Sidney Lumet – Come arrivare alla banana e vivere felici

di Martina de Martino

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Che si sia giurati chiamati a giudicare in un delicato processo, come nel film di Sidney Lumet, o soltanto scimmie oggetto di un test di gruppo, il modo che abbiamo per accrescere ed evolverci passa per il dialogo e il ripensamento di scelte a volte affrettate.

Ci sono dieci scimmie, una gabbia, una scala, una banana e un getto d’acqua gelata. Sembra l’inizio di una bella barzelletta ma in realtà ci troviamo di fronte agli elementi fondamentali di un interessante esperimento condotto nel 1967 da G. R. Stephenson. Cinque scimmie vengono messe dentro una gabbia al centro della quale è posizionata una scala che permette loro di raggiungere una banana legata con una corda al soffitto. Una delle scimmie cerca di raggiungere il frutto ma nel momento in cui si appresta ad afferrare il suo premio un getto d’acqua gelata colpisce lei e le altre quattro sventurate presenti. Dopo svariati tentativi da parte del gruppo, l’associazione banana = getto d’acqua viene interiorizzata e tutte smettono di provarci. Una delle cinque scimmie viene a questo punto sostituita con una sesta che viene inserita dall’esterno senza avere la minima esperienza di quanto avvenuto fino ad ora. Chiaramente questa tenta di afferrare la banana ma le altre quattro sanno bene quello che sta per accadere e la fermano bruscamente prima che l’acqua venga spruzzata. Anche questa sesta scimmia impara presto a stare ferma ignorando i reali motivi che si nascondono dietro il suo stesso atteggiamento. Continuando a sostituire vecchie scimmie con nuovi esemplari si arriva ad una situazione surreale dove nella gabbia sono presenti cinque scimmie totalmente inibite senza apparenti motivi. La nuova regola, tramandata dalla generazione precedente, è stata assimilata ma le sue reali motivazioni non sono chiare perché ormai sono sepolte nel passato.

Una bella storia senza dubbio ma cosa c’entra con l’I Ching e soprattutto con il cinema? È sempre molto complesso decifrare con chiarezza le parole di questo misterioso testo ma se dovessi dare una veloce definizione di Accrescimento farei riferimento ad un lento, intenso e altruistico processo di miglioramento. Si tratta di imparare qualcosa di importante e di metterlo al servizio degli altri senza tenerlo per sé stessi e senza utilizzare scorciatoie. Rompere per poi ricostruire facendo ciò che è giusto fare.

Vorrei cercare di tracciare un ardito percorso tra le scimmie, l’Accrescimento e la lezione mostrata in La Parola ai Giurati, film del 1957 di Sidney Lumet con protagonista Henry Fonda. Il percorso che faremo sarà questo: esamineremo il film, cercheremo di mostrare come sia un perfetto esempio di accrescimento e infine torneremo alle nostre scimmie (chi non ama le scimmie) per tirare le fila del discorso.

La trama del film è davvero semplice: un ragazzo di 18 anni accusato di parricidio deve essere giudicato unanimemente colpevole o innocente da 12 giurati. In caso di colpevolezza verrà giustiziato, altrimenti verrà rilasciato. Semplicissimo.

I giurati si ritirano per decidere. Prima di entrare effettivamente nel discorso assistiamo ad una breve carrellata sulla giuria che nella sua eterogeneità si dimostra essere composta da veri e propri caratteri, nel senso negativo di personalità apparentemente non originali (tranne il giurato n. 8). Le prove contro l’imputato sembrano schiaccianti. Si procede subito alla votazione: 11 colpevoli contro 1 innocente. Il giurato n. 8 ha dei dubbi. Tutti hanno delle cose da fare e vogliono sbrigarsela, per questo si lamentano con il dissidente. Il ragazzo è senza ombra di dubbio colpevole, perché perdere tempo con inutili discorsi. Come si fa adesso che non c’è unanimità? La risposta di n. 8 è semplice e lapidaria: “Discutiamone”. La matrice del dubbio è puramente epistemologica: la giurisprudenza non è una scienza esatta, se ci sono dei dubbi vanno risolti o comunque sollevati; la posta in gioco è troppo alta per liquidare la questione in pochi minuti, quindi discutiamone. Lentamente le prove a sostegno della colpevolezza vengono riesaminate e confutate, spesso evidenziando la natura pregiudiziale della loro apparente fondatezza. Alcuni giurati non hanno nemmeno una chiara idea del perché il ragazzo sia colpevole e preferiscono seguire la via più semplice ovvero quella del non porsi troppe domande. Piano piano si creano due schieramenti, colpevolisti e innocentisti; si discute, ci si arrabbia, si sollevano dubbi, incertezze, incongruenze, si viene quasi alle mani. Alla fine una serie di riflessioni porta a far propendere tutti verso l’innocenza. Interessante è il clima di totale impersonalità che si cerca di ottenere: la mono ambientazione e la totale assenza di identità dei giurati (identificati soltanto da un numero) sono stratagemmi utilizzati per rendere la questione della verità totalmente sovrapersonale. Lo scontro che avviene dentro la stanza è puramente filosofico e non necessita di alcun dettaglio personale per essere affrontato, anzi, più è semplice e nudo meglio è. Si tratta infatti dell’eterno scontro kantiano tra noumeno e fenomeno: qualcosa è successo al padre di questo ragazzo e lo ha portato alla morte ma tutto ciò che abbiamo non sono altro che superficiali informazioni che non possono darci alcuna certezza. Non sapremo mai la verità su quello che è successo e considerando che in palio c’è la vita di un ragazzo il “ragionevole dubbio” merita di prevalere. Meglio rilasciare un colpevole che condannare a morte un innocente, ma l’innocenza viene sancita in maniera estremamente faticosa. Il processo maieutico che il giurato n. 8 porta avanti con lungimiranza in favore di ciò che ritiene essere giusto è costellato di provocazioni, scontri e accesi dibattiti. Il travaglio che conduce colpevolisti alla svolta è doloroso e complesso e la scena finale con l’ultimo giurato in lacrime sul tavolo ne è la testimonianza perfetta. I colpevolisti sono ciechi e incapaci di affrontare la situazione nel modo migliore ma a poco a poco “guariscono” e decidono di agire sulla base del buon senso. Un altro aspetto straordinario è che l’innocenza oramai stabilita non rende né i giurati né gli spettatori soddisfatti; lascia dietro di sé pesanti strascichi e insicurezze e si presenta come una semplice e ovvia conseguenza del dubbio. È anzi possibile che, vista la complicata e violenta situazione familiare, il ragazzo sia davvero colpevole. Il problema è però di portata molto più ampia. La decisione finale non si limita, nelle sue conseguenze, al semplice processo ma è una vera e propria lezione di vita dalla quale imparare. Per questo tutto è impersonale, bisogna essere capaci (soprattutto da spettatori) di capire che il problema della verità trascende il banale omicidio e deve per questo essere applicato alla vita in termini di norme di condotta quotidiana. Questo non significa sostenere sempre il lato migliore delle cose ma significa essere capaci di prendersi il tempo giusto per decidere quale sia la decisione migliore, superando ideologie, pregiudizi e schemi prefissati dall’educazione e dalla società di appartenenza. Per questo all’inizio tutti i colpevolisti sono presentati come passivi abitanti di una società che, suo malgrado, accieca e generalizza. Si è talmente pervasi da pregiudizi razziali, familiari, educativi, lavorativi ecc. che giudichiamo senza riflettere al di fuori di queste gabbie. Tutti i colpevolisti sono prigionieri fino a che n. 8 non li libera avendo il coraggio, per primo, di discutere e pensare.

Se l’accrescimento è un lento, intenso e altruistico processo di miglioramento capiamo bene come la presa di posizione di n. 8 permetta agli altri un travaglio propedeutico per le loro scelte future. Insegnare a prendere, malgrado tutto, l’unica decisione giusta possibile permette a tutti di imparare qualcosa. La fatica con la quale raggiungono tale risultato dimostra ancora una volta come spesso la cosa giusta da fare sia anche la più faticosa. Tutti escono dalla sala distrutti dal caldo (ennesimo simbolo di fatica e spossamento) e dagli sforzi necessari a partorire correttamente una decisione e, alla fine, escono dal tribunale arricchiti da una lezione che hanno sicuramente interiorizzato. Sono ora pronti ad applicare quanto appreso oltre i muri di un tribunale che assume ora le sembianze di un semplice pretesto narrativo. Ma dopo il compimento? L’esagramma di sviluppo completa il processo di un accrescimento che deve lasciare il segno se vuole essere davvero utile. Non è un obiettivo raggiunto e fine a sé stesso ma è importante nella misura in cui viene diffuso, anche indirettamente. Non a caso, usciti dalla stanza, il giurato n. 8 e il n. 9 si presentano rivelando i loro nomi. L’identità è riacquisita perché i risultati ottenuti hanno ora dei custodi e dei nuovi potenziali portavoce nel mondo reale. Dalla filosofia si passa alla pratica applicazione di quanto imparato e non esiste accrescimento migliore dell’imparare a vivere. L’accrescimento lento e collettivo dopo il suo compimento viene ora immesso nuovamente sulle strade sotto forma di 12 nuovi individui consapevoli dei propri limiti ma anche del potere che questa consapevolezza comporta in certi casi. In molti casi, basta non prendere la decisione sbagliata.

E le scimmie? La conclusione finale dell’esperimento ci mostra come siamo fortunati ad avere la possibilità di parlare e discutere tra noi in situazioni apparentemente senza uscita. Anche noi possiamo trovarci condizionati inconsciamente da un contesto o da un’eredità culturale che, nostro malgrado, subiamo passivamente. Magari questi retaggi sono morti e sepolti ma noi continuiamo ad esserne influenzati come se fossimo soggetti ad un processo di inerzia. La Parola ai giurati ci insegna che abbiamo sempre un’alternativa, possiamo discutere e riflettere nel tentativo di cambiare cose che apparentemente non sembrano destinate a cambiare. Qual è quindi la morale? Anche se ci troviamo in mezzo ad un gruppo di scimmie irrazionali, c’è sempre un modo per ragionare e magari arrivare a mangiare la banana.

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12 Angry Men, (La parola ai giurati) | Sidney Lumet, 1957.

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