I sindacati alla sfida “trumpiana” del rinnovo del contratto nazionale degli esercizi cinematografici
A scorrere i giornali, recentemente, qualcuno potrebbe aver notato accorate richieste di aiuto, di varie personalità dello spettacolo, rivolte al governo e ai ministri competenti per salvare il cinema in crisi. O magari potrebbe essere incappato in una delle polemiche infinite, relative ai finanziamenti legati al settore, che sono seguite a tali appelli1. Meno probabilmente avrà notato che erano apparsi, solo poco tempo fa, altri appelli riguardanti le sale cinematografiche di Roma. Come in molte città italiane travolte dalla gentrificazione, infatti, le sale cinematografiche a Roma hanno ceduto il passo a catene commerciali di moda, di elettronica, ecc. Non se ne parla mai abbastanza delle sale cinematografiche in centro o di quartiere. Se lo si è fatto per le sale romane, del resto, è solo perché la Regione Lazio e gli operatori del settore cercavano (e hanno trovato) un accordo sul destino di alcune sale capitoline; se ne è salvata una dozzina, a fronte di almeno trentotto sale scomparse in venti anni.
Se Roma piange, Milano non ride. I milanesi conoscono bene il fenomeno, qui esploso a fine anni Novanta, ma ancora attivo e feroce. In centro a Milano si contano otto schermi. Pochi, specie se si considera che fino a due anni fa gli schermi erano il doppio e ancor prima il triplo.
Nelle interviste ai vari, Mastrandrea, Favino, ecc., sulle sale romane o anche nelle recenti polemiche tra Germano e Giuli, circa il sostegno statale al nostro cinema, però una cosa era comune: la questione dei lavoratori delle sale di cinema, totalmente trascurata.
Nessuno pare si interessi di chi lavorerà nelle sale, di chi proietta e vende i biglietti di quei film (finanziati o meno dallo Stato) e, soprattutto, nessuno pare preoccuparsi in quali condizioni di lavoro operano oggi o, in futuro, lavoreranno queste persone. È come se i cinema fossero scatole vuote. Eppure è in corso (da sei anni) il rinnovo del contratto di settore. Certo, di questi tempi, difficilmente si parla delle condizioni di lavoro in generale, figurarsi del caso, particolare, del contratto nazionale di lavoro degli esercizi cinematografici (e teatrali). Tuttavia la domanda non è peregrina quando si parla di modelli industriali. La sala è il punto di arrivo di un processo; strano dunque che nessuno si chieda: come si lavora in un cinema?
Invece sarebbe il caso di chiarire, sarebbe il caso per prima cosa di capire, in nome di quale modello di esercizio cinematografico si stanno salvando le sale romane, così come per quale modello di esercizio cinematografico alla fine si producono i film.
Di fatto l’abitudine al cinema ha attraversato varicambiamenti con una lunga storia che hanno inciso, anche drasticamente, sia sui lavoratori del settore, sia sugli spettatori. Lavorare in un cinema non ha più, da un bel po’, quell’aura romantica vista nelle scene di film come «Nuovo cinema Paradiso», ma spesso nemmeno assistere a un film ha la stessa magia e poesia che, nel film, conquista Totò, il giovane protagonista. Oggi, sia a Roma sia a Milano, sempre meno persone vanno in centro per un film. L’abitudine del cinema non è scomparsa. Gli spettatori, più facilmente, vanno nei multiplex (che spesso sono in periferia) cioè in enormi multisale che sono in (o di fatto sono essi stessi) centri commerciali.
Se andare al cinema non è più praticare e frequentare un luogo, ma un non-luogo, si potrebbe dire che, dal punto di vista del lavoratore, oggi in quei non-luoghi lavora del non-personale. Intendo dire che, in alcuni esercizi cinematografici, il lavoratore non sembra fare più grande differenza. Anzi spesso nemmeno ci accorgiamo della sua presenza se non di fronte a problemi tecnici. Grazie alla disponibilità maggiore di capitali, infatti, i multiplex si presentano agli spettatori, ormai da decenni, come gli ambienti tecnologicamente più attrezzati per la visione di film. Se il vantaggio per gli spettatori si trova nella qualità tecnologica dell’esperienza, tuttavia, ne deriva che l’apporto umano e la relazione personale, risulteranno aspetti poco significativi, se non nulli per chi va al cinema. Tanto che in alcuni multiplex, oggi, è lo spettatore a farsi cassiere (come al super o al fast food) e sono quasi scomparsi gli addetti alla cassa, perché i biglietti li si acquista on line, oppure a una cassa automatica.

A dare la stura ai più grandi cambiamenti del lavoro nell’esercizio cinematografico è stata la digitalizzazione, ossia la fine della pellicola e l’accesso on line alle biglietterie; un processo iniziato un paio di decenni fa.
Cosa ha significato la digitalizzazione dal punto di vista di chi lavora ? Nel timore (abbastanza giustificato) di affrontare licenziamenti massivi, legati allo switch tecnologico analogico-digitale, i sindacati dei lavoratori dello spettacolo di allora acconsentirono a una maggiore flessibilità nelle mansioni. Il mutamento tecnologico nei cinema, dunque, non si è tradotto nella nascita di nuove professioni, più specializzate o tecnologicamente avanzate. Per dirla in soldoni: non si è sostituito, come magari è accaduto in altri settori, l’operaio (o anche più operai) col meccatronico, l’impiegato generico con l’informatico specializzato, ma, piuttosto, si è proceduto nella semplificazione estrema delle operazioni, rendendo superflua la specializzazione in una precisa mansione. Questo ha permesso da un lato di ridurre il personale con gradualità e, dall’altro, di superare la vecchia organizzazione del lavoro in favore di una maggiore flessibilità delle mansioni. Il risultato? Non solo può bastare un cassiere per più sale ma, inoltre, lo stesso cassiere può, alla bisogna, strappare i biglietti, fare la maschera, riordinare la sala, vendere bibite e pop-corn, caricare contenuti sul server del proiettore. Il tutto senza ricevere un addestramento particolare e, soprattutto, senza nessun riconoscimento salariale per tanta versatilità. La definizione contrattuale è: addetto polifunzionale.
Anche per lo spettatore di cinema le cose sono cambiate e molto a causa della digitalizzazione. Un tempo la competizione tra sale cinematografiche si faceva cercando di ottenere dai distributori il film più adatto al pubblico di riferimento. Chi amava i film d’essai, era accolto dai cinema d’essai, chi amava l’animazione, da quelli specializzati in film per ragazzi ecc. ecc. Ce n’era per tutti i gusti. Oggi invece assistiamo non solo a una omogeneizzazione dei prezzi, ma anche dell’offerta di titoli di film, con minori possibilità di scelta in sala (che però aumentano sulle piattaforme).
La competizione tra alcune sale come i multiplex, dunque, non si fa per il film più adatto al proprio pubblico di riferimento (che in molti casi non c’è più perché c’è solo un grande e confuso pubblico) ma sul menù più conveniente, oppure sulla comodità delle poltrone. Voglio dire che il modello commerciale dei multiplex non ha più al centro del proprio business il prodotto film, che è venduto (o non venduto) altrove (dai distributori); ma ha al centro tutt’altro: la vendita di beni di conforto o, nel migliore dei casi, l’accesso a una tecnologia che non può essere disponibile in una dimensione domestica (3D o IMAX).
Forse si può pensare che al modello multiplex non esistano alternative. La contemporaneità ci ha portati a questo. Chi ha avuto la fortuna di frequentare le piccole sale che insistono e resistono nelle città, invece, sa che esiste un’altro modo di lavorare e vivere la sala cinematografica.
Sa che le monosale e i multisala di quartiere o dei piccoli paesi, dove ancora ci si barrica in un altro modo di fare cinema, sono comunque luoghi che ci vendono qualcosa, ma, in primo luogo, quel qualcosa è il film, è un prodotto culturale, come un disco o un libro, non dei beni di conforto; queste sale non sono solo luoghi di intrattenimento, ma presidi di socialità e di potenziamento culturale. In queste sale è impossibile lavorare senza personale qualificato, se non addirittura appassionato di cinema.

Ci si domanderà allora perché il pubblico si ostini a frequentare i multiplex, decretando la morte delle sale nei centri urbani o dei quartieri. Il fatto è che l’emoraggia di sale non si fonda solo su una sperequazione tecnologica, ma finanziaria. Una sperequazione che, in un certo senso, impedisce la libera concorrenza, ingolfa, invece che agevolare il mercato, grazie a una strategia commerciale precisa: la “strategia del coccodrillo”. I coccodrilli possono rimanere digiuni a lungo, molto a lungo. Persino sei mesi. Finché, magari, la transumanza non porta degli Gnu ad attraversare il fiume e i coccodrilli hanno l’occasione di sistemarsi per altri sei mesi. Ecco le strategie commerciali e diostributive del modello multiplex sono un po’ come quelle dei coccodrilli. I multiplex possono staccare pochi biglietti anche per lungo tempo; gli basta aspettare che passino gli gnu, ovvero noi (spero nessuno s’offenda) a Natale o per vedere il prossimo blockbuster. La distribuzione oltretutto privilegia i multiplex. Avere più schermi significa infatti più potere contrattuale. I vantaggi di chi compra all’ingrosso. Nessuna monosala o piccolo multisala, invece, potrà mai permettersi di attuare la stessa strategia di una catena di multiplex.
Impossibile concorrere senza avere le spalle più che coperte finanziariamente, impossibile avere la stessa potenza di acquisto di chi ha dieci schermi. L’unica speranza è quella di puntare al cinema di qualità, inteso non solo come prodotto ricercato, film d’essai, documentario, ecc. ma come esperienza culturale e di approfondimento generale (dibattiti, incontri, workshop). Significa costruire un pubblico di riferimento; significa costi maggiori e personale più qualificato da formare.
L’impressione è che, nell’assenza di dibattito generale e nel totale disinteresse del Governo e del ministero competente, il modello che si tende a confermare e promuovere, attraverso il nuovo contratto, sarà proprio quello dei cinema non-luogo, quello in cui lavora il «non-personale»; Il modello dei cinema che fanno il coccodrillo.
Per capirlo si guardi alla strategia messa in atto dai sindacati degli esercenti (ossia i proprietari di cinema) in fase di rinnovo del contratto. Sono sei anni che il contratto non si rinnova. Sei anni senza possibilità di recupero del potere di acquisto da parte dei lavoratori: appunto la strategia del coccodrillo. Gli esercenti possono aspettare che, tanto, la transumanza prima o poi passa, i lavoratori no.
Si dirà che in parte si è perso tempo a causa del COVID-19. È anche vero, però, che molte difficoltà sono venute da atteggiamenti provocatori degli esercenti. Chi ha seguito i lavori ha percepito un minor rispetto della controparte padronale verso i sindacati dei lavoratori. Sentirsi dire che sul punto in oggetto le parti datoriali possono mettersi d’accordo con i singoli lavoratori è una provocazione ovviamente. Che senso ha sedersi al tavolo di un contratto nazionale se tanto ci si può mettere d’accordo caso per caso? Da sempre il lavoratore si può accordare, caso per caso, con il proprio datore, non gli serve un contratto nazionale per questo. Il contratto nazionale serve, ad entrambe le parti, proprio quando potrebbe non esserci accordo.
Non sono state solo queste le provocazioni. Immaginate d’essere in ufficio al computer a scrivere un resoconto, o ancora in una fabbrica a manutenere un pezzo meccanico e che il vostro datore di lavoro vi ordini pulire i bagni. Questo è stato proposto dagli esercenti e respinto dai lavoratori, facendo perdere un bel po’ di tempo a tutti. Dal punto di vista dei proprietari di multiplex tali richieste forse hanno senso. Se i lavoratori possono fare sia cassieri, sia i tecnici, sia le maschere, sia gli addetti al bar, perché non potrebbero fare anche le pulizie? Ciascuno però valuti come considererebbe un sindacato disposto a firmare questo, tenendo conto che se questo ragionamento può valere per i cinema, potrebbe valere un dì anche per il commercio, per la scuola o per l’azienda metalmeccanica.

A ben vedere tali provocazioni sono state avanzate con uno scopo: alzare l’asticella di contrattazione. Una tattica molto simile a quella che abbiamo visto all’opera con Trump. Mentre infatti si distraevano i lavoratori con proposte irricevibili e provocatorie, nel frattempo si chiedeva e otteneva di siglare il contratto articolo per articolo, anche su aspetti controversi; benché, a onor del vero, almeno da parte della CGIL si è chiarito subito che lo si sarebbe fatto con riserva, vincolando la firma finale a una revisione complessiva.
Restare su un piano astratto forse non aiuta a capire; meglio portare esempi sulle questioni contrattuali. Si è discusso di come operare in caso di fermo attività per ragioni climatiche eccezionali (si pensi a un’alluvione tipo quella dell’Emilia Romagna) chiedendo e ottenendo che, in caso di chiusura degli esercizi, i lavoratori possano essere lasciati a casa, prendendo ferie e permessi non retribuiti (a loro spese quindi) o non pagati fino a cinque giorni. Significa che il costo dei cambiamenti climatici sarà scaricato sui lavoratori.
Si è chiesto e ottenuto di siglare un articolo che consente il rinnovo di contratti a termine fino a due anni e fino al 40% della forza lavoro a tempo indeterminato. Significa che quasi un lavoratore su due del cinema potrà essere precario.
Si è chiesto e ottenuto il lavoro intermittente (ossia a chiamata). Il numero massimo di questi lavoratori intermittenti non è stabilito per legge, ma è determinato dai contratti nazionali. Il nuovo contratto degli esercizi cinema stabilisce che la quota dei lavoratori intermittenti concorre a determinare la percentuale massima dei lavoratori a tempo indeterminato. Significa che, teoricamente, quasi un lavoratore su due, il 40%, potrà essere un lavoratore intermittente. La preoccupazione dei lavoratori, specie fra i lavoratori non tutelati dall’art. 18 (tutti quelli assunti dopo il jobs act) è di essere magari licenziati e poi di nuovo assunti a chiamata (con notevole risparmio di ferie e contributi da parte delle aziende). L’altro sospetto è che l’insistenza sui lavoratori intermittenti serva alle aziende per preparare il terreno all’impatto tecnologico che la A.I. potrebbe avere sulla gestione delle sale (come lo avrà in ogni altro settore). Se si può essere sostituiti da una cassa automatica ancor più facilmente lo si potrà fare con un robot intelligente.
Di fronte a tali richieste controverse i sindacati dei lavoratori si sono spaccati. CISL e UIL hanno deciso di siglare la bozza di contratto, giudicando più importante per i lavoratori iniziare a recuperare, anche solo parzialmente, potere d’acquisto e far fronte subito all’inflazione che impenna (è ora per gli gnu di passare il fiume e pazienza se ci sono i coccodrilli). La CGIL, che conta il maggior numero degli iscritti nel settore, ha invece rifiutato di siglare la bozza di contratto, giudicando gli articoli relativi agli aspetti legati alla precarietà del lavoro irricevibili e considerando comunque non sufficiente la parte economica, soprattutto per i lavoratori precari e, infine, avanzando il dubbio che, da tale contratto, emerga un modello di cinema senza vocazione alla cultura. È un cinema che vende pop corn, non film e che chiede lavoratori che vendano pop corn, non film. Perché questi cinema dovrebbero ricevere aiuti di stato al pari degli altri? Perché hanno codici Ateco legati alla cultura e non al commercio? Agli esercizi cinematografici che vendono film manca, così, non solo il sostegno finanziario per contrastare il modello multiplex, ma manca in parte anche il sostegno qualificato del Governo, dato che i multiplex, programmando film italiani o europei, possono accedere al Tax credit, al programma Eurimages e ad altre forme di promozione dell’esercizio cinematografico, esattamente come tutti gli altri. Un meccanismo che, paradossalmente, mette sullo stesso piano le sale di qualità, che vendono un prodotto culturale e le sale commerciali che invece fanno i coccodrilli e di tali aiuti non hanno bisogno.
L’impressione è che dalla bozza del contratto emerga un modello di esercizio chiuso verso l’eccellenza qualitativa. Un modello che, come si è visto, ha già portato nel tempo alla chiusura delle piccole sale d’eccellenza in centro città, ma a ben vedere, anche di multisale, persino di multisale che inseguivano il modello multiplex (almeno nel centro di Milano). Questo perché anche i centri urbani assomigliano sempre più a non-luoghi, sono sempre più simili a centri commerciali diffusi, luoghi buoni per accogliere i turisti che cercano cibo, bibite e posti in cui scattarsi fotografie. In questo scenario i cinema che non vendono film, ma beni di conforto, non reggono, né possono reggere, la concorrenza di altri esercizi che quei beni li vendono meglio. Del resto i turisti al cinema ci vanno al proprio paese, non certo in vacanza. Il risultato è che il coccodrillo che ha scacciato tutti dal fiume rischia ora anche lui di morire di fame, perché dal fiume non ci passa più nessuno gnu.

Dal contratto emerge inoltre un modello che, al di là delle dimensioni del cinema, limiterà l’azione a quegli esercenti che credono in un altro modo di fare esercizio e, allo stesso tempo, difficilmente aiuterà a mantenere le sale cinema nei centri urbani come nelle periferie. Difficile, infatti, che un tale contratto, con tanta precarizzazione, risulti attrattivo per i giovani e i meno giovani, visti i sacrifici che richiede lavorare la sera e nei giorni di festa. È legittimo chiedersi pertanto in che modo si pensa di salvare le dodici sale di Roma se, poi, comunque chiuderanno per mancanza di addetti.
La bozza di contratto degli esercizi sembra infine profilarsi come un caso esemplare circa la direzione economica e industriale che si vuole far seguire a tutto il paese. Dà un segnale. La direzione è quella di spingere la massa dei lavoratori verso le mansioni più semplici e meno retribuite (vedi le pulizie) mentre s’affideranno alla Intelligenza Artificiale le mansioni di qualità (programmazione, promozione, comunicazione) risparmiando sui lavoratori più qualificati (quelli con gli stipendi più alti) e che, quindi, più incidono sui costi del lavoro.
L’atteggiamento del Governo e del Ministro della Cultura verso le sfide che pone oggi il cinema appare preoccupante per tutti, non solo per chi lavora in un cinema. Il governo è al contempo infastidito dalle domande degli addetti del settore e vago nelle risposte, mostrandosi, così, chiaramente a corto di idee, più ancora che di danari.
Questo atteggiamento attendista, però, non solo avvantaggia le imprese che in caso di crisi economiche possono piangere lacrime di coccodrillo e poi, così, ricevere sostegni governativi, ma svantaggia i lavoratori, oggi aiutati da nessuno, a cui non resta che una chance: i prossimi referendum.
L’ 8 e il 9 giugno e in particolare i quesiti sul lavoro e, ancora più precisamente, il quesito sul lavoro a tempo determinato, saranno l’ultima occasione per mandare un segnale forte a Governo e agli imprenditori: non c’è più spazio per certe politiche economiche che impoveriscono i lavoratori e deprimono l’economia. Come gli altri lavoratori, specie se giovani, i dipendenti delle sale cinematografiche (ma anche gli amanti del cinema) dovrebbero tutti votare e far votare ai referendum; per provare a non fare la fine dello gnu che offre la gola davanti al coccodrillo.
Note
1 Vale la pena ricordare al pubblico non smaliziato che non esiste nessuna cinematografia occidentale che non sia aiutata economicamente dal proprio stato, persino il cinema a stelle strisce riceve congrui finanziamenti attraverso il Tax credit e le film commission.