Introduzione n. 35
Siamo arrivati al punto di fusione, dopo aver scaldato il recipiente per dieci lunghi anni. La nostra rivista sorride al suo decennale, guardando a quei ragazzi che nel 2015 scendevano nelle cripte della Statale per chiedere all’I Ching lo sprone a unirsi e dar vita a qualcosa. Lo interpelliamo di nuovo, per sapere chi siamo adesso. L’oracolo cinese non manca di basirci, estraendo l’esagramma n. 50 intitolato: Il Crogiolo.
Lo stupore viene in primis dal fatto che si tratta dello stesso risultato uscito a Carl Gustav Jung quando a suo tempo, insieme al sinologo Richard Wilhelm, si chiese se fosse opportuno tradurre e trasportare il Libro dei Mutamenti fino in Europa e se l’Occidente fosse pronto a riceverlo. Responso del libro fu appunto: “Il Crogiolo”, un contenitore dalla forma in parte umana, dove le orecchie (rappresentate dalla linea Yin al quinto posto) simboleggiano i manici del vaso. Jung interpretò questo tratto attraverso il gioco di parole tedesco tra gegriffen (“afferrato”) e befriffen (“compreso”), da cui Begriff = “concetto”. L’I Ching, a suo modo di vedere, si offriva quindi come ricca cornucopia concettuale che chiedeva di essere presa e portata lontano.
Anche per noi le culture dell’Asia, raccontate sin dall’inizio in questo editoriale, hanno funto da vassoio su cui ammannire tutti i concetti che la cultura forgia per raccontare l’uomo e l’ambiente, prendendo sempre a monito l’aforisma di Zhuang-zi secondo cui: «La piccola mente discrimina, la grande mente abbraccia», citato già nel primo numero della nostra rivista.
Sono infiniti, nel calderone dell’Oriente, i punti di fusione fra leghe di diverse culture. C’è l’arte Gandhāra, che tramuta l’icona classica del Buddha attraverso l’influsso alessandrino donandogli un volto ellenico. C’è la Congiunzione fra i due oceani indagata da Muḥammad Dārā Shikōh, che scrisse sulle perfette simmetrie fra la pratica yogica e il misticismo Sufi. C’è il sincretismo avvenuto in Cina tra Buddhismo e Confucianesimo, quasi pronosticato dalla contemporaneità dei due rispettivi profeti. C’è il sodalizio tra lo Zen, giunto in Giappone attraverso la Corea, e il credo autoctono dello Shinto, incredibilmente simili nella visione del mondo. C’è il subcontinente indiano, dove si mischiano Islamismo, Induismo, Sikhismo, Giainismo, i parsi zoroastriani e antiche comunità ebraiche. Ci sono le leggende del Ladakh, secondo cui il Cristo sarebbe sfuggito alla morte sulla croce per rifugiarsi ai piedi dell’Himalaya e predicare con il nome di San Issa, nel segno di una religione universale udita da discepoli di religioni diverse. Ci sono le volte affrescate dall’iconografia greco-ortodossa nelle grotte sperdute in Cappadocia, nel seno di un paese musulmano. C’è Istanbul, che fonde sotto di sé Bisanzio, Costantinopoli e i crocevia delle etnie, e avanti così. È poi bastato un recente viaggio in Georgia, mangiando il loro piatto tipico, un raviolo chiamato kinkhali quasi identico al jiaozi cinese, per vedere in un piccolo dettaglio il cammino di una pietanza per mano dei Mongoli, molti secoli addietro durante le loro conquiste.

E proprio qui ci si può fermare. Nel Caucaso. La porta fra i due continenti, nel coacervo culturale degnamente incarnato dall’armeno Gurdjieff. Egli, prima di giungere in Francia, ha battuto in lungo e in largo tutto il Medio Oriente, compiendo tragitti a piedi, a dorso di mulo, scalando montagne e affrontando deserti pur di collezionare la panoplia di discipline spirituali che ha poi distillato nella sua dottrina. Raggiunto un giorno un monastero sperduto dalle parti di Chitral, in Pakistan, lo vide abitato da monaci diversi fra loro: cristiani, israeliti, musulmani, buddhisti, lamaisti e sciamanisti, tutti capaci di convivere perché uniti dal Dio Verità (un po’ come accade nella religione moderna del Bahá’í). Di qui l’impulso a radunare una compagnia consimile, che contasse fedeli compagni da lui poi descritti, nell’autobiografia, come “uomini straordinari”. La comitiva si chiamò: I Cercatori di Verità.
Ecco, potremmo in parte definirci tali anche noi. Non certo nell’ingenua speranza che esista un dato oggettivo che metta a tacere le opinioni, anzi piuttosto il contrario. Esiste una leggenda caucasica, attribuita agli Osseti e impersonata dal mitico popolo dei Narti, secondo cui la sacra coppa Uatsamongæ, ricolma di birra di miglio, si porge spontaneamente alla bocca di chi non mente. Come la coppa, e come l’I Ching nelle mani di Jung, vorremmo che anche la nostra rivista incontrasse da sé le mani di altrettanti cercatori del Vero, nell’idea che si possa parlare di tutto (come fanno le nostre rubriche) proprio perché esso è l’Intero, come disse qualcuno. E cioè, in questo senso, che la cultura fa da specchio alla totalità di tutto ciò che ci circonda, e occorra guardarsi bene intorno, spostarsi e frugare inesausti. A voi e a noi la sfida.