Mindfulness – Lavare i piatti per lavare i piatti

di Carola Benelli

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Accrescere giorno dopo giorno nella meditazione, come pausa di libertà. Oltre alle grandi imprese e ai personaggi di rilievo, il tema dell’accrescimento trova con la mindfulness il modo di rivolgersi a chiunque.

Tutto scorre. Cambiano le stagioni, gli anni, i secoli, cambiano le città e le campagne, gli orizzonti della scienza, le aspettative di vita, le abitudini, le mode. E noi cambiamo età, gusti musicali, indirizzo, numero di telefono, occupazione, taglio di capelli, amici. Se la psicologia si interessa di quel complesso groviglio di esperienze, emozioni, credenze, ricordi e orizzonti d’attesa che ci caratterizza come umani, non può che farlo guardando la vita attraverso la lente del cambiamento. Nella storia unica e irripetibile di ciascuno di noi tutto ciò che avviene assume senso alla luce di un contesto, accade perché qualcosa è accaduto prima e dunque si aggiunge al passato, definendoci per ciò che siamo nel qui e ora. Il tema dell’accrescimento è trasversale all’indagine psicologica, ma se vogliamo partecipare al gioco dell’I King e cercare di dare un senso ai messaggi che ci invia, credo che non si possa far altro che parlare di mindfulness. Del resto, Internazionale ha aperto il 2015 con un articolo in cui Oliver Burkeman indicava la meditazione come uno dei pochi buoni propositi da fare per il nuovo anno, la mindfulness era sulla bocca di tutti all’ultimo salone del risparmio in Bocconi, la Tigre si apre al dialogo con un monastero Zen e io ho comprato uno zafu. È tempo di mindfulness.[1]

Il termine mindfulness indica al tempo stesso uno stato di consapevolezza e il percorso di ricerca per raggiungerlo. Le origini di queste pratiche non possono essere ricondotte ad un contesto geografico e temporale preciso poiché sono rintracciabili, seppure con nomi diversi, in un ampio territorio compreso tra la Cina e la Grecia, tra 2800 e 2200 anni fa. Il monoteismo di Zarathustra in Persia, il Giainismo di Mahavira e Parshva e il Buddhismo in India, il Confucianesimo e il Taoismo in Cina, gli insegnamenti dei profeti ebraici in Palestina e la filosofia greca sono tradizioni che hanno contribuito a mettere a fuoco ‘una pausa di libertà, un respiro profondo che porta con sé una consapevolezza estremamente lucida’ (come scrive Armstrong, 2006) – in una parola, ciò che oggi in Occidente va sotto il nome di mindfulness1. La dottrina e la pratica meditativa buddhiste costituiscono probabilmente la tradizione che più di tutte incarna ed esplicita il tema della consapevolezza. Gli insegnamenti di Buddha, che vano sotto il nome di Dharma, indicano i fattori mentali che consentono all’individuo di cogliere l’essenza e la natura di ciascuna esperienza: l’aspirazione, la fiducia, l’attenzione, la discriminazione e, naturalmente, la consapevolezza.

L’arrivo delle pratiche di consapevolezza in Occidente è stato per lo più slegato dalla dimensione religiosa e spirituale e sostanzialmente connesso alla ricerca di soluzioni per affrontare le difficoltà di trattamento di alcuni pazienti considerati ‘difficili’ perché non trattabili farmacologicamente o per qualche ragione resistenti al trattamento. La ricerca in ambito ospedaliero ha fornito una base empirica per affermare l’efficacia dei metodi di riduzione dello stress basati sulla mindfulness e ha rappresentato un primo momento di un percorso diventato via via più ampio e indirizzato ad ambiti diversi da quelli strettamente medici.

Gran parte delle idee, delle pratiche e degli interventi che oggi vanno sotto il nome di mindfulness sono il frutto di un percorso iniziato con gli studi pionieristici di Jon Kabat-Zinn, un biologo e professore della School of Medicine dell’Università del Massachusetts che, a partire dal 1979, ha sviluppato un protocollo per introdurre la meditazione di consapevolezza come intervento in contesti clinici. Kabat-Zinn era convinto (e lo è tuttora) che la pratica di meditazione abbia il potere di trasformare in modo duraturo l’esperienza individuale della sofferenza e dello stress, offrendo un’alternativa alle strategie orientate alla risoluzione dei problemi che sono profondamente radicate nella cultura occidentale.

Dato che non siamo tutti monaci e per molti di noi meditare è un’attività misteriosa e incomprensibile (e anche un po’ fricchettona), Kabat-Zinn ha pensato ad un programma introduttivo che fosse compatibile con l’ambiente culturale e medico degli Stati Uniti degli anni Ottanta e che si potesse applicare in ospedale senza troppe difficoltà. Il protocollo si chiama Mindfulness Based Stress Reduction program (ma ai cocktail party è consigliabile usare l’acronimo MBSR) e si articola in otto incontri con frequenza settimanale (per un totale di due mesi) della durata di circa due ore e mezza, cui si somma una giornata intensiva di pratica, della durata indicativa di otto ore, nella seconda metà del programma. L’MBSR si fa in gruppo, di solito circa trenta persone con uno o due istruttori, un po’ perché in ospedale è difficile garantire che ciascun paziente sia seguito individualmente, un po’ perché la dimensione di gruppo motiva la partecipazione, sostiene nelle difficoltà e aggiunge prospettiva all’esperienza del singolo. Tra un incontro e l’altro, però, tutti i partecipanti si impegnano a praticare a casa per tre quarti d’ora al giorno, seguendo le indicazioni degli istruttori ed esplorando pratiche diverse. Un esempio? Le prime due settimane si dedicano al body scan: sdraiati su un tappetino, con gli occhi chiusi, si segue una voce registrata che guida all’esplorazione del corpo, dall’alluce sinistro alla punta dei capelli. I vari esercizi con cui gradualmente si familiarizza permettono al partecipante di sviluppare consapevolezza di ciò che accade, curiosità verso un’esperienza che è sempre unica, accettazione per ciò che si presenta, compassione per sé stessi, per le proprie difficoltà, per gli altri. Per i pazienti affetti da dolori cronici, per esempio, meditare significa imparare a stare con il dolore, non dimenticarsene o annullarlo. Per le persone con alti livelli di stress, fare minfulness non è una strada per eliminare gli eventi spiacevoli e attivanti della quotidianità, ma cogliere il vissuto del momento per come si manifesta nel corpo e nella mente, senza annegare nel flusso dei pensieri e delle ruminazioni che in genere segue un evento sgradito.

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Thich Nhat Hanh photo courtesy of Paul Davis

Il fascino e il potere della consapevolezza vanno in realtà molto oltre rispetto alla modulazione del rapporto con la sofferenza: la mindfulness offre una porta d’accesso ad una dimensione nuova dell’esistenza, partendo da strumenti naturalmente propri di ciascun individuo per giungere ad una intuizione immediata di alcune verità universali dell’esistenza. Come scrisse il monaco vietnamita Thich Naht Hanh[2](1987), figura cui si deve un importante ruolo nell’importazione delle tradizioni buddhiste in Occidente, attraverso le pratiche meditative si trova un accesso ad una dimensione di quiete che è anche curiosità e pienezza dell’esistenza. Presenza al proprio respiro e presenza ai movimenti del corpo costituiscono in sé stessi il fine: occorre imparare a ‘lavare i piatti per lavare i piatti’. L’obiettivo del programma è arrivare ad una maggiore libertà, non ad un maggiore benessere, e tale scopo può essere raggiunto imparando a fare un passo indietro rispetto a cicli autoperpetuantisi e automatizzati.

In che senso, quindi, la mindfulness è un percorso di accrescimento? Che ciascuno trovi la sua verità del momento in questo torrente incessante, che si lasci trasportare da ciò che emerge. La mia verità? Praticare mindfulness è sentire per la prima volta l’aria sui lobi delle orecchie, accorgersi delle proprie urla durante una discussione e mangiare un mandarino uno spicchio alla volta. Non è abbastanza? Meditare rende meno ansiosi, meno depressi, più creativi, più soddisfatti della propria vita, meno razzisti, e c’è chi dice che rallenti l’insorgere dell’Alzheimer. E allora, tanto vale iniziare subito: sedetevi comodi ma con la schiena dritta, chiudete gli occhi e mettetevi in ascolto del vostro respiro. Portate l’attenzione in un punto in cui, in questo momento, vi è facile sentire l’aria che entra e l’aria che esce. Un’inspirazione, dall’inizio alla fine, una breve pausa, poi un’espirazione. Vi eravate mai accorti della pausa? Io no.

[1]Si veda, per un approfondimento: Amadei, G. (2013). Mindfulness: essere consapevoli. Il Mulino, Bologna.
[2]Thich Naht Hanh è nato in Vietnam nel 1926 e all’età di sedici anni è diventato monaco buddhista. Durante la Guerra del Vietnam ha dato vita ad un movimento di resistenza non violento per la pace, di cui ha continuato ad occuparsi per molti anni. Attualmente vive in Francia, dove insegna la meditazione di consapevolezza. I suoi testi sono considerati un contributo prezioso per la diffusione delle dottrine buddhiste e della pratica di consapevolezza negli Stati Uniti e in Europa.

Autore

  • Psicologa, attualmente in formazione come psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, aspira a diventare un'esperta di mindfulness. Curiosa avventuriera e grande pasticcera. Una tartaruga nell'Oceano Indiano è stata battezzata in suo onore.