Glasnost

La contemplazione del Padre

La critica al culto della personalità

La mattina del 25 febbraio 1956, centinaia di delegati del Partito Comunista dell’Unione Sovietica si ritrovarono nel Gran Palazzo del Cremlino, a Mosca, dove si svolgeva il XX Congresso del Partito. La riunione della giornata non era aperta al pubblico e nemmeno ai rappresentati dei partiti comunisti stranieri invitati. All’ordine del giorno, il Segretario generale del Partito Nikita Sergeevič Chruščëv aveva programmato una sua relazione: Sul culto della personalità e le sue conseguenze, passato alla storia anche con il nome di Rapporto segreto.

Il discorso di Chruščëv è lungo e ricostruisce la storia del potere sovietico soffermandosi su alcuni dei suoi snodi principale. Come tutte le ricostruzioni storiche, anche quella di Chruščëv è parziale, innanzitutto nel senso proprio del termine, nel senso cioè che è una ricostruzione di parte. Non può essere diversamente: umano, come scriveva Droysen a metà Ottocento, è piuttosto esser parziali. Ma nel caso del Rapporto segreto, l’ineliminabile punto di vista soggettivo dello storico si fonde con un altro elemento, non meno importante del primo.

Quello di Chruščëv infatti non è il discorso di uno storico: è il discorso politico di un dirigente politico, impegnato in una battaglia interna al gruppo dirigente dell’URSS. La periodizzazione scelta, i temi affrontati, i passaggi cruciali individuati, in generale l’intera ricostruzione storica non è frutto di una disinteressata tensione verso la verità, ma è funzionale alla lotta di cui è protagonista.

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Facciamo un passo indietro e andiamo all’alba del 5 marzo 1953. Tre giorni dopo l’ictus che l’aveva colpito, Stalin muore nella sua dacia di Kuncevo. Tra le diverse correnti interne al PCUS inizia un duro scontro interno per conquistare la direzione del partito e dello Stato. Dopo pochi mesi, verso la fine di giugno, Lavrentij Pavlovič Berija, Commissario del Popolo per gli Affari Interni e plenipotenziario dell’Uomo d’Acciaio, viene arrestato dopo un’infuocata riunione del Presidium; a dicembre sarà fucilato. Nel frattempo, a settembre, Chruščëv – già dirigente del Partito comunista dell’Ucraina e ufficiale politico nel corso della Seconda guerra mondiale – è eletto Segretario generale. Chruščëv guida la corrente riformatrice, la corrente cioè che tentava di gestire la delicata transizione mantenendosi in equilibrio tra la conservazione del passato e il superamento degli aspetti più brutali della gestione del potere. Incapace di una radicale trasformazione, la burocrazia sovietica mutava pelle per mantenersi in vita.

Nelle quasi novanta pagine a stampa della relazione, Chruščëv avanza un bilancio della storia dell’Unione sovietica. Il giudizio nei confronti di Stalin è impietoso. Stalin, afferma Chruščëv, ha pervertito il principio della collegialità del partito, ha accentrato il potere nelle proprie mani, ha diretto la repressione e lo sterminio degli oppositori politici, ha messo a repentaglio l’Unione sovietica con l’accordo con la Germania hitleriana. Filo rosso che ha fatto da sfondo a queste scelte, e in generale alla sua gestione del potere, è stata l’autocelebrazione, la glorificazione delle proprie gesta, il “culto della personalità”.

Ed ecco il punto, la pietra dello scandalo: Stalin, dice Chruščëv, ha costruito un sistema di potere che presuppone e comporta, come naturale conseguenza, la propria esaltazione, la separazione tra sé, «un superuomo in possesso di doti sovrannaturali simili a quelle di un Dio», le masse. Ogni nefandezza, ogni crimine, ogni degenerazione della società sovietica viene fatta derivare da questa separazione, dall’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo, dalla volontà di Stalin di imporre i propri desideri sul mondo.

È un gioco di prestigio. Non perché Stalin non sia politicamente ed eticamente responsabile dell’eliminazione fisica di milioni di persone, compresa la vecchia guardia bolscevica: dei ventisei membri del Comitato Centrale del Partito eletti al VI Congresso, nel 1917, diciassette furono condannati a morte, assassinati o costretti a suicidarsi (analoga sorte toccò a sei membri del Politburo del 1922 su dieci, otto su tredici del Politburo del 1924, nove su diciassette del Politburo eletto dopo il XV Congresso del 1927). Stalin fu certamente responsabile anche delle scelte deleterie per la popolazione sovietica in economia politica, a partire dalla brusca virata impressa dalla NEP all’industrializzazione forzata, che portò alla carestia degli anni Trenta. Da un punto di vista etico e politico l’accordo di alleanza (e, cosa ancora più grave, di spartizione della Polonia) con il Terzo Reich è ingiustificabile da ogni punto di vista lo si analizzi. E potremmo andare avanti nell’elenco.

Stalin



Ma, ed è proprio ciò che Chruščëv non dice, Stalin non fu semplicemente un uomo solo al comando. Stalin fu il rappresentante più adeguato della stessa burocrazia che promuoveva Chruščëv a Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. E una critica alla nascita e allo sviluppo di questa burocrazia, che mettesse sotto accusa anche il culto della personalità ma che a questo non si fermasse, avrebbe messo in discussione le fondamenta del proprio stesso potere.

Quando divenne di dominio pubblico, il Rapporto segreto segnò un momento di crisi per tutto il movimento comunista internazionale. Generazioni di militanti comunisti si erano formati nell’apoteosi della “nostra stella guida” Stalin. Convincerli che la fede nel Padre delle Nazioni fosse mal riposta era un’impresa destinata a fallimento. Lo ricorda tra gli altri Primo Moroni, storico libraio del movimento degli anni Settanta, fondatore della libreria Calusca.

Nonostante le resistenze, la campagna di destalinizzazione fece il suo corso. Le sezioni di cui parlava Moroni si trasformarono in circoli culturali, il partito che propugnava la rivoluzione proletaria adottò la parola d’ordine del compromesso storico in un cupio dissolvi che coinvolse lo stesso Stato sorto dalla rivoluzione d’Ottobre.

Sono passati ormai quasi settant’anni da quegli eventi. L’Unione Sovietica non esiste più da tre decenni e le generazioni di comunisti (cresciuti o meno nel culto di Stalin) paiono un ricordo sbiadito di un tempo che fu. Eppure, nonostante gli anni passati, un bilancio dell’esperienza storica del movimento dei lavoratori novecentesco appare ancora necessario. La fine dell’esperienza sovietica infatti non liberò un nuovo ciclo di lotte proletarie in nome di un comunismo non ancora realizzato. Come sottolineò in medias res Daniel Bensaïd, l’onda che travolse lo stalinismo spazzò via anche chi a questo si era da sempre fieramente opposto. Le buone ragioni addotte dai critici della burocratizzazione non sono bastate a salvare le correnti “eretiche” del comunismo novecentesco. Di fronte allo sfacelo della società in cui viviamo è allora necessario rimettersi daccapo, con pazienza, a elaborare una critica radicale del presente, illuminata dalla spiegazione di ciò che si vuole, del perché lo si vuole e di come lo si vuole ottenere. Perché «la tradizione di tutte le generazioni scomparse [sempre] pesa come un incubo sul cervello dei viventi» e l’unico modo per liberarsi dagli incubi è risvegliarsi.

Autrici e autori

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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