Moksha – Sognare l’ascesi dal fondo del pozzo

di Carola Benelli

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Qual è la percezione della morte di sacerdoti e officianti del rito induista? La religione assegna loro, come sempre, un ruolo privilegiato e una sensibilità particolare per l’aldilà. Gli psicologi si aspettano, invece, maggiore abitudine emotiva alla morte. Risultato degli studi? Sorpresa.

Nelle calde giornate di agosto, sotto la cappa opprimente di un cielo monsonico, osservare lo scorrere del Gange, così vasto e denso, così pacato nel suo avanzare eppure così inesorabile, è un’esperienza che ha molto a che fare con l’osservare la vita stessa, soprattutto se ci si trova a Varanasi. Antichissima e caotica, Varanasi è la città sacra dell’Induismo,[1] meta di pellegrinaggio per milioni di indiani e unico luogo in cui gli dèi concedono agli uomini di sottrarsi al ciclo delle reincarnazioni, ottenendo il moksha, cioè la liberazione. Chi può, viene a morire qui.

Allontanandosi dalla vie più ampie, intasate dai tuk tuk e dai mercati, ci si addentra nel cuore della città vecchia e si percorrono vicoli intricati, costellati di templi, assediati dai fedeli, affollati dalle mucche, attraversati dai topi e carichi di vita. Ci sono venditori di tè, mercanti di spezie, abili preparatori di lassi [2], uomini con barbe bianche e abiti arancioni, insistenti procacciatori di clientela e una calca di credenti a piedi nudi che si dirige al tempio d’oro con le mani cariche di puja.[3]

Il ghat [4] destinato alle cremazioni, chiamato Manikarnika, si raggiunge solo attraversando questo dedalo intricato di strade, con l’impressione crescente di aver lasciato il mondo conosciuto per metter piede in un luogo mitologico. Lì, sulle sponde del fiume, giungono i cortei funebri, lì i corpi, avvolti in tessuti dai colori brillanti, sono immersi nell’acqua fino alle ginocchia e lavati a lungo con le acque sacre. Dopodiché, il cadavere è poggiato sulla pira con la testa a nord e i piedi a sud, cosparso di polvere di legno di sandalo e di ghi [5] e infine incendiato dal figlio maggiore. La cremazione dura quattro o cinque ore e si conclude con la raccolta delle ceneri, che vengono restituite al Gange. Nel corso del rito pare non esserci spazio per la commozione, al contrario: ciò che serve è la massima concentrazione affinché ogni gesto sia compiuto correttamente e il defunto sia finalmente in pace. I lamenti di dolore per la perdita sono considerati un cattivo augurio per la persona che sta per essere cremata.

Il tema che l’I King ci invita a considerare questo mese mi è parso, mentre mi attardavo su quella riva, una chiave di lettura illuminante. Da un lato, l’ascesi come coronamento di un percorso ed esito dell’impegno personale è ben esemplificata dal concetto di reincarnazione che sta al cuore dell’Induismo. Dall’altro, Varanasi sembra incarnare il pozzo: luogo di sofferenza, di miseria, di morte, è al tempo stesso la porta d’accesso ad una nuova vita o all’agognato moksha che gli dèi possono concedere. Il pozzo e l’ascesi dominano la città in una tensione che è anche, prima di tutto, complementarietà. Così, nella città sacra non è insolito che si lavino i panni a pochi metri dalle pire, che si osservi un corteo funebre mentre si sorseggia un masala chai, [6] e neppure che si eseguano le abluzioni quotidiane nella stessa acqua in cui galleggiano cadaveri di bambini e donne incinte. [7] Nella commozione profonda che travolge l’osservatore, molti dei significati sfuggono o restano inafferrabili, ma certamente un fatto emerge con vigore: per gli uomini di Varanasi, la morte non rappresenta ciò che rappresenta per noi. La precisione e la serietà di chi compie i gesti rituali, così come la serenità di chi vive accanto a questo interminabile teatro che a noi pare degli orrori, sono indice di un rapporto particolare con la morte.

La complessa relazione degli abitanti di Varanasi con la morte è stata indagata di recente da Fernandez, Castano e Singh (2010), che hanno condotto una ricerca per comprendere che cosa accada quando si vive in circostanze così anomale (almeno dal nostro punto di vista). La teoria di riferimento a partire da cui è stato ideato lo studio è nota con il nome di Terror Management Theory (TMT) ed è stata messa a punto da Greenberg, Pyszczynski, & Solomon (1986). Secondo questo approccio, per gestire il terrore esistenziale connesso alla consapevolezza dell’inevitabilità della morte, gli individui (a) si immergono in una lettura del mondo che è fondata culturalmente e che fornisce un senso soggettivo di significato e permanenza e (b) rinforzano la propria autostima, principalmente sentendosi membri significativi di una mondo dotato di significato. Da ciò consegue un ulteriore elemento: in condizioni che portano i soggetti a ricordare l’inesorabilità della morte, ci si aspetta che la risposta sia un rafforzamento del rapporto con i soggetti con cui si condivide quella lettura del mondo che, come abbiamo detto, serve da protezione ed evita un’azione devastante del terrore e che si indebolisca e si deteriori il rapporto con individui appartenenti ad altre società.

Diverse culture rappresentano la morte in termini differenti: ad esempio, mentre nella visione giudaico-cristiana la lettura è di tipo lineare, in quella induista è circolare, come appare evidente dalla teoria delle reincarnazioni. Inoltre, contesti di vita differenti implicano gradi differenti di esposizione alla morte. Ma cosa accade se l’esposizione alla morte diventa cronica? Si finisce con l’accettare la morte, si inibiscono le risposte di difesa in presenza di un elemento che ci rammenti il nostro inesorabile destino oppure queste stesse risposte di difesa (come etnocentrismo e religiosità) si rafforzano?

Fernandez e colleghi (2010) hanno raccolto i dati di un campione di 254 induisti della provincia di Varanasi, divisi in due sottogruppi in base all’alta o bassa esposizione alla morte a seconda della professione svolta. Per esempio, sono stati assegnati al primo gruppo sacerdoti, uomini coinvolti nel trasporto dei corpi e barcaioli, mentre sono rientrati nel secondo alcuni agricoltori di villaggi ad una ventina di chilometri dalla città. Applicando il paradigma della TMT, gli autori hanno raccolto alcune informazioni relative alla gestione del terrore associato al tema della morte. In particolare, hanno valutato l’attaccamento ai propri valori e alla cultura di appartenenza e l’atteggiamento verso membri di altri gruppi culturali, chiedendo ai partecipanti di compilare un questionario valutando una serie di affermazioni su questi temi8.

Ci si potrebbe aspettare che i meccanismi di difesa che la teoria di Greenberg e colleghi ipotizza non siano attivi, o perlomeno siano più deboli, nei soggetti che ogni giorno si trovano faccia a faccia con la morte: inutile ribadire quanta forza possa avere l’abitudine. Eppure non è così. Posti davanti a questioni esistenziali che hanno a che fare con la fine della vita (o, dovremmo dire, di questa vita) gli uomini che ogni giorno preparano le pire, trasportano i corpi o officiano le cerimonie sono presi dal medesimo terrore di chi vive nei campi e non respira l’odore acre delle strade di Varanasi. Come a dire: c’è qualcosa di spaventoso nell’inevitabilità della fine che ci attende che non può essere domato, affievolito o superato, neppure se pensiamo che la morte sia solo l’inizio di una nuova vita. Ed è interessante notare che l’attaccamento alla propria cultura e l’ostilità verso lo straniero siano così intimamente connessi al terrore esistenziale cui la vita ci pone davanti. Proprio nel momento in cui la natura ci ricorda che siamo tutti uomini, costruiamo muri e chiudiamo le porte al mondo. Non riusciamo a sognare l’ascesi se non guardandola dal fondo del pozzo.

 

Note:

1. Secondo la leggenda è qui che si recò Shiva a purificarsi nelle acque del Gange dopo aver mozzato una delle cinque teste di Brahma, colpevole di incesto.

2. Bevanda indiana a base di yogurt.

3. Offerte alla divinità, in genere latte e fiori di gelsomino.

4. Scalinata che discende verso il Gange.

5. Burro chiarificato.

6. Tè speziato indiano.

7. Bambini, donne incinte, persone morte per morsi di serpente e saddhus sono considerati puri e restituiti al Gange senza cremazione.

8. Un esempio che può risultare chiarificatore. Al partecipante si descrive la seguente situazione: uno straniero sta osservando uno yogi che pratica la meditazione e afferma che gli Indiani dovrebbero smettere di perdere tempo in queste attività e che sia ipocrita cercare di rubarsi qualche rupia a vicenda se la maggior parte del tempo si trascorre a meditare e non a lavorare. Si chiede poi di valutare, su una scala Likert a sei intervalli, quanto si apprezzi questa persona e quanto si ritenga debba essere punita.

Bibliografia:

Fernandez, S., Castano, E., & Singh, I. (2010). Managing death in the burning grounds of Varanasi, India: A terror management investigation. Journal of cross-cultural psychology, 41(2), 182-194.

Autore

  • Psicologa, attualmente in formazione come psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, aspira a diventare un'esperta di mindfulness. Curiosa avventuriera e grande pasticcera. Una tartaruga nell'Oceano Indiano è stata battezzata in suo onore.