Jacob Peter Gowy, La caduta di Icaro, 1635-37
Jacob Peter Gowy, La caduta di Icaro, 1635-37

Icaro dietro l’Ulisse di Dante: l’eroe della scoperta

Seminando nella Commedia ricorrenti citazioni, riferimenti, allusioni mitologiche tra verso e verso, Dante ha davvero creato una selva oscura, in cui si fatica a trovare la strada. Al punto che, nonostante centinaia e forse migliaia di commenti, ogni volta che si ritorna sul testo si scopre qualcosa di nuovo, qualcosa di cui non ci siamo accorti. In particolare, il rapporto tra Dante e i poeti latini è talmente stretto da richiedere pagine e pagine di analisi, e ogni tanto salta fuori qualcosa di inaspettato.

Il celeberrimo ventiseiesimo canto dell’Inferno ne è un esempio: la figura di Ulisse, infatti, è ben diversa da quella che troviamo in Omero. Non c’è stupirsi, visto che Dante non conosceva i greci direttamente, e conosceva il mito solo attraverso chi ne ha parlato in seguito: Ovidio e Virgilio fra tutti, ma anche Orazio, diversi romanzi medievali e forse Livio Andronico, che tradusse proprio l’Odissea, anche se molto liberamente. Eppure nessuno di costoro parla di Ulisse nei termini in cui ne parla Dante: pur mantenendone alcune caratteristiche fondamentali, come l’astuzia, la poliedricità, la voglia di divenire «del mondo esperto», che ricalca quasi pedissequamente il proemio omerico, il salto che Dante fa fare a Ulisse, il volo, è qualcosa di completamente diverso, nuovo.

Sono tantissime le interpretazioni che sono state date del canto, e qui non è possibile ripercorrerle tutte. C’è però un passo delle Metamorfosi di Ovidio che potrebbe gettare una luce diversa:

(…) Et iam Iunonia laeva
parte Samos fuerant, Delosque Parosque relictae,
dextra Lebinthos erat fecundaque melle Calymne,
cum puer audaci coepit gaudere volatu,
deseruitque ducem, caelique cupidine tractus
altius egit iter. […]

[…] E già a sinistra Samo cara a Giunone
avevano  passato, lasciate Delo e Paro;
a destra Lebinto vi era, e Calimne abbondante di miele,
quando il ragazzo iniziò a godere del volo audace
e abbandonò la guida, attratto da una forte brama di cielo
e più in alto spinse il suo viaggio. […]

(Ovidio, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Mazzolla, 1979 Einaudi, Torino, VII, vv. 220-225, p. 305. La traduzione, invece, è nostra)

Siamo nell’ottavo libro delle Metamorfosi di Ovidio – altra selva intricata di vicende – e non si parla di Ulisse, ma di Icaro, del fanciullo che andò troppo vicino al sole, fino a far sciogliere le sue penne.

I richiami sono evidenti, al punto che stupisce come questo passo non venga menzionato nei commenti più celebri, come quello della Chiavacci Leonardi, e come, almeno tra i non addetti ai lavori, nelle opere divulgative e nella maggior parte dei testi consultati dall’estensore dell’articolo, il nome di Icaro non compaia quasi mai. Eppure «da la man destra mi lasciai Sibilia / dall’altra già, mi avea lasciato Setta» racconta quasi la stessa scena, mostrando come Ulisse si avvicini sempre di più alle colonne d’Ercole, e cioè al limite del consentito; «audaci volatu», poi, è pressoché identico al «folle volo». Entrambe sono figure che sono andate oltre, e sono rimaste bruciate da se stesse, e, tra l’altro, entrambe muoiono in mare. Icaro infatti non muore arso dal sole, bensì annega, sprofonda, esattamente come Ulisse. Tutti e due hanno peccato di hybris, di superbia, ma tutte e due rappresentano l’instancabile volontà umana di abbattere i limiti.

Marc Chagall, La caduta di Icaro
Marc Chagall, La caduta di Icaro

Dedalo presenta alcune delle caratteristiche tipiche dell’Odisseo omerico: l’intelligenza di Dedalo nel creare il labirinto del Minotauro, il suo desiderio di tornare nella terra natale, la sua nostalgia, e quindi di nuovo l’arguzia nel costruire delle ali per sé e per il figlio. Intelligenza, arguzia, nostalgia: sono le caratteristiche dell’eroe positivo del mondo greco, a cui si aggiunge l’assennatezza, la ragionevolezza, di cui è carico Odisseo.

Dante, invece, guarda più alla spericolatezza del figlio: Ulisse, infatti, non può più essere un modello. Può essere un eroe tragico, può essere apprezzato e compianto nel suo fallimento, possiamo concordare con lui nel desiderio di «divenir del mondo esperto, de li vizi umani, e del valore»; possiamo dire, con lui, che gli umani sono fatti per «seguir virtute e canoscenza». Ma, per Dante, tutto questo non può essere raggiunto con le proprie forze, con le sole forze della filosofia e del sapere. Il desiderio di Ulisse, dunque, non può essere un desiderio positivo: assomiglia – anzi, deve assomigliare – a quella «forte brama di cielo» di cui parla Ovidio.

Icaro è infatti tutto il contrario del padre: al machiavellismo dei suoi labirinti oppone la semplicità dell’osservazione, di chi inventa non dopo molti e sofferti ragionamenti, ma così, per talento naturale; alla cautela del padre Icaro oppone una forza centrifuga, una voglia di esplorare che non è mediata né dall’intelletto né tantomeno da una qualche assennatezza o fede religiosa. È il simbolo della volontà, di chi cerca una fuga, di chi non si accontenta della normalità, della quotidianità, del vivere tra quattro mura, e quindi diventa l’eroe della scoperta, della curiosità pura e incosciente.

Dante, invece, è di altro avviso. L’uomo arriva a Dio grazie a un connubio di razionalità e di fede: non vi è alcuno slancio mistico, alcuna follia. Non è un volo, che parte l’andare verso l’alto ma finisce inevitabilmente per crollare verso il basso, bensì una catabasi, un insinuarsi nelle pieghe del mondo, un percorrerle nel profondo, fino al punto più basso, per poi risalire, questa volta in modo definitivo. Non bisogna fuggire dal labirinto: bisogna invece andarci dentro, nel profondo (e forse non è un caso che a guardia dell’Inferno ci sia proprio Minosse).

Eppure, quando Dante si troverà nel punto più alto, al cospetto di Dio, e finalmente lo vede, non può fare a meno che mostrare tutta la sua inadeguatezza, tutta la sua infinita piccolezza di essere umano: prova e riprova a razionalizzare ciò che vede, prova a riferirlo, ma non ci riesce. E allora eccolo ritornare alla metafora del volo:

tal era io a quella vista nova: 
veder voleva come si convenne 
l’imago al cerchio e come vi s’indova;                         

ma non eran da ciò le proprie penne: 
se non che la mia mente fu percossa 
da un fulgore in che sua voglia venne.   

(Dante Alighieri, Commedia, Paradiso, Canto XXXIII vv. 136-141)

Come Icaro, come Ulisse, anche per Dante il volo è impossibile: provava e riprovava a capire l’immensità di Dio, ma era come il matematico che tenta di quadrare il cerchio; come il bambino dell’apologo di Sant’Agostino che tenta di svuotare il mare con un cucchiaio; era come Icaro, le cui penne non erano in grado di volare tanto in alto.

A differenza loro, però, l’epilogo di Dante è lieto, il viaggio concluso felicemente. Ai due questo privilegio non è dato. E in questo sta loro forza, la loro attualità. Diciamocelo: a noi contemporanei, lontani settecento anni dal Sommo, stanno più simpatici gli altri due. Ci sono più simili, non neghiamolo. Forse perché la nostra società ha la stessa incurabile, sconsiderata fobia del limite; forse perché il gorgo in che inghiotte Ulisse è lo stesso in cui sarà inghiottita la nostra civiltà decadente.

Ma forse anche per un altro motivo. Forse perché, in fondo, il loro è un sacrificio totale. Loro non si fanno aiutare, non hanno alcuna stampella che li sorregga; accettano le proprie forze, anche se sono scarse. Forse perché gli eroi, alla fine, sono tutti così: forti, spensierati, terribilmente incoscienti. Ma è proprio quell’incoscienza a renderli eternamente giovani.

 


Bibliografia 

Ovidio, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Mazzolla, 1979 Einaudi, Torino.
Dante, Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, 1991  Mondadori, Milano.
Q. F. Orazio, Le lettere, a cura di Enzo Mandruzzato, 1983 Rizzoli

 

Autrici e autori

  • In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Dopo aver saltellato a lungo tra letteratura e grafica, insegno italiano e storia alle superiori e faccio parte del collettivo Storie Sepolte. Ah, sono una specie di elfo e il mio life coach è Anacleto.

  • Storie Sepolte è un collettivo nato dalla passione per l’arte come esperienza. Cerchiamo di essere un piccolo centro di riflessione sulla necessità di una cultura artistica nel mondo contemporaneo, provando a riportare in vita storie sommerse dal tempo e dall’oblio.

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