Scrittore e insegnante di lingua italiana agli stranieri. È autore di libretti d’opera, racconti e di un romanzo edito per Rubbettino, La fortuna del Greco
Papa Francesco aveva appena finito di parlare. Salutò e sparì. La finestra si richiuse tra gli applausi di Piazza San Pietro, mentre lentamente tornava il fragore delle fontane gemelle, l’acqua dorata che luccicava sotto il sole.
– Sì, – disse Alfredo, – adesso andiamo, Bic.
Bic sembrava avere fretta. Aveva aspettato il saluto, ma adesso voleva andarsene.
– Dovevo prenderlo più corto, il guinzaglio, Bic – disse Alfredo.
I due si allontanarono dalla folla, passarono sotto il colonnato e continuarono per Via di Porta Angelica.
– È ora, – disse Alfredo. – Andiamo, Bic. Muoviamoci.
Allungarono il passo, ma dopo pochi metri Bic si fermò, piegò le zampe posteriori e si liberò accanto a un cestino della spazzatura, fissando Alfredo con occhi devoti.
Alfredo non commentò. Raccolse tutto con una bustina e la gettò nel cestino, poi ripresero a camminare.
Alfredo portava un vecchio paio di occhiali dalla montatura rossa, di plastica. C’erano sempre degli aloni, sulle lenti. Le puliva spesso, strofinandole sul maglione, ma non le puliva mai davvero. Era più un automatismo, un gesto per occupare le mani. Come fumare.
Fumava molto, Alfredo. Fumava tutto, Alfredo. O meglio, aveva fumato tutto, ma poi con il tumore aveva smesso. A dire le cose come stavano, Alfredo aveva smesso con il Covid, quando era stato un mese in ospedale e si era ridotto a un straccio. Era guarito, era uscito, era tornato in sella, non aveva più fumato. Ma poi era arrivato il tumore, e Alfredo era tornato in ospedale. Mesi da incubo.
A dirla tutta, prima ancora di smettere con il fumo e le droghe eccetera, Alfredo aveva smesso di credere nel fumo, nelle droghe eccetera. E questo era successo prima, molto prima.
Adesso Alfredo e Bic stavano attraversando la strada, il semaforo era verde. Un’auto sembrò non riuscire a rallentare, e Alfredo si fermò in mezzo alla strada aspettando che frenasse.
– Sono tutti pazzi, Bic – disse. – Andiamo, – aggiunse, quando l’auto si fermò.
Aveva smesso di credere nel fumo eccetera quando era morta sua madre. Suo padre era morto da un pezzo ma, quando era morto suo padre, Alfredo ancora ci credeva. Smise quando morì lei.
Era morta come morivano le sante: dormendo, in stato di grazia. La vecchiaia l’aveva sciupata. Era magrissima. Era morta così, nel suo letto, e la mattina l’avevano trovata ancora così, nel suo letto, tutta rannicchiata e dura come un dattero. Alfredo era a Roma. L’avevano chiamato dalla Calabria e lui si era precipitato da lei. Che giorno triste. Aveva fretta di arrivare, ma poi aveva pensato che sua madre ormai era morta, e che la fretta era inutile. E più pensava all’inutilità della fretta, più si intristiva. Pensava a sua madre senza vita nel letto, a sua madre senza vita circondata da tutte quelle persone. Sua madre immobile e sorda a tutto. La fretta era inutile, andare era inutile. Andò, certo che andò, ma durante il viaggio si convinse che era inutile, ed era inutile perché sua madre neanche l’avrebbe saputo, che Alfredo andava da lei. Era tutto finito. Sua madre non lo avrebbe più visto. Mai più.
– Aspetta, Bic – disse. – Volevo un caffè, prima.
Alfredo e Bic si avvicinarono al chiosco in Piazza del Risorgimento. C’era una donna e c’era un cane. Bic e il cane si osservarono, si studiarono per alcuni secondi, mentre Alfredo ordinava un caffè.
– Andiamo, Bic – gli disse Alfredo. – Lascialo in pace.
Bic obbedì. Seguì Alfredo fino a una panchina, ma si voltò un’ultima volta a guardare il cane.
– Basta, Bic – disse Alfredo. – Seduto.
Bic si sedette ma, quando capì che sarebbero rimasti lì per un po’, si sdraiò a pancia in giù ai piedi di Alfredo.
L’ultimo anno era stato disastroso. In sintesi, Alfredo aveva perso tutto: lavoro, soldi, amore. Tranne Bic. Bic era rimasto. Dopo il tumore, Isabella non aveva retto. Gli aveva detto che aveva bisogno di riprendersi la propria vita, che doveva viaggiare e riscoprire il mondo. Certo che no, non poteva dirgli che era ancora troppo giovane per badare a un uomo che adesso aveva bisogno del pannolone. Certe cose non potevano essere dette. Non si dicevano. Si pensavano, si lasciavano intendere, ma non si dicevano. Certe cose, se dette, potevano distruggere. E Isabella aveva fatto proprio così, non l’aveva detto. Avevano firmato una serie di fogli che Alfredo neanche lesse, si erano abbracciati un paio di volte, avevano pianto tre volte, avevano sorriso un’ultima volta prima di salutarsi sulla porta di casa. E poi fine. Isabella era partita, anche se alla fine il viaggio non sarebbe stato lungo, perché la casa del nuovo compagno era a pochi chilometri da casa di Alfredo.
Il ristorante era fallito. Alfredo aveva provato a tagliare i costi, aveva ridotto il personale di sala, ci era andato lui, in sala. Ma in sala ci andava ubriaco, Alfredo, e a fine serata i conti non tornavano mai.
– Capo, – gli diceva lo chef, – così non funziona.
Alfredo barcollava in cucina, svuotava il bicchiere e faceva un respiro profondo.
– Non funziona mai, Amin – rispondeva. E poi tornava in sala danzando.
Non funzionò davvero. E allora si trattò di firmare un’altra serie di fogli che di nuovo Alfredo non lesse. Qualunque cosa ci fosse scritta, su tutti quei fogli, di certo non gli sarebbe piaciuta. Perché leggerli? Sapeva benissimo, Alfredo, che su quei fogli non c’era niente di buono per lui.
E infatti una mattina si svegliò con tanti altri fogli sparsi sul divano, vicino alla bottiglia di Havana, una quantità incalcolabile di debiti e il pannolone sporco. Ma lì, sulla porta, c’era Bic. Il sole era alto – la sera prima aveva dimenticato di chiudere le imposte – e Bic era pieno di luce. Bic lo guardava. Voleva uscire, Bic.
Neanche la casa durò molto. Ma di questo Alfredo fu contento. C’erano troppi ricordi, tra quelle pareti. Intrappolati nella polvere, tra microplastiche, pelle morta ed escrementi di insetti, c’erano tutti quei giorni d’amore che Alfredo aveva consumato con Isabella. Erano lì: sui mobili, incastrati tra le ante dell’armadio, tra le posate sporche nel lavello e tra le mattonelle della camera da letto. A guardare un qualsiasi angolo di quella casa, subito Alfredo rivedeva Isabella intenta a fare qualcosa: se guardava la tv, vedeva Isabella ricollegare i cavi quel giorno che mancava il segnale; se guardava lo specchio nel corridoio, vedeva Isabella specchiarsi prima di quella splendida cena in terrazza in estate; ma se guardava la porta, Alfredo vedeva sempre la fine, come nella scena finale di un film di Fellini. Era di uno di quei film che Alfredo ricordava una frase, una frase che gli piaceva tanto. Non ricordava il film, non ricordava chi la dicesse, ma diceva: “Abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine”. Alfredo ne aveva fatto un caposaldo della sua nuova vita, e se la ripeteva ogni giorno prima di andare a dormire sul pavimento della casa del suo vecchio chef. E la ripeteva anche allo chef.
– Capo, – gli diceva allora lo chef, – così funziona.
Adesso era marzo e la primavera era tornata. Era il momento migliore per ricominciare. E anche solo starsene in Piazza del Risorgimento a bere un caffè, per Alfredo, era realmente un primo potente segnale del nuovo, luminoso inizio.
Stava per rialzarsi, quando sentì squillare il telefono. La suoneria era così forte che sia lui che Bic sussultarono.
Era Vincenzo, suo fratello.
– Com’è il tempo a Roma?
– C’è il sole, è primavera – disse Alfredo.
– E tu come stai?
– Meglio, – disse fiero Alfredo.
– Novità?
– Ho trovato lavoro, – disse Alfredo. – A Monti. Pagano bene, mi danno anche da dormire.
– Ottimo, – disse Vincenzo. – Quando cominci?
– Oggi, – disse Alfredo. – Fra poco vado.
Un piccione atterrò vicino a lui, e Bic drizzò le orecchie.
– Lascialo in pace, Bic – disse Alfredo.
– Cosa hai detto? – disse Vincenzo.
– Lo sai che stamattina il Papa ha salutato Bic? – disse Alfredo.
– Che vuol dire?
– In piazza, stamattina – spiegò Alfredo. – Il Papa ha salutato Bic.
– Sei andato a sentire il Papa? – chiese Vincenzo.
– Sì, ci siamo stati finora – disse Alfredo, – e alla fine, prima di rientrare, il Papa ha allungato il collo verso Bic e l’ha salutato con la mano.
– Ma che cazzo dici, Fredo?
– Te lo giuro.
– Vai a lavorare, Fredo – disse Vincenzo. – Tu e le tue cazzate.
Entrambi scoppiarono a ridere. Poi si salutarono e Alfredo si alzò in piedi.
– Andiamo, Bic – disse.
Bic lo seguì, ma a testa bassa. Voleva rimanere ancora un po’ a prendere il sole.
Continuarono per Via Ottaviano, poi all’angolo scesero le scale della metropolitana. Alfredo comprò il biglietto, passarono i tornelli e svoltarono in direzione Anagnina.
Ad aspettare il treno c’erano poche persone. Un ragazzo, in fondo, stava suonando la chitarra. Il treno stava arrivando, ma Alfredo si avvicinò per ascoltare. Non conosceva la canzone, ma gli piacque. Era davvero una bella canzone.
Alfredo infilò allora una mano in tasca, aprì il portafogli e prese cinque euro. Era tutto ciò che aveva. Li lasciò nella custodia della chitarra, aperta di fronte al ragazzo. Poi fece per rimettere il portafogli in tasca, ma sembrò avere un’idea. Mentre il ragazzo lo ringraziava, Alfredo gettò il portafogli nella custodia della chitarra, poi accarezzò Bic – che non ebbe neanche il coraggio di guardarlo negli occhi – e offrì il guinzaglio al ragazzo. Il ragazzo lo afferrò, ma non fece in tempo a parlare perché Alfredo fece due passi indietro, si voltò e andò sorridente incontro al treno.
di Vincenzo Reale



