Epoché, un’arma contro lo scetticismo?

di Matteo Nepi

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Ritirarsi dall’esperienza per cercarne i principi regolatori. Dal dubbio scettico come negazione della realtà, al dubbio metodico cartesiano atto a riconquistarla, sino al dubbio come parentesi del reale – e non come fuga da esso – nell’epoché husserliana.

Imballaggio del Reichstag a Berlino | Christo (1995)

Imballaggio del Reichstag a Berlino | Christo (1995)

Il più grande nemico della filosofia è, da sempre, lo scetticismo. Non parlo di quell’atteggiamento sospettoso che ci fa alzare un sopracciglio quando leggiamo sul giornale che il governo abbasserà finalmente le tasse, bensì di un atteggiamento molto più generalizzato e subdolo, che è tale in quanto nasce proprio all’interno delle discipline che si occupano di indagare le possibilità e i contenuti della conoscenza. È la tentazione, sempre in agguato, di rinunciare alla ricerca della verità, di negare l’accessibilità della conoscenza, il cui inevitabile esito è l’equipollenza di ogni opinione e l’inconfrontabilità delle stesse, e l’oscillare insensato tra il cazzeggio verbale e il fascismo.

Lo scetticismo si ripresenta ciclicamente, in forme diverse, in risposta sia agli ostacoli che la ricerca incontra, sia alle conclusioni assurde cui essa talvolta giunge. La tesi classica dello scetticismo può essere riassunta dalla seguente proposizione: «La conoscenza del mondo reale ci è preclusa e tutto ciò cui possiamo aspirare è mera opinione». Lo scettico sospende quindi il giudizio sul mondo, si dispone in un atteggiamento che i pensatori antichi chiamavano epoché.

Può sembrare una posizione molto radicale, una di quelle credenze stravaganti che è quasi divertente riscontrare in piccole comunità chiuse o in pittoreschi casi di umana follia. In effetti, il comportamento più coerente con la posizione scettica dovrebbe essere rinchiudersi nel silenzio totale o sdraiarsi sui binari senza il timore che un treno ci possa travolgere: in fondo, anch’esso sarebbe solo un’opinione (seppur pesante svariate tonnellate). Ma in realtà lo scetticismo è qualcosa di molto più serio, pericoloso e diffuso di quanto si possa pensare.

Ciascuno di noi, probabilmente, è a suo modo scettico o lo è stato inconsapevolmente. Non è raro sentir dire che la verità non ci appartiene, che forse non la raggiungeremo mai, che ogni punto di vista è valido quanto gli altri e che la verità è solo una questione di “prospettiva”. E in effetti molte di queste posizioni sono motivate da un’esigenza del tutto sacrosanta, cioè quella di combattere le posizioni assolutistiche che reclamano l’indubitabilità dei propri presupposti. A ben vedere, però, lo scetticismo non è che una forma di assolutismo a sua volta, poiché presuppone ingiustificatamente che la verità assoluta da qualche parte ci sia, e che noi non vi abbiamo accesso. Questa idea di verità è quindi assunta come dogma e “dogma”, in filosofese, è una bruttissima parolaccia.

Uno dei pensatori più irritati dallo scetticismo fu René Descartes (Cartesio per gli amici). Egli volle essere così sicuro di non assumere assolutamente nulla ingiustificatamente che – udite udite! – decise di fare epoché. Ma come? Vuoi sconfiggere lo scetticismo diventando scettico a tua volta? Cartesio, però, aveva un piano: si sedette quindi davanti al fuoco della stufa e iniziò a dubitare di qualunque conoscenza, con lo scopo di cercare qualcosa di cui non gli fosse assolutamente possibile dubitare. Alla fine trovò questa certezza in un fatto: non poteva dubitare di stare dubitando. Ego cogito – disse – ergo sum!

La sua idea era quindi di riuscire a garantire l’esistenza del mondo a partire dall’esistenza indubitabile di un “io pensante”. Peccato che, come in molti concordano, il suo tentativo di fondare su quel dato tutto il resto della conoscenza non funzionò affatto e quello che ottenne fu di spalancare la porta a uno scetticismo ancora più radicale. A partire dal singolo dato del cogito, infatti, Cartesio non riuscì a fondare nulla di solido, in quanto il dubbio iperbolico aveva fatto piazza pulita di qualsiasi altra certezza. Cartesio aveva fatto una mossa pericolosissima: aveva annullato la differenza tra la possibilità del dubbio e il dubbio stesso.

La sfida alla ricerca filosofica per il futuro era stata involontariamente lanciata; si trattava ora di riuscire a dimostrare che o il dubbio non è sempre possibile, o che se anche è possibile non per questo è legittimo. Il guanto viene raccolto da un nuovo filone di ricerca inaugurato da Kant, che prende il nome di “metodo trascendentale”. Sotto questo nome vanno tutti quei tentativi di rendere conto in modo sistematico dei limiti della ragione, e tracciare quindi il confine tra ciò di cui si può dubitare in generale e ciò di cui si può dubitare sensatamente.

In questa corrente si suole collocare anche il pensiero di uno dei filosofi più rigorosi di sempre, Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Husserl cercava di combattere una forma di scetticismo chiamata “psicologismo”, il quale riconduceva l’intera conoscenza a un processo mentale. In pratica, le leggi logiche venivano da esso subordinate a quelle psicologiche o, banalizzando, «pensiamo così perché il cervello è fatto così», con la conseguenza di fare di ogni conoscenza un fatto meramente contingente e dipendente dalla psiche. Ma se le cose stessero in questo modo, obietta il filosofo, come potremmo fidarci delle nostre conoscenze sul funzionamento del cervello? Husserl però non si accontenta di far notare come lo scetticismo psicologista finisca per segare il ramo sul quale è appoggiato: vuole anche riuscire a dimostrare che le leggi logiche sono insite nell’esperienza stessa, e quindi noi non le inventiamo, ma le scopriamo. Se esistono legalità ideali di questo tipo, non possiamo dubitarne senza perdere il senso del dubitare stesso. In altre parole, voleva mostrare che vi sono cose di cui non è possibile dubitare sensatamente.

Per analizzare l’esperienza senza farsi condizionare dalle proprie opinioni e per trovare solo ciò che in essa è realmente dato, Husserl decide di disporsi verso il mondo con un atteggiamento distaccato e imparziale. Ormai l’avrete capito: pure lui decide di fare epoché. Ma, a differenza di Cartesio, nel suo ritirarsi dal mondo Husserl non mette in discussione le sue certezze, non le nega. Si limita a metterle “fra parentesi”, assumendole come un mero dato. Si sottrae all’ovvietà dell’esperienza per osservarla in modo disinteressato. La sua è una epoché fenomenologica, che si distingue da quella scettica in quanto non è motivata dall’incertezza sull’esistenza della realtà esterna, ma dalla ricerca di una prospettiva neutrale e obiettiva sul fenomeno. Da questa “distanza”, Husserl osserva ciò che si manifesta, nel modo in cui si manifesta e per come si manifesta, dagli oggetti fisici a quelli mentali. Ne individua le differenze e le caratteristiche essenziali, modifica idealmente alcune parti per vedere a quali condizioni gli oggetti di una certa specie possono manifestarsi in quanto tali (ad esempio gli oggetti fisici non possono darsi senza estensione o senza prospettiva, la musica non si dà al di fuori di una temporalità e il significato non viene compreso in mancanza di un riferimento intenzionale a un oggetto). Tali strutture non dipendono dal nostro modo di pensare ma sono condizioni di possibilità dell’esperienza così come essa si offre a noi e dubitare di esse produce semplicemente la scomparsa del senso di quell’esperienza. Si comprende quindi che la possibilità del dubitare ha dei vincoli, che non possiamo dubitare sensatamente di qualcosa senza credere a qualcos’altro.

A mio avviso è estremamente significativo che l’epoché, una mossa tipicamente scettica, sia stata scelta così spesso come arma contro lo scetticismo stesso e come la sospensione del giudizio sia stata usata come strumento per prevenire la sfiducia nei giudizi. Ciò mostra soprattutto come la strada per la certezza debba passare per l’incertezza e che il primo passo verso la conoscenza sia, molto socraticamente, diventare consapevoli della propria ignoranza. Ma ancora più importante è il fatto che, come abbiamo appreso a spese di Cartesio, il dubbio è una buona colazione ma una pessima cena: va bene cominciare da lì ma, se ci si arresta, tale operazione perde di significato. Se il dubbio non conduce a una nuova ricerca, allora è un dubbio sterile e fine a se stesso. È quindi necessario ritirarsi momentaneamente dal mondo per conoscerlo e poi riconquistarlo più consapevolmente.

In questo caso è giusto ritirarsi e, proprio ritirandosi, si ottiene riuscita. Il successo consiste nel fatto che si può eseguire bene la ritirata. La ritirata non è da confondersi con la fuga, che non pensa ad altro che a salvarsi a tutti i costi. Ritirarsi è indizio di forza. (I Ching, esagramma 17)

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