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Il vuoto nella presenza

Un’esplorazione del potenziale creativo nella consapevolezza del Qui e Ora

Vuoto e Silenzio

È impossibile parlare nel vuoto: la vibrazione del suono ha bisogno di un medium per potersi propagare come queste parole scritte a computer. Il Verbo, come l’azione, è veicolo dell’intenzione creatrice, motore della manifestazione fenomenica in quanto intrinseca parte del cangiante processo di relazione con il mondo nell’indissolubile contiguità tra figura e sfondo, filo conduttore fra il dentro e fuori di noi. La scelta delle parole usate per descrivere la realtà costituisce la visione del mondo (weltanschauung) dell’individuo che le pronuncia, è il riflesso suo mondo interiore, delle sue credenze, delle sue consapevolezze e delle sue esigenze ed è sempre lo specchio della propria biografia. Il pensiero e quindi le parole non giungono mai ad essere la cosa in sé[1] come postulata da Immanuel Kant, ma, rappresentano una descrizione dei fenomeni che resta sempre soggettiva. La realtà ultima, la cosa in sé postulata dall’illuminismo kantiano, similmente al concetto di noumeno[2], non è accessibile, quindi descrivibile. Tuttavia, altri filosofi, tra cui Fichte e Hegel, non condividono la prospettiva del pensatore di Königsberg[3]. Questa, la realtà ultima, sarebbe invece accessibile attraverso un’esperienza unitaria nell’essere che può avvenire esclusivamente nel proprio intimo.

Il silenzio è un momento nel quale si intreccia il ritmo del divenire, è pausa delle parole, danza del tempo con lo spazio, è lo spartito della melodia cosmica: <<Ogni suono sorge su uno sfondo di silenzio e svanisce in uno sfondo di silenzio.>> (Candiani, 2018, p.101)

Il vuoto è quindi un’utopia affascinante poiché non esiste nell’esperienza ordinaria dell’uomo educato alla cultura materialista e meccanicista se non come spazio invisibile tra i fenomeni, impercettibile attraverso i nostri grossolani sensi. Esiste invece in quanto simbolo che ognuno, in potenza, può esperire e di cui si può abbozzare una descrizione. Scrive poeticamente Simone Weil: <<Il corpo umano è la bilancia sulla quale il soprannaturale e la natura si fanno da contrappeso>> (Weil, 1985, p. 315).

Possiamo esponenzialmente tendere a luoghi interiori o esteriori che si dirigono verso il vuoto, inteso come approdo di un processo individuale legato ad un percorso spirituale (sadhana) o ad un’esperienza spontaneamente indotta. Il fine di questo processo più o meno impermanente si trova negli stati dell’estasi, nelle “esperienze di picco” (Maslow, 1971) (come nel caso della morte temporanea dell’ego descritta da diversi studiosi rispetto alle esperienze con l’uso di sostanze psicoattive (Samorini & D’Arienzo, 2019)) nelle quali si abita uno spazio infinito ed unitario. Si trova, inoltre, nello stato di illuminazione (samadhi), che equivale al massimo stato di presenza, costituito da una resa totale al Qui ed Ora oppure ancora, nelle esperienze psicotiche.

Oggi l’uomo tenta di conoscere il vuoto attraverso la via esteriore, analitica e attiva, che richiede un oggetto da studiare, base di lavoro ordinario anche della scienza quantistica. Entrambe le strade, quella contemplativa e quella attiva, fanno parte di un complesso antitetico dove, al culmine estremo di entrambe, la differenza tra dentro e fuori scompare nella riunificazione degli opposti. Infatti, l’opposizione duale delle due tipologie di esperienze dell’io tende a ricongiungersi nella sintesi unitaria di una matrice energetica comune (campo unificato) chiamata dal fisico Carlo Rovelli “Presente Eterno” (Rovelli, 2014). Il dualismo mente-materia scema nella fisica quantistica: la fisica dei quanti, emancipata dal dogma dell’oggettività, riconosce l’irrinunciabile presenza dell’osservatore nella descrizione dell’oggetto osservato, nonché il variare del comportamento dell’oggetto osservato in funzione dell’osservatore e anche la natura vibratoria della materia, cioè il decantare in una o nell’altra forma in funzione della relazione con l’osservatore. (Von Foerster, 1987)

Questa concezione non-duale è sostenuta, senza il dovere della dimostrazione, da tutte le tradizioni sapienziali emerse nelle diverse culture nel corso del tempo (Capra, 1989). 

 <<Il presente non è il contingente, il presente conserva in sé tutto il nostro passato e tutto il nostro futuro, non va ridotto, siamo noi a doverci fare vasti e attenti, a non farci rapire dalle memorie e dai sogni, ma a onorarli perché sono parte della nostra natura umana. Della nostra incompiutezza radicale>> (Candiani, 2018, p. 54).


[1] La cosa in sé vuole indicare l’oggetto disponibile alla conoscenza considerato nella sua indipendenza dalla percezione soggettiva. È un concetto che ha origine dallo scetticismo greco. Viene ripreso da Cartesio ed ereditato dall’illuminismo. Kant, tuttavia, ritiene che la formula citata designi il limite della conoscenza umana che non può cogliere la realtà indipendente da ciò che si esperisce attraversi i sensi. (Vattimo, 2002)

[2] Il termine noumeno significa “oggetto del pensiero”. Secondo Platone il noumeno si coglie solo nelle idee e non nell’apparenza tangibile. “In Kant il noumeno è l’oggetto intellegibile contrapposto all’oggetto della sensibilità” (Vattimo, 2002, p. 800). Schopenhauer riprende il termine per indicare una volontà cieca, universale, essenza reale del mondo illusorio delle rappresentazioni fenomeniche. (Vattimo, 2002)

[3] La critica mossa dai filosofi idealisti, Fichte ed Hegel, nei confronti del punto di vista kantiano relativo alla cosa in sé verte sul differente significato dato alla formula. Fichte riduce la cosa in sé ad un momento dell’attività dell’io nel suo processo di emancipazione dai condizionamenti terreni; Hegel sosterrà che il concetto è invece il risultato di un processo astrattivo intellettualistico volto a negare tutte le determinazioni reali. (Vattimo, 2002)

Il contributo di Carl Gustav Jung: L’immaginazione attiva

Parlare del vuoto è possibile; come è possibile parlare degli unicorni blu e co-creare mondi immaginari che informano la realtà. L’immaginazione è una qualità valorizzata da Carl Gustav Jung attraverso lo sviluppo della tecnica dell’immaginazione attiva (Jung, 1994), da lui utilizzata come strumento fondamentale del processo terapeutico ovvero, in quello di individuazione. Una persona totalmente individuata è capace di usare la propria immaginazione attivamente, in maniera consapevole, come un mago che, conscio dei suoi poteri e dei suoi limiti risolve l’illusione di separazione tra sé e l’Altro in maniera evolutiva per sostare nell’a-priori del vuoto fertile[1] (Perls, 1994), orientando sé stesso a canale del divenire senza opporre resistenza. L’immaginazione è uno strumento fondamentale e pragmatico per liberarsi dalle resistenze e dai meccanismi di difesa che di volta in volta emergono dal carattere della persona che non ha ancora riconosciuto il proprio Sé, incapace di avvedersi rispetto ai condizionamenti e alle conseguenti reazioni automatiche che scaturiscono in lei: vi è l’impossibilità di prendere consapevolezza rispetto ai termini per cui è co-creatrice della realtà di cui fa esperienza. È necessaria l’assunzione di responsabilità integrale del proprio vissuto esperienziale per dare adito a questa rivoluzione copernicana del profondo.

 <<Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. […] Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. […] Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. […] Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’altra metà è la conoscenza che si costituisce nella relazione con l’immagine>> (Jung, 2012, pp. 1517).


[1] Fritz Perls, il padre della psicoterapia della Gestalt, utilizza la formula del vuoto fertile, riprendendola dal filosofo Salomo Friedlaender, per valorizzare l’importanza della Presenza del terapeuta come uno “zero”, ovvero un canale del continuum di consapevolezza. Nel suo libro “La terapia gestaltica parola per parola” scrive: <<Esiste soltanto il processo, l’accadimento. Il nulla in senso stretto per noi non esiste, dato che il nulla si fonda sulla consapevolezza del nulla, e si conseguenza qualcosa c’è sempre. E quando accettiamo questo nulla, questo vuoto, quando ci entriamo dentro, ci accorgiamo che il deserto comincia a fiorire. Il vuoto privo di contenuto diventa vivo, viene riempito. Il vuoto sterile diventa vuoto fertile.>> (Perls, 1969, pp. 69-70)

Nietzsche e la morte di Dio: come in alto così in basso

Il vuoto di valori “tradizionali”, nel quale versa la nostra contemporaneità, si riscontra nell’assenza di riferimenti simbolici trascendentali a cui riferire le nostre azioni quotidiane. Un tempo era questa la funzione della religione; il temine stesso deriva dal latino ri-legare che significa riunificare l’uomo con l’unità originaria, abilitandolo ad uno sguardo, o per meglio dire ad un vedere, capace di superare l’illusione dualista. Oggi, come ha profetizzato Frederich Nietzsche, non si tratta più di ricercare un Dio esterno a noi. Il filosofo tedesco annunciando la morte di Dio (1882), allude al recupero del potere infinito che è in noi, che egli chiama volontà di potenza, consapevolezza primaria dell’oltreuomo (1883-1885). Uno stato, quello dell’ubermensch, accessibile attraverso, sempre secondo il gergo nietzscheano, la trasvalutazione di tutti i valori. Il ritiro della proiezione “Dio” implica l’assunzione di responsabilità individuale rispetto alla potenza dell’immaginazione creatrice di cui ognuno è portatore; è il preambolo necessario alla suddetta trasvalutazione di tutti i valori poiché apre alla possibilità individuale di ricongiungersi con il potere di creazione del proprio divenire e di amare il proprio fato.

La generale alienazione di massa cui assistiamo nel presente, fortemente dedicata a spendere le proprie energie verso modelli effimeri, è forse un passaggio necessario, conseguenza della morte di un vecchio modello riduzionista, al fine di una rinascita potenzialmente in grado di ristabilire un nuovo ordine relazionale tra il micro e il macrocosmo. L’essere umano può così trovare il suo posto nel mondo oppure perderlo definitivamente, se non troverà la forza di compiere “una capriola a mezz’aria” resterà ancorato a quel paradigma antropocentrico che sta mostrando i suoi limiti riguardo alla capacità di creare benessere profondo, come confermano, per inciso, anche le teorie sull’antropocene.

Anche Platone, ne “La Repubblica” (370 a.C) offre uno spunto per riconoscere il potere dell’immaginazione creatrice. Il suo concetto di iperuranio – immaginifica residenza di tutte le idee, ovvero della perfezione universale ed eterna, dalla quale gli uomini colgono frammenti per realizzare la realtà secolare – rappresenta anche, se non per eccellenza, la suprema consapevolezza verso cui l’uomo può assurgere. Esso, similmente al concetto di Supermente di cui parla Sri Aurobindo, è uno stato nel quale si riconosce la ripetitività della storia, i diversi costumi di cui è vestita e le diverse forme in cui appare e, quindi, l’identicità di tutti gli uomini in quanto mossi dagli stessi sentimenti e dalle stesse emozioni. Nell’iperuranio i perché che gli uomini si pongono hanno già tutti una risposta. Le diverse idee e posizioni umane, incessantemente interscambiabili, anche all’interno di una sola biografia, ne sono la rappresentazione storica e così la sua convalida. Infine, quel grande archivio platonico che tutto contiene, permette di trovare la contiguità con Nietzsche: l’eterno ritorno (1882) concettualizzato da quest’ultimo non potrebbe sussistere in una concezione del mondo e dell’uomo soltanto secolare, fondata sul tempo lineare, sulle apparenze e differenze, sulla prevaricazione del giudizio e l’elezione dell’io ovvero, sulla separazione inconsapevole del molteplice rispetto all’Uno.

Possiamo dire che gli uomini, inconsapevoli portatori di frammenti di idee dall’iperuranio, creano un mondo in funzione della loro gerarchia di valori, la legge morale tanto criticata da Nietzsche, definita morale nervosa da Calloni Williams (2004). Possiamo anche dire che la reificazione materialista della realtà può rappresentare la massima distanza da una ipotetica paradisiaca perfezione iperuranica, immutabile ed eterna, impedendo così di percepire il senso di unità originario dove vita e morte sono una cosa sola. Ancor di più: uno dei riflessi nel microcosmo di questa ipostasi si concretizza in una gerarchia intrapsichica e sociale nella quale viene dato un valore superiore verso le presunte alte sfere dell’essere, ridotto ad intelletto, a cultore del razionalismo e della logica quale unico territorio in cui la verità può essere scovata e la conoscenza compiuta. Un essere che, infatti, non è in grado di riconoscere in che termini sia vero che la conoscenza è già in noi, e in quali le emozioni e quindi il corpo esprimano il gradiente della consapevolezza che ne abbiamo. La prevaricazione intellettualistica della ragione e della logica – caposaldi della cultura positivista, madre della visione scientifico-analitica ormai ridotta a idolatria scientista (Fayerabend, 1975), anche, tra l’altro, criticata da Jung (2011), – come ha messo in luce Claudio Naranjo (1994), si manifesta nella diffusa corruzione interiore odierna che adombra l’importanza dell’equilibrio tra i tre centri energetici (istinto, cuore e mente) per un vivere armonico e pieno.

La vacuità come sorgente di significato: simbolismo e sacralità nella vita e nella morte

«È il fine, non la causa, che manifesta gli eventi allo scopo di conoscersi. Il fine è da sempre realizzato nel Principio, perciò è necessario e dà carattere di necessità a ogni sua manifestazione. […] Se l’essere è vacuità e l’esserci è maya o illusione o modello, allora tutto, nell’ambito del modello, è Simbolo» (Calloni Williams, 2004, p. 121).

Nella cultura buddhista, il concetto di vuoto ha valenza escatologica: descrive la realtà ultima ed originaria in quanto sunyata (vacuità). Per sunyata si intende un vuoto vivo, fertile e a priori che in-forma il mondo fenomenico in una creazione sempre uguale e diversa da sé stessa nel ciclo continuo di creazione e distruzione. “La sua radice (di sunyata ndr.) si trova nel termine sanscrito shvi che significa “gonfiarsi”, come si gonfia un seme: <<La traduzione letterale di sunyata è quella di un utero gravido: vuoto nutritivo, fertile e pieno dell’intero mondo>>” (Candiani, 2018, p. 121). Vivere in contatto con la consapevolezza di questa vacuità significa essere nel qui e ora coscienti degli oggetti che di volta in volta convogliano l’attenzione della mente e nutrono la nostra esistenza.

Il concetto di vacuità è molto importante per la cultura buddhista poiché è associato ad uno stato scevro dagli attaccamenti che sono la causa, all’interno della sua cosmogonia, di ogni sofferenza. Lo stato di “vuoto” è una condizione che, nelle culture improntate sui valori della produttività e dell’efficienza, dell’intrattenimento e dell’edonismo, è per lo più estranea poiché è associata ad una mancata azione concreta, ad un mancato movimento verso l’appagamento del desiderio. Nel corso della vita si è generalmente proiettati su qualcosa o identificati in qualcosa, che sia il ruolo sociale o lavorativo oppure un’emozione come un pensiero sgradevole o piacevole che sia, non siamo educati ad allenare la nostra mente a sostare in una condizione di vuoto e di accoglienza equanime rispetto agli oggetti su cui si orienta l’attenzione che sono di per sé transitori. Alla paura del vuoto, che si può facilmente trovare in diversi sintomi quali l’attacco di panico o le vertigini (per dirne due), e in diverse patologie come la depressione in quanto vuoto esistenziale, si può per analogia associare la paura per la morte, la madre di tutte le paure. Nella nostra cultura la morte è tendenzialmente tenuta lontana o addirittura nascosta, separata dalla sfera sociale che invece rappresenta la vita, vige oggi più forte che mai il tabù della morte che è posto come momento in radicale discontinuità con la vita. La nostra civiltà ha trovato il modo di allontanare il momento della morte, grazie alla tecnologia e allo sfruttamento della natura abbiamo allungato di qualche anno la speranza di vita, ma a che costo? Qual è il prezzo che stiamo pagando per questa scelta? Quali le sue conseguenze nei confronti del profondo benessere?

Gettando nell’ombra la morte non solo abbiamo limitato il significato intrinseco dell’esistenza, cercando goffamente di controllarlo, nel vano tentativo di estirparne una fase tanto fatale quanto costituente del senso ultimo dell’esperienza umana ma, così facendo, abbiamo anche espropriato il sacro della sua integrità e azzoppato il suo intimo amico: il sacrificio. Il termine sacrificio è composto dalle parole latine sacrum e facere e significa letteralmente fare il sacro. Esso può essere visto come una piccola morte capace di aprire delle porte su dimensioni nuove della nostra natura. Attraverso il sacrificio l’essere umano ha raggiunto le vette più alte della sua storia, nessun traguardo sarebbe stato raggiunto senza l’idea di fare il sacro (ovvero ciò che è inevitabile), dall’ambito spirituale a quello sportivo, dall’arte alla politica. Il sacro fare è ciò che espande l’attimo in eternità e riunisce la morte alla vita in un processo ciclico di costante rinascita in nome del miracolo del qui ed ora sulla terra, la quale ci precede e procede oltre noi in termini temporali e spaziali. L’illuminato è colui che ha accolto la morte nella vita, poiché grazie al sacrificio delle proprie maschere storico-egoiche si può ricongiungere al vuoto eterno che si cela dietro esse aprendosi così al mistero dell’esistenza che svanisce solo al di là della paura, nella presenza del Sé attraverso il sé al servizio del qui e ora. Il superamento (impermanente perché altrimenti non può essere) dei confini dell’ego non è una perdita dell’identità bensì un’espansione di essa. Rompere la comfort zone, il castello di sabbia che alimentiamo, sostenendo attimo dopo attimo l’illusione che abitiamo rendendo le sue mura sempre più massicce, è una questione di surrender (resa): <<Surrender è, nella weltanschauung della filosofia di Aurobindo, il totale abbandono dell’essere alla potenza del divenire, o volontà dell’accadere, che rende l’essere non essere e, in quanto tale, lo sancisce re dell’accadere stesso.>> (Calloni, 2004, p. 46)

Anche nell’insegnamento di Rumi, poeta e teologo sufista, l’attuazione della legge della resa è il primo passo per entrare in contatto col principio di realtà: <<First, we must be surrendering and accepting what is happening at the moment, no matter how unfair, unpleasant, or horrible, it might seem. This reality check takes us out of an egoic illusion.>> (Khademi, 2022, p. 19).

In molte tradizioni sapienziali, dalla Cabala ebraica al buddhismo, dal taoismo all’induismo fino allo gnosticismo, il sufismo e altre, Dio è postulato per simboleggiare un principio primo associato ad una condizione di perfezione permanente che, dopo il “tramonto degli idoli”, è possibile oltreché necessario ricreare interiormente: <<Surrendering and accepting the here and now, no matter what it is, takes us to a space outside the world of opposites. It connects us to a permanence within that is our true being independent of our learned behavior and knowledge>>. (Khademi, 2022, p. 12)

 La prima azione che generalmente Dio compie nelle varie declinazioni mitologiche è quella, attraverso un soffio vitale, di propagare la sua energia nell’universo vuoto animando la Natura e portando la vita, passando così dall’Uno al Due, dall’Io all’Altro. L’atto del respiro simboleggia lo scambio da vuoto a pieno, da uno a molti. Da inconscio a conscio, nel sottile equilibrio cosmico.

<<Quando respiriamo, sapendo di respirare, spesso facciamo molta più attenzione all’inspirazione che all’espirazione e ancor meno alle pause tra un’inspirazione e un’espirazione e tra un’espirazione e un’inspirazione. Eppure, è magico accorgersi di poter sentire il respiro che se ne va nel grande mondo, che ci lascia, e ancor di più accorgerci di essere vivi e consapevoli nelle pause senza respiro, nei vuoti. Allora… Il vuoto è conoscitore di mondi.>> (Candiani, 2018, p. 123)

Dal Vuoto alla Vita: L’Essenza del Sé come creatività consapevole

<<E il Signore Iddio formò l’uomo della polvere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale; e l’uomo fu fatto anima vivente.>> (Genesi, 2:7)

Jung, nel commento al “Libro tibetano della grande liberazione” scrive: Il testo dice: <<Questa meditazione è libera da concentrazione intellettuale.”>> Abitualmente si presume che lo yoga consista soprattutto in un’intensa concentrazione. Noi crediamo di sapere che cosa sia la concentrazione, ma è molto difficile riuscire a comprendere veramente la concentrazione orientale. Anzi, il nostro modo di concentrarci può essere addirittura il contrario di quello degli orientali, come mostra lo studio del buddhismo zen. Presa alla lettera, la posizione “libero da concentrazione intellettuale” può significare soltanto che la meditazione non è rivolta ad alcunché. Non avendo centro, essa è piuttosto un dissolversi della consapevolezza e quindi un accostarsi direttamente allo stato inconscio. La consapevolezza presuppone sempre una certa misura di concentrazione, senza la quale non vi è chiarezza né consapevolezza alcuna. La meditazione senza concentrazione sarebbe uno stato di veglia, ma vuoto, al limite dell’assopimento.” (Jung, 2013, p. 522)

Arrendersi al Sé, nell’ottica del processo di individuazione (di cui abbiamo già accennato sopra), equivale a riconoscere che, oltre l’illusoria volontà dell’ego che pretende di avere il controllo e dominio di tutte le informazioni percepite dai sensi vi è anche la Volontà del Sé, un flusso di esperienza e di eventi del e nel quale siamo partecipi. Sri Aurobindo descriveva la modalità di entrare nel flusso del Sé, come abbiamo visto: surrender (Aurobindo, 2013). Arrendersi al Sé equivale a diventare parte consapevole di un processo più ampio di cui facciamo già parte inconsapevolmente, consiste nell’accostarsi a quella che Claudio Naranjo descrive come pratica del non fare (riferendosi al Wu wei, importante precetto taoista che rappresenta il perfetto equilibrio con il Tao e quindi con la Natura intesa come insieme unitario da cui genera la molteplicità dei fenomeni) (Naranjo, 2017), da non intendersi come un fare niente ma, bensì, come fare niente ove l’accento è posto sulla parola fare. Questa pratica contemplativa si discosta dal rischio di produrre conseguenze di tipo nichilista in quanto presuppone la consapevolezza dell’impotenza dell’egoica volontà personale (la quale si ritrova spesso a combattere i mulini a vento per dirla con Don Chisciotte) se non utilizzata come terminale attivo del Sé, la parte trascendentale dell’uomo, quella che apre all’esperienza di connessione profonda e di appartenenza a qualcosa di più vasto: <<Poiché l’Io è solo il centro del campo della mia coscienza, esso non è identico alla totalità della mia psiche, ma è soltanto un complesso fra altri complessi. Distinguo quindi tra l’Io e il Sé, in quanto l’Io è solo il soggetto della mia coscienza, mentre il Sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche di quella inconscia.>> (Jung, 2015, p. 356) 

L’uomo, generalmente, si crede padrone delle sue azioni e dei suoi pensieri, ma non sa che dietro i suoi pensieri e le sue azioni vi è il Sé, ovvero quel principio primo, eterno e immutabile che si autogenera e che si ritrova declinato diversamente in ogni tradizione sapienziale: il Tao per i taoisti, il Pleroma per gli gnostici, il Brahman per gli induisti (chiamato atman nel suo riflesso individuale, tradotto spesso con: soffio vitale), l’Einsof per la mistica ebraica, quella matrice originaria da cui tutta la Vita scaturisce e di cui l’uomo è canale e testimone, terminale e ponte. Attraverso la volontà egoica, completamente identificata nella ‘Persona’ (la maschera nella terminologia di Jung, il quale riprende il termine dal latino) e quindi nella narrazione interiore della propria biografia, ci opponiamo, frequentemente, alla Volontà del Sé, poiché non siamo educati a riconoscere le trame di senso profonde e trascendentali che significano le azioni del quotidiano. La deriva di questa identificazione conduce a comportamenti e pensieri nichilisti, alienati dalla propria natura divina e volti esclusivamente a confermare il proprio interesse personale: un fare frenetico e perverso generato per mascherare un horror vacui, sintomo della paura del Vuoto e del terrore di farsi da parte nel prendere consapevolezza che non siamo padroni in quella che pensavamo fosse “casa nostra”. L’accettazione di quest’iniziale ambiguità paradossale, che, se non compresa, aleggia come un’ombra aggirandosi nella nostra coscienza (e, nel migliore dei casi, genera domande senza risposta riguardo al senso dell’esistere), può condurre ad una apertura che, nella migliore delle ipotesi, tende a realizzare una conoscenza basata sul sentire, sulla capacità di osservare la propria esperienza nell’accadere oscillatorio della vita e a contemplare con non attaccamento ed epochè (liberi dal conosciuto) gli eventi vissuti. Questa apertura tende a far nascere un senso di responsabilità rispetto “ai semi che piantiamo nel nostro giardino”, in quanto vi è la consapevolezza cellulare che l’individuo è “l’ago della bilancia” (Jung, 1975) dell’interpretazione dei vissuti che informano il campo della sua coscienza e di conseguenza quella collettiva.

Da questa identificazione con la Persona/personaggio dell’individuo moderno, nascono molte delle patologie odierne come, ad esempio, la FoMO: Fear of Missing Out. Etichetta utilizzata per conferire significato a quel bisogno, specialmente cittadino, spasmodico di partecipare ad eventi sociali anche senza un reale interesse profondo come conseguenza di un’angoscia che scaturisce dalla paura di non fare parte, di essere non visti, di perdersi qualcosa non apparendo. L’evitamento del vuoto, del qui ed ora, ha portato a non saper ascoltare il proprio sentire profondo e ad un’incapacità di sostare nel silenzio. Abbiamo smesso di sentire i suoni della Natura, i quali ormai sono un lontano ricordo che solo con la nostalgia, forse, possiamo riabbracciare. Abbiamo dimenticato come contemplare la Bellezza di una foglia che cade da un ramo, abbiamo rimosso la connaturata capacità di apprezzare i colori dei fiori e di sorprenderci di fronte agli impercettibili movimenti degli insetti e, in questi frangenti, riconoscere quell’armonia cosmica della quale facciamo inevitabilmente parte. Possiamo recuperare questa connessione con il creato se ci concediamo di fermare la narrazione interiore per un momento facendo spazio a ciò che c’è. Che effetti crea la vita vissuta a velocità automatica a cui la maggior parte degli individui si adegua in nome del dio Denaro? Ognuno di noi ha un ritmo interiore, dettato dal respiro, che andrebbe rispettato ma che, per adattarsi ai tempi richiesti dalla società dei consumi, viene dimenticato. Ci intoniamo secondo le qualità richieste dal paradigma nel quale viviamo e non secondo le qualità innate che ci abitano e così nutriamo il circolo vizioso nel quale siamo inseriti e dal quale siamo assorti. Jung inizialmente chiamava queste due necessità umane definendo il lato celeste e trascendente legato alla realizzazione spirituale, come Spirito del tempo passato e il lato terreno ed immanente legato alla realizzazione materiale, come Spirito del tempo presente (Jung, 2013). Entrambi hanno la medesima importanza e secondo Jung essi si realizzano tendenzialmente seguendo i cicli biologici della vita con l’obiettivo di essere integrati nel percorso di individuazione. Nella prima metà della vita siamo più dediti a fare esperienze per trovare il nostro posto nella società e a lavorare sull’affermazione del nostro Io e quindi ci impegniamo per realizzarci esteriormente secondo il modello culturale nel quale siamo inseriti attraverso la professione, nella costruzione di una famiglia, nell’acquisto di beni materiali (ecc.) In un secondo momento, più probabilmente nella seconda metà della vita, avviene un allontanamento naturale da questi bisogni contingenti e ne subentrano altri, più aderenti al nostro Sé. Non è un caso se il termine ultimo della morte è più vicino dell’origine della nascita da quel momento: vi è un’inversione di polarità naturale (la forza della vita inizia a diminuire e, non più spinta dall’origine è attratta dalla fine e trasforma il suo senso), come quella descritta da Dante attraverso le parole di apertura della Divina Commedia: <<Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita>>. L’uomo che sente la chiamata dello Spirito del tempo passato, dopo aver realizzato i bisogni indotti dalla contemporaneità tenderà ad aprirsi verso valori e significati che travalicano i confini della sua coscienza individuale. Passerà da una fase in cui cercava il suo posto nella società ad una fase in cui cercherà il suo posto nella vita attraverso il pieno adempimento alla sua vocazione interiore.

<<La calma, la respirazione profonda, prolungata ma come quando si dorme, al modo di una danza incantatoria, la concentrazione lenta, ironica, dei pensieri verso un vuoto, l’abile destreggiarsi dello spirito su temi di meditazione in cui sprofondano successivamente il cielo, il suolo, il soggetto, potrebbero essere oggetto di insegnamento.>> (Bataille, 2002, p. 240)

Da un punto di vista microcosmico, fenomenologico quindi, troviamo un’analogia di questo movimento dialettico, vuoto/pieno, materia/spirito, persona/Sé, luce/ombra nella dinamica del respiro, dove in un dialogo e scambio continuo questi due aspetti della realtà cooperano e coesistono incessantemente completandosi. Respiriamo e siamo respirati.

<<la vacuità è una lode alla non dualità. E al silenzio.>> (Candiani, 2018, p.126)

<<Le manifestazioni fenomeniche del Vuoto mistico, come le particelle subatomiche, non sono statiche e permanenti, ma dinamiche e transitorie; entrano nell’esistenza e svaniscono in una incessante danza di movimento e di energia.>> (Capra, 1989, p. 246)

<<Dunque, il vuoto dei mistici orientali è certamente paragonabile al campo quantistico della fisica subatomica. Come il campo quantistico, esso genera una infinita varietà di forme che sostiene e, alla fine, riassorbe. Come dicono le Upanisad:

“In calma, adori Lui

da cui è venuto

in cui si dissolverà

in cui oggi respira.”>> (Capra, 1989, p. 245)

Nella Cabala ebraica: quell’insieme di insegnamenti esoterici sviluppato dall’ebraismo rabbinico viene posto come principio e fine di tutte le cose, poiché è perfetto, eterno e senza attributo alcuno, l’Ein Sof, uno stato di vuoto dal quale, a partire da un primo movimento di contrazione-inspirazione, chiamato zimzum, vi è un poi un secondo momento di rivelazione o espirazione, attraverso cui il divino emerge dalle profondità del proprio essere e si manifesta nei vari piani dell’esistenza attraverso le cosiddette Sephirot (Scholem, 1992). L’uno diviene molteplice ed è compito dell’Adam Qadmon (l’uomo originario che abita in ognuno di noi), consapevole che “ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che in basso è come ciò che è in alto” riscoprire la sua natura divina e riunire gli opposti.

<<Nella concezione orientale, la realtà soggiacente a tutti i fenomeni trascende tutte le forme e sfugge a tutte le descrizioni e specificazioni. Di essa, perciò, si dice spesso che è senza forme, vacua e vuota. Ma questa vacuità non dev’essere presa per semplice non-essere. Essa è, al contrario, l’essenza di tutte le forme e la sorgente di tutta la vita.>> (Capra, 1989, p. 245)

Parafrasando Nagarjuna, illustre monaco e filosofo buddhista, gli illuminati descrivono la vacuità come l’eliminazione di tutte le ipotesi e coloro i quali credono che anche la vacuità sia un’ipotesi sono inguaribili.

Bibliografia

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Candiani, C. L. (2018). Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Giulio Einaudi editore, Torino.

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