Il senso generativo dell’attesa

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Con l’arrivo del COVID-19 abbiamo dovuto prendere più confidenza con lo stato emotivo che ci provoca il convivere con qualcosa di incerto: quando finirà? Finirà? Quando potrò uscire di casa? Ci sarà un altro lockdown? Stare, in altre parole, immersi in un periodo di crisi, alla ricerca di un nuovo modo di vivere e convivere. Stare in contatto con la fine e con l’inizio, in contatto con ciò che è sempre presente in un momento di transizione. La stessa parola crisi ci suggerisce le sue potenzialità. Entro ogni crisi sono presenti embrionalmente elementi trasformativi e di sovvertimento del preesistente, ovvero la matrice di ogni possibile cambiamento e crescita. Un momento critico o di stallo, come nella clinica, può aprire a nuovi orizzonti creativi.

Mi sono chiesta, com’è il tempo dell’attesa? Ho scoperto che c’è una sfumata differenza tra attendere e aspettare.

Etimologicamente, attendere deriva dalla parola latina composta da ad– e tĕndĕre che significa volgere a, aspirare, tendersi verso qualcosa, ascoltare attentamente. Il suo significato primario è dunque quello di rivolgere l’attenzione a qualcosa, quindi dedicarsi. Viene così descritta una particolare disposizione di pensiero: attendere non è stare fermo, immobile, ma volgersi verso qualcosa o qualcuno per dedicare ad esso attenzione.

Aspettare è invece una parola latina composta da ad– e spicere, che significa essere con la mente e con l’animo rivolti a una persona che deve arrivare o a qualcosa che deve accadere, stare fermo fino a che non sopravvenga qualcuno o qualche cosa. Ciò porta con sé uno stato d’animo in cui ci sentiamo immobilizzati, nelle mani di ciò che sta per succedere che non possiamo che continuare a guardare con allerta. Aspettare richiama al piede che tamburella in coda alla cassa del supermercato, al fremito dell’arrivo del tram alla fermata, al disagio di dover star fermi, mentre l’attesa porta con sé la lentezza.

Inevitabile dunque il parallelismo con ciò che abbiamo vissuto durante la pandemia: siamo stati tutti nella condizione di aspettare i nuovi DPCM, la fine del lockdown, la fine del coprifuoco, l’inizio delle riaperture, i vaccini e tutto quanto ne conseguiva. Credo anche però che si sia aperta la possibilità di attingere nella risorsa di poter godere dello spazio-tempo dell’attesa, che porta con sé un senso generativo. Mi viene in mente il dire “sei in dolce attesa” per indicare la gravidanza. Qualcosa che può nascere. E mi vengono in mente i periodi di transizione come l’adolescenza in cui alcuni cambiamenti avvengono repentinamente, come ad esempio l’avvento della pubertà, e la mente ha bisogno di più tempo per accoglierli e trasformarsi con essi. Cosa si può creare in questo spazio-tempo? E come mai è così difficile stare in questo stato? Credo che il punto sia la difficoltà di stare in uno spazio senza fare o intervenire, nel senso di non essere produttivi come lo si può intendere nel senso comune. Stare. Ciò può genera uno stato di angoscia perché porta con sé l’incertezza e l’ignoto. Si entra così in contatto con la nostra fragilità, il nostro essere fallibili, vulnerabili e mortali. Tutto ciò è però anche necessario per ricostruire, ripartire, creare qualcosa di nuovo, con i tempi di incubazione e di attesa necessari alla mente.

Una delle follie della psicoanalisi, che la fa essere controcorrente, è quella della lentezza in un mondo frenetico e iperveloce. Ciò perché prende in considerazione i tempi della mente, ovvero tempi che non sono puntuali e lineari, ma soprattutto tempi di riverbero. Le trasformazioni avvengono infatti dopo necessari tempi di digestione. Il non conosciuto, il non pensato è ciò di cui si va alla ricerca. E come? Solo con l’attenzione che porta con sé l’attesa si può favorire l’emergere di qualcosa di nuovo, di creativo. Ma la mobilitazione creativa è di per sé incerta, sospesa e contraddittoria. Non può che procedere per scarti, per prove ed errori. L’analista accetta di viaggiare con il paziente in territori opachi e sconosciuti e ciò che promuove l’emergere del materiale in seduta è la qualità della presenza del terapeuta e il modo di essere in contatto con il suo mondo interno favorisce il contatto del paziente con il proprio.

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La psicoanalisi si confronta continuamente con il tema della creatività perché condivide l’idea che la malattia tende a inficiare la funzione creativa della mente e che il processo analitico è teso a promuovere la crescita attraverso una riattivazione di questa funzione, necessaria per affrontare le situazioni problematiche e godere di più la vita. Più l’esistenza viene intaccata e offesa, maggiore sarà la necessità di trovare modi per restaurare e ricostruire e maggiore la necessità di una spinta creativa. Dopo la distruzione e il dolore, viene il tempo della ricostruzione. L’atto creativo parte da un vuoto, da qualcosa che ancora non c’è; un vuoto di conoscenza, di esperienza, non un vuoto assoluto. In linea con il significato dell’attesa, occorre quella che Bion chiama “capacità negativa” per lasciar accadere, non aver fretta di riempire. Si può così prendere in prestito la metafora dell’oscurità e della luce: l’oscurità come metafora dell’ignoto e del tempo di incubazione necessario per far lavorare la creatività. La luce diventa metafora della creazione, intesa come disvelamento e conoscenza.

L’attesa è così necessaria per consentire l’avanzamento a masse informi interne che avanzano nell’oscurità. Mi viene in mente Nina Coltart quando cita una parte della poesia di W. B. Yeats, Il secondo avvento:

e quale mai rozza bestia, giunta alla fine la sua ora,
arranca verso Betlemme per venire alla luce?

Prendere contatto l’esperienza emotiva informe è motivo di angoscia, sia per l’analista che per il paziente, e ne consegue la tentazione di illuminare ciò che è oscuro con ciò che si conosce. In questo modo però l’intuito non può più lavorare. La creatività ha in sé questo aspetto disturbante perché ci invita a sopportare un dolore interno e a separarci da una sensazione di sicurezza.

Tuttavia, se l’incertezza e l’ignoto vengono tollerati e ascoltati liberamente possono far emergere intuizioni creative, come piante pioniere. Le piante pioniere sono infatti piante che, come l’erica, anche dopo l’evento più avverso, anche in terreni devastati, poveri, poco profondi, allignano.

L’esito non sarà l’eliminazione dell’angoscia, ma una sua maggior tolleranza, poiché sarà possibile sviluppare fiducia che qualcosa si trasformi. A tal proposito, come scrive Nina Coltart nella prefazione del libro Pensare l’impensabile, «ogni ora, con ogni paziente è anche, a suo modo, un atto di fede; fede in noi stessi, nel processo, e fede negli aspetti segreti, sconosciuti, impensabili nel nostro paziente che, in quello spazio che è l’analisi, arrancano [are slouching] aspettando il momento in cui sarà giunta infine la loro ora»[1]. Come nella prima citata poesia, arrancare: l’analisi è fatta di questo movimento per venire alla luce, il movimento doloroso della rozza bestia, che è tutto ciò che è “al di là delle parole”, che attende il giungere della sua ora.

Ci si ritrova così in linea con Freud nell’attendere con attenzione che “il disegno emerga”, e con Bion sull’importanza di «sviluppare la capacità di tollerare di non sapere; la capacità di sostare con il paziente, spesso per lungo tempo, senza alcuna indicazione precisa di dove ci troviamo, facendo affidamento sui nostri strumenti abituali e sulla nostra fede che il processo possa condurci attraverso la sconcertante oscurità della resistenza, attraverso difese complesse e attraverso la natura completamente inconscia dell’inconscio»[2].

Nell’epoca della velocità e del “tutto subito”, riscoprire il senso dell’attesa significa approcciarsi ad essa cogliendo l’opportunità di osservarsi, ascoltarsi e scoprire aspetti di sé che non saremmo riusciti a vedere in preda all’impazienza e all’agitazione.

Note

[1] N. Coltart, Pensare l’impensabile, Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 3

[2] W. R. Bion, Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma, 2010, p. 3.

Bibliografia

Bion, W. R. (1970), Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma, 2010

Coltart, N. (2017). Pensare l’impensabile. E altre esplorazioni psicoanalitiche. Raffaello Cortina Editore

di Marta Restelli

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