un evento oltraggiosamente insensato e la malattia che viene largamente considerata sinonimo della morte è sentita come qualcosa che bisogna nascondere. Ma in hospice improvvisamente un malato non è nient’altro che la propria malattia.

La vita precedente è già finita e la prospettiva futura è in molti casi limitata alle mura del reparto in cui si è ricoverati. Se il familiare dovrà confrontarsi con la fine dell’altro, il malato sarà costretto a guardare il morire del Sé.

Ci si può rendere conto che se l’oggetto clinico delle cure palliative è la sofferenza, il vero obiettivo diventa accompagnare e ascoltare il paziente mentre si dirige verso la morte. In altre parole, che l’oggetto di cui bisogna prendersi carico è il morire.

Perché in fin dei conti, forse, la cosa più spaventosa per gli esseri umani non è la morte, ma come si arriva a essa.

Curare

Affermare la vita e offrire sollievo al dolore e agli altri sintomi e integrando gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza sono i cardini del lavoro in cure palliative.

Non esiste una cosa come la morte naturale, che è una morte che succede al di là dei confini della cultura e del momento storico, delle norme sociali e delle aspettative, della tradizione e dell’innovazione.

Diventa importante conoscere i diversi significati attribuiti a questo evento per essere accanto con maggior consapevolezza ai pazienti e ai loro familiari in questa fase della vita poiché il morire costituisce un evento che tocca la persona indipendentemente dai suoi riflessi sociali, i quali, tuttavia esistono e hanno una loro pregnanza antropologica di notevoli dimensioni.

La morte può in certa misura definirsi come un tutto sociale non soltanto perché la società è costituita più da morti che da vivi, ma anche perché l’atto del morire è innanzitutto una realtà socioculturale.

Forse per questo motivo prendersi cura della morte significa prendersi cura non solo della vita di chi abbiamo di fronte, ma anche aiutare a sanare le ferite di un costrutto sociale devoto all’indifferenza.

Testa di un cadavere. Olio su tela di Charles Émile de Champmartin 1818. Fotografia di Sharon Mollerus, Art Institute of Chicago.
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morte
Testa di un cadavere. Olio su tela di Charles Émile de Champmartin 1818. Fotografia di Sharon Mollerus, Art Institute of Chicago.

Bibliografia


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Bowlby J. 1979. The making and breaking of affectional bonds. Tavistock, London.
Freud S. 1917. Mourning and Melancholy. International Journal of Medical Psychoanalysis, Vol. 4 (6)
Gawande A. 2014, Being Mortal. Medicine and What matters in the end, ed. italiana Einaudi, Torino
Kübler-Ross E. 1969. On death and dying, Macmillan
Lambruschi F., Battilani L. 2014 “La funzione del lutto nel mantenimento della coerenza sistemica del sé.” XV “Convegno Di Psicopatologia E Psicoterapia Post-Razionalista “Continuità, Cambiamento, Coerenza Sistemica E Complessità” , Siena.
Neimeyer A.R. 2006 Lesson of Loss. A guide to coping. Center for the Study of Loss Transition, Memphis, Tennessee.
Saunders C. 2008. Vegliate con me. Hospice Un’ispirazione per la cura della vita, Edb, Bologna.

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