Ascesi per ascesa

Il “mistero del lago” ai piedi dello Hochlicht

Valle del Lys, agosto 2017, giorno di escursioni montane e liti con la segnaletica verticale che punteggia il panorama montano. L’obiettivo è quello di salire in vetta – difficile fare altro in Val D’Aosta – e sfidare uno dei monti che coronano la valle e il ghiacciaio del Monte Rosa: sarà il nome suggestivo e austero, sarà la relativa facilità del percorso, ma la scelta cade sullo Hochlicht, l’Alta Luce, monte basso (3185 m) se paragonato ai mastodonti che compongono la dorsale alpina.

Imbocchiamo il sentiero dal paesolo di Gressoney-La-Trinité, ed ecco che il primo cartello, anfibolo come la Sfinge, ci si para innanzi: “Gressoney-Lago Gabiet, 2.15h, EE”. Cinque comode ore dopo ecco il dannato lago manifestarsi oltre l’imponente muro della diga. L’ascesa è fallita, lo Hochlicht destinato a rimanere irraggiungibile come quella luce che di rado pare filtrare dai piani superiori, e al suo posto solo stambecchi, pecore e bestemmie. Ah, e il lago squassato dalla pioggia gelida dei 2400 metri.

Morale della favola: meglio partire presto, e magari con il bel tempo. Che morale insignificante, da pedante alpino serio, serioso, molto serioso! Orsù, tira fuori una morale migliore: mai fidarsi dei cartelli alpini, sono fatti per gli alpini seriosi, mica per gli scappati di casa della domenica come noi! Dai che se ti impegni un pizzico di più arriviamo a qualcosa di decente. “Third time’s a charm” dicono gli inglesi: talvolta per completare un’ascesa impossibile – o fuori dalle nostre capacità – occorre applicare una Riduzione.

Il cielo dentro il monte. Ph. Anna Laviosa, © 2017

Il cielo dentro il monte. Ph. Anna Laviosa, © 2017

Già me la immagino, quella fantomatica chimera stocastica chiamata “Uomo medio”, dirmi con tono canzonatorio: “E sticazzi, bella rivelazione guru di ‘sta ceppa, tutto ‘sto giro di parole per raccontarmi la favola della volpe e l’uva?”. Panico. Sarà il suo tono romanesco ad aizzare il mio spirito polemico-meneghino, ma non posso dargliela vinta, ne va della mia nomea di intellettuale nullafacente, ne va dell’onore della filosofia e della mia città e, in fondo, dell’intera umanità! Una voce fittizia nella mia testa, specie se tinteggiata di romanesco e adombrante lo spauracchio mediatico dell’uomo medio, non può avere ragione, costi quel che costi. Prendo tempo. Uso parole complicate come “evenemenziale”, “parossistico” e “docetista” per confonderlo e attuare una perfetta “mossa Kansas City”: mentre lui morde la foglia e comincia a “schiumare peso” (parole sue, giuro), io apro di nascosto la mia copia portatile dell’I Ching, autentico toccasana per l’intellettuale alternativo in penuria di argomenti, ed ecco che il mio occhio cade su una sequenza di esagrammi talmente perfetta per la situazione da non farmi neanche sentire il rombo del motore della ruspa appena accesa dal mio fantomatico interlocutore.

La Riduzione (Sunn) è il lago (Tui) sotto la montagna (Kenn), ma questo lago, riducendosi nell’evaporazione, spinge verso l’alto e porta nutrimento al monte. Così facendo il lago evaporato si trasforma nel cielo (Kkienn), e la sua potenza creatrice feconda il monte: per questo lo sviluppo della Riduzione è la Forza domatrice del grande (Ta Cciu), «Il cielo dentro il monte» come dice l’oracolo stesso.

Ecco il mio errore nell’ascesa allo Hochlicht! Con l’entusiasmo e l’impazienza tipica dell’apprendista stregone miravo alla vetta, a completare l’ardua ascesa che mi avrebbe portato sul tetto del ghiacciaio alpino, ma non sapevo che per arrivare in cima sarei dovuto passare attraverso il lago: che cosa significa questo al di fuori dell’arcana simbologia dell’I Ching? Desideravo l’ascesa e la gloria che proviene dalla conquista della cima, ma il mondo (che sarà pur crudele, ma ci conosce molto meglio di noi stessi) mi ha restituito frustrazione, cartelli truffaldini, e un lago sovrastato dal monte: fallita l’ascesa rimane solo la Riduzione offertami dal lago, l’invito a contrarre l’inferiore a vantaggio del superiore, cioè l’ascesi.

Dunque il romanaccio ch’entro mi rugge ha una sua fetta di ragione, tutto questo assomiglia molto alla favola della volpe e l’uva: “Non riesci ad arrivare a destinazione? Non ti preoccupare, mica è tutta ‘sta gran cuccagna l’Alta Luce, accontentati di un po’ di auto-mortificazione e spiccioli esercizi spirituali e andrai alla grande”. Ma non è il caso di perdersi d’animo, siamo in ottima compagnia in questo girone. In fondo questo è un segreto trasversale a ogni tradizione misterico-religiosa: l’ascesa diretta, l’approccio immediato al divino, è impossibile. Per questo attribuiamo tale capacità solo a figure seminali, siano Mosè, Gesù, Buddha, Maometto o Superman. Per tutti noi comuni mortali, finitissimi ricettacoli di eternità sballottati senza posa in questo teatrino che chiamiamo esistenza, la via è interrotta, e l’unico modo per salire è di usare la nostra costitutiva incapacità di farlo. Dobbiamo farcela proprio in virtù del fatto che è impossibile per noi avere successo.

Lo so, questa è una contraddizione bella e buona, anzi, è più di una contraddizione, è un assurdo: ma i mistici sono sempre stati maestri del surreale, e hanno espanso la nostra capacità di pensare la contraddizione e l’assurdo di una dozzina di ordini di grandezza rispetto allo “standard” logico-aristotelico. Diverse tradizioni hanno dato diverse interpretazioni di quello che possiamo chiamare “il mistero del lago”, cioè la riduzione dell’inferiore: che cos’è – e con che simboli esprimiamo – questo inferiore che vogliamo contrarre a vantaggio del superiore? Se il superiore è sempre il risveglio dell’iniziato alla “realtà ultima” e l’incontro con l’origine silenziosa che travalica persino Dio stesso, l’inferiore è il corpo, la materia, o persino “l’intelletto finito”. Così, per la Qabbalah il “lago” è l’altare sacrificale del Tempio, e la vittima è il corpo e l’intelletto dell’orante: al posto del bianco fumo del grasso animale è il disgustoso odore del corpo dopo settimane di digiuno a risalire il monte e ad aprire la via. Per i Sufi, invece, l’irrealtà materiale è il lago, in antitesi all’immateriale realtà “oltre il velo”, e la non compossibilità tra questi due ordini genera una potenza che l’uomo, in quanto elemento mediano tra i due ordini, è capace di sfruttare per spingersi in alto come per un effetto di rinculo.

Gli esempi non mancano, ma prima di perdermi nel delta dell’erudizione occorre chiederci: dove ci conduce questa riduzione? Se l’ascesa diretta è impossibile, dove porta questa ascesa per ascesi? Alla Forza domatrice del grande. «Il cielo dentro il monte» recita l’Immagine dell’esagramma: ecco un’immagine splendidamente sintetica per il concetto di microcosmo. Lo scopo dell’ascesi è trasformare il corpo, l’uomo nella sua materialità, nella montagna stessa. “Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna”, dice il detto popolare: se l’uomo non può salire sullo Hochlicht, allora deve porre l’alta luce dentro di sé e rendersi corrispondente, imparentato, analogo del Dio di cui è in cerca.

Come per la leggenda su Maometto, il fallimento è necessario, non si può “salire” senza aver fallito. La placida tranquillità lacustre deve essere perturbata, messa in moto, per essere messa al servizio del superiore. Non nella calma atarassia raggiungiamo il cielo, ma quando il nostro disagio e la nostra finitezza ci spingono a ricercarlo: davanti alla nostra inadeguatezza dobbiamo posare le armi, e “costruire il cielo” dentro di noi. Ma la sequenza RiduzioneForza domatrice del grande nasconde un altro significato: il lago e il cielo sono la stessa cosa, quello che noi cerchiamo “è già dentro di noi” proprio come nei peggiori film holliwoodiani. L’unica differenza con il cliché cinematografico sta nel fatto che il cielo è sì da sempre in noi, ma solo in quanto è camuffato nelle sembianze del suo stesso “fallimento”, come il suo inverso speculare che noi dobbiamo ribaltare per andare avanti. La differenza tra il cielo e il lago è, dunque, solo la trasformazione dialettica del fallimento nella propria affermazione: la montagna che domina la sequenza RiduzioneForza domatrice del grande significa sì “contenitore”, cioè la capacità di tenere dentro di sé l’agitazione del lago e la forza creatrice del cielo, ma significa altresì “arresto”. Davanti al nostro fallimento occorre fermarsi e aspettare, perché ciò che distingue il cielo dal lago è solo il tempo, come dice l’I Ching nei segni misti: «La forza domatrice del grande dipende dal tempo».

di Alessandro Vigorelli Porro

Autore

  • Studente di filosofia laureatosi al corso triennale con una tesi focalizzata sull'hegelismo e, dopo un'esperienza di studio a Venezia, al corso magistrale dell'università milanese, presso la cattedra di Storia della filosofia ebraica. Attualmente, è intenzionato a svolgere un dottorato, sempre sul solco del pensiero ebraico.