Tra il dire e il fare: cosa ci convince a essere giusti?

di Matteo Nepi

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Un viaggio nella storia della filosofia per scoprire la forza domatrice della parola. A partire da una provocazione di Gorgia, Hume e Kant si interrogano sul rapporto tra retorica, logica ed etica.

Chiunque abbia una qualche infarinatura di storia della filosofia, leggendo il tema di questo numero penserà immediatamente a quel gioiello della sofistica che è l’Encomio di Elena, breve scritto nel quale Gorgia, il retore e filosofo siceliota del IV secolo a.C., assolve Elena di Troia dall’accusa di essere responsabile dello scoppio della guerra. Per fare ciò, si avvale – fra gli altri – di un singolare argomento: se la donna era stata persuasa dalle parole di Paride, il quale era un abile oratore (oltretutto favorito dagli dèi!), ella è da considerarsi innocente, dal momento che è insito nella parola un potere straordinario:

[Il logos] è un grande sovrano, il quale, con piccolissimo e invisibile corpo, porta a compimento opere divinissime. È infatti capace di far cessare la paura, di levare il dolore, di provocare la gioia, di sollevare la pietà[1].

Helene Paris Louvre K6 di English Painter of Stockholm 1999 - UserBibi Saint-Pol, own work, 2007-06-15. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.jpg

Elena e Paride. Faccia A di un cratere a campana apulo a figure rosse, 380-370 a.C., Louvre

Attraverso la retorica è possibile spingere gli uomini a compiere qualsiasi azione, perfino a provare qualunque sentimento. La forza della parola è qualcosa che, se ben adoperato, diventa uno strumento invincibile e irresistibile. Anche senza particolare sforzo si può notare che Gorgia non fa riferimento al significato: il linguaggio non conta per ciò che significa, ma solo per ciò che fa. Non è quindi un veicolo per un contenuto concettuale, che verrebbe poi rielaborato razionalmente, bensì un vero e proprio agente fisico. Un discorso avrebbe quindi effetti sensibili sulle passioni e non sulla ragione, pertanto chi agisce sotto la spinta di una simile forza, agisce secondo necessità, così come un corpo se attratto dalla forza di gravità non può fare a meno di cadere, e per questo non è moralmente condannabile.

Conclusioni simili provocano indubbiamente un certo sconcerto: assolveremmo noi un criminale che si difendesse sostenendo di essere stato convinto da qualcuno ad agire in un certo modo? Forse solo nei casi in cui il soggetto fosse manifestamente indebolito nelle sue facoltà mentali, come nei casi di circonvenzione di incapace, ma in ogni altro caso attribuiremmo al criminale la piena responsabilità delle sue azioni. Forse Gorgia voleva solo giocare un po’ con il lettore, provocandone la riflessione sul potere ambiguo del linguaggio. Come ammette lui stesso, infatti:

[…] ho in somma un’orazione voluto scrivere, che ad Elena servisse d’Encomio, ed a me stesso d’un dilettevole trattenimento.

D’altra parte Gorgia solleva alcuni pesanti interrogativi sul rapporto tra linguaggio e giudizio morale, tra logos ed ethos. La sua argomentazione è un esempio di come un discorso ben elaborato possa convincerci anche delle cose più strane, indipendentemente da ciò che in esso vi è di vero o di falso. Ma se si ammette che non vi è alcun legame tra parola e razionalità, si è costretti a concludere che non vi sia un legame nemmeno tra ragione e moralità. Questo gran polverone che si sta sollevando deve indurci a cercare di fare un po’ d’ordine: che cosa vuol dire “convincersi” infatti, se non credere che un certo ragionamento sia valido? Elena ha creduto che quanto affermato da Paride fosse giusto, o per esprimersi in altro modo, ha creduto valido il quadro razionale in cui Paride le presentava una certa scelta come una scelta giusta. Se le cose stanno così, non possiamo proprio dar retta a Gorgia quando sostiene che la retorica è totalmente disgiunta dalla logica.

E se invece le cose fossero andate diversamente ed Elena fosse stata pienamente consapevole che Paride diceva un sacco di cavolate, ma nonostante questo abbia deciso di seguirlo assecondando i propri desideri? Questa è la posizione, ad esempio, di David Hume, uno dei più noti empiristi britannici del XVIII secolo. Hume, infatti, nel suo Trattato sulla natura umana, elaborò un grande sistema teorico nel quale dimostrava che il comportamento umano è guidato unicamente dalle passioni, mentre la ragione ha il solo scopo di fare da ancella a queste, trovando il modo migliore e più lungimirante di assecondare gli impulsi. Il giudizio morale, quindi, sarebbe solo un metro con cui valutiamo le azioni, nostre o altrui, in base all’effetto che potrebbero avere verso le nostre passioni, e tale effetto è compito della ragione prevederlo e calcolarlo:

La ragione […] può avere un’influenza sulla nostra condotta solo in due modi: o quando suscita una passione con l’informarci dell’esistenza di qualcosa che rappresenta un oggetto proprio della passione; o quando scopre la connessione tra le cause e gli effetti in modo tale da offrirci dei mezzi per soddisfare una passione[2].

La teoria di Hume non nega che il logos sia in relazione con le passioni, ma sono queste ultime a esercitare la forza domatrice, pertanto Elena avrebbe potuto ben accorgersi che il ragionamento di Paride faceva acqua da tutte le parti, ma avrebbe comunque giudicato giusto seguirlo, perché il farlo, secondo la sua ragione, avrebbe avuto alla fine un effetto positivo sulle sue passioni.

Il sistema di Hume, in apparenza semplice, si complica quando, per spiegare una serie numerosissima di comportamenti sociali, aumenta progressivamente i compiti che la ragione può svolgere nel “servire” le passioni, attenuando di fatto la radicalità che la sua posizione mostrava al principio. Al di là dei problemi che presenta, la teoria humeana si basa sulla premessa empiristica che ogni conoscenza deve derivare dalle percezioni, pertanto nello studiare il rapporto che intercorre tra il giudizio morale e il comportamento si serve di un metodo coerente con questa impostazione: l’osservazione. Non ci dice nulla, infatti, su come l’uomo dovrebbe comportarsi, ma parla solo di come effettivamente si comporta (o meglio, di come egli, Hume, interpreta certi comportamenti che riscontra), e dunque secondo le sue osservazioni non capita mai che la perfezione di un ragionamento influenzi le nostre decisioni, a meno che non sia utile ad assecondare le pulsioni, che sono molteplici, irrazionali e diverse per ciascuno di noi.

Se il paradigma che costituiva le premesse del pensiero di Hume non fosse stato successivamente abbattuto da sistemi teorici più vasti e coerenti ci sarebbe davvero da mettersi le mani nei capelli. Che brutta scoperta per un filosofo o uno scienziato ritrovarsi con la ragione ridotta in schiavitù e in balìa del caos delle passioni! Per fortuna, a opporsi a Hume, giunge il meraviglioso cervello di Immanuel Kant, che nel 1788 affronterà il problema con il rigoroso metodo trascendentale da lui stesso elaborato.

Kant non attribuisce all’osservazione il valore prioritario che gli assegnava Hume, poiché si rende conto che l’esperienza a cui abbiamo accesso è già in qualche modo “organizzata” secondo degli schemi razionali. È quindi a questi schemi che bisogna guardare se si vuole studiare la morale in modo scientifico. Egli si interroga su quei comportamenti che si manifestano per noi come adeguati al concetto di moralità, e quelli invece che sono contrari a esso; così facendo lo schema del giudizio morale viene a poco a poco definendosi prendendo la forma di un imperativo comportamentale generale: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, insieme, come principio di una legislazione universale»[3].

Tradizionalmente, la morale di Kant viene opposta alla morale descrittiva di Hume come una morale prescrittiva, che cioè indicherebbe un dovere, ma a ben vedere Kant non fa altro che descrivere un concetto che la ragione già contiene, e che si scopre quando riconosciamo un certo comportamento come moralmente virtuoso. Se questo è tale da conformarsi alla legge generale in modo da rappresentarne un caso particolare allora si manifesta come giusto, altrimenti no. Chi sarebbe capace di giudicare etico il comportamento di una persona che segue solo i propri impulsi? Da questo punto di vista Elena è pienamente colpevole, poiché a differenza degli animali essa è dotata di un intelletto capace di distinguere il razionale dall’irrazionale e quindi il giusto dallo sbagliato. Per quanto alcuni aspetti del sistema di Kant nel tempo abbiano richiesto modifiche e miglioramenti, egli ci ha lasciato, con la Critica della ragion pratica, la fondamentale dimostrazione che il giudizio etico, seppur debba fare i conti con le passioni, è un principio di natura razionale.

La forza domatrice piccola dev’essere la ragione: se essa riesce a opporsi alla forza delle passioni allora si ha la virtù, «la forza domatrice piccola ha riuscita. Dense nubi, nessuna pioggia dalle nostre contrade occidentali».

Note:

[1] Gorgia, Encomio di Elena, in Franco Trabattoni, Gorgia-Platone. Parola e ragione, Unicopli, Milano 2000, pp. 55-69.

[2] David Hume, Trattato sulla natura umana, lib. III, parte I, sez. I.

[3] Immanuel Kant, Critica della ragione pratica, lib. I, cap. I, § 7.

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