Sulla scomparsa dell’amore
Padre (Italia, 2024, 19’) è il primo cortometraggio di finzione e in bianco e nero di Michele Gallone con Filippo Timi (sceneggiatura a quattro mani del regista insieme a Sara Parentini), in concorso durante il mese di ottobre 2024 ad Alice nella città, sezione della Festa del Cinema di Roma dedicata alle nuove generazioni di aspiranti cineasti. Una storia di abbandono e codardia travestita da film di fantascienza, in cui al centro è posto uno dei legami più assurdi e naturali della vita, forse il più complesso in assoluto, senza dubbio quello al cui cuore nascosto pochi sono capaci autenticamente di risalire: il rapporto tra chi genera e chi è generato, e, in questo caso specifico (ed esemplare, almeno di un certo numero), tra padre e figlia. Vincitore del Premio Cavaliere Giallo 2020 per la miglior sceneggiatura di corto al Bergamo Film Meeting, prodotto da Articolture e distribuito da Sayonara – con il supporto di Creative Europe Media Program, Ministero della Cultura e Regione Umbria – fa in realtà ricorso alla fantascienza perché è l’unico paradigma narrativo, quello della contestualizzazione fantastica, adatto a incarnare – con il senso dell’ostensione propria del cinema – la concretezza dell’assenza di un sentimento umano e renderlo vicenda, intreccio, racconto: se si immagina, poniamo, un mondo dove un sentimento non esiste ontologicamente, o può essere tecnologicamente estirpato (come in questo caso), quel mondo non può che essere raccontato dalla fantascienza. Ecco, in un mondo, dai tratti lynchiani, quale è davvero quello verso il quale ci stiamo purtroppo incamminando – o ne siamo già invischiati e sommersi? – dove, come conseguenza della tecnica, del capitalismo sfrenato e della fagocitazione del sistema (l’illuminismo capovolto di Adorno-Horkeimer), sprofondano e si annullano i nessi autentici e si spalanca il baratro di ciò che l’altoparlante pubblicitario di Gallone/Parentini definisce come apatia e vuoto, resta solo una domanda: qual è questa verità elementare così enorme e talmente sotto gli occhi di tutti da passare, come di solito accade, inosservata? Qual è la parola fondamentale scomparsa dai dizionari? Il concetto andato in pezzi? Il sentimento (volutamente) dimenticato? È l’Amore. Con tutte le sue conseguenze e implicazioni, di sofferenza, sacrificio, abnegazione, responsabilità, preoccupazione, angoscia, dolore. Amore di cui quello generativo-filiale è solo una delle tante possibili declinazioni, e rappresentazioni (in questo caso).

Nel romanzo incompiuto e postumo di Novalis Heinrich von Ofterdingen si può trovare l’affermazione: Wo gehn wir denn hin? Immer nach Hause (Dove stiamo andando? Sempre a casa). Ma è poi Isaiah Berlin, in una delle lezioni sul Romanticismo del 1965, in seguito pubblicate con la curatela di Henry Hardy (The Roots of Romanticism, 1999), a riportare un aneddoto sullo stesso Novalis, probabilmente citando in modo non preciso: When Novalis was asked where he thought he was tending, what his art was about, he said «I am always going home, always to my father’s house». E allora la formula, come i creativi sempre fanno ricordando e citando e al contempo modificando e innovando, diventa: Dove stiamo andando? Sempre a casa, stiamo sempre andando alla casa di nostro padre. Formula citata/ricreata in quello che è forse il più profondo e ispirato film di Paolo Sorrentino, Youth. Sempre nello stesso film, accade anche che una bambina dica all’attore che incontra per caso, che ha impersonato sul grande schermo un padre che è stato assente tutta la vita e si ritrova infine a dialogare con il figlio cresciuto: Mi è piaciuto uno scambio di battute, quando tuo figlio dice: «Perché non hai fatto il padre?» e tu rispondi: «Pensavo di non essere all’altezza». In quel momento ho capito una cosa importante: che nessuno al mondo si sente all’altezza, quindi non c’è da preoccuparsi. Il cortometraggio cinematografico Padre risveglia tutte queste suggestioni e nessi, e molti altri ancora. Il tema è epico, e, direbbero i freudiani, primario e non secondario, ma anche, direbbero i lacaniani, reale e non simbolico. Primario perché, alla fin fine, conta, come magistralmente illustrato nella Traumdeutung, non proprio il contenuto in sé, ma il procedimento, lo schema, il come funziona. Ossia la figura, la figurazione. E l’assenza del padre è sempre una figura del dolore e della ricerca del segnavia mancante; quest’ultimo può prendere poi molte forme, buone e cattive, metaforiche e/o metonimiche. Il secondario, lo dice la parola stessa (in modo semplice ma non semplicistico), viene dopo, è meno importante. Lo schema primario resta quello dell’assenza: quel vuoto, quel buco. Da colmare, spesso, da soli. Così come, si potrebbe dire, ciò che è reale, se poi in fin dei conti reale non è (spesso però si pensa come realtà ciò che invece è apparenza), perché è così importante? Perché è così vero da essere chiamato reale? Perché sarà pur non reale come esteriorità e materialità, ma è reale come mondo interno, personale, privato, affettivo, intimo. Se dentro è così autentico da non ammettere mai sconti, è perché è primario. Anche se la vera realtà sembra un’altra, è invece proprio questa: è questo primario l’unica, fondamentale, autentica dimensione dell’essere umano, dove accadono le sue cose più vere. Questo primario dove accadono le cose più vere è allora per importanza – anche se di solito non ce ne accorgiamo – antecedente al simbolico, a ciò che è solo un simbolizzare qualcos’altro (di precedente, appunto), una trasformazione, uno stadio seguente, uno stato successivo (il simbolo è qualcosa di secondario, perché rimanda ad altro). Il simbolo è una cosa che significa un’altra cosa, e quest’altra cosa è il reale. E simbolo, in altro senso (neanche troppo distante), è il cinema, mezzo ostensivo per eccellenza, si diceva, più della letteratura, in quanto mostra, afferma, (sovra)espone, e va ermeneuticamente decrittato. Il suo destino è solo palesare, esporre, esibire alle luce del sole (e delle luci di scena, e dei riflettori del red carpet), ma è in questo esporre che è nascosta la chiave del suo segreto (almeno, quando è vero cinema): ciò che mostra ed esibisce è solo un tramite per ciò che davvero vorrebbe urlare ma non può mai.

Si diceva che il padre colma un vuoto; un buco, una mancanza, che, in sua assenza, bisogna colmare da soli. Da bambini nostro padre è il nostro eroe. È sicurezza, stabilità, certezza, forza. Una roccia posta alla base della nostra esistenza, della nostra intera persona, del nostro mondo interiore, del nostro percorso vitale. Però al contempo è un enigma, un mistero, da indagare, da svelare, da capire. Un segreto da decifrare e portare alla luce. Generalizzare è impossibile, ma probabilmente la madre è qualcosa di autoevidente: chiaro, lampante, limpido, trasparente. È il padre che ci pone, a volte, in dubbio: cosa ci nasconde? Cosa ci occulta? Cos’è che va portato alla luce? Cos’è che va, eventualmente, tirato fuori da tenebre oscure e smascherato? Cos’è, in definitiva, che va fatto? La domanda è ancora più imponente quando il padre è lontano (complesso di Telemaco, è stato definito in vari sensi; Telemaco cerca sempre Ulisse, anche quando non lo cerca): lontano fisicamente, lontano emotivamente, una delle due o entrambe; anche nel caso solo della seconda, è come se coincidesse con la prima. Esistono infinite forme di lontananza, in realtà. La più potente, evidentemente, si verifica quando – a volte accade – il padre ci abbandona. Non tutte le forme di lontananza sono forme di abbandono; ma l’abbandono è la forma più lacerante di lontananza. Perché è la Mancanza per eccellenza; l’interruzione di relazione più devastante che ci sia. È in quei casi che il padre si rivela un mistero ancora più profondo che in altri. Perché mi ha abbandonato? È stata colpa mia? Avrei potuto fare qualcosa per meritare la sua presenza? E se tutte le altre persone della mia vita – inconsciamente pensiamo – si comporteranno come lui? Posso o devo (o entrambe) fare qualcosa per meritarmi la loro presenza, per far sì che non mi abbandonino anche loro? Ma queste domande offuscano e seppelliscono la domanda originaria e originale, l’unica destinata a tornare: perché il padre ci ha abbandonato? Perché se n’è andato? Perché non ha fatto il padre?, chiede infatti il figlio del film nel film di Sorrentino. Domanda forse eterna, destinata a tornare e a restare inevasa. Soprattutto quando il supremo destino livellatore che tutti ci accomuna la porterà definitivamente con sé. Come scrive Alfonso Gatto nella poesia A mio padre (in La storia delle vittime, 1945):
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel novilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
