Il mondo non parla di noi, se non nei termini di pietismo o eroismo. Anche nei circuiti di attivismo internazionale, spesso il corpo disabile non è preso in considerazione.” “Da fuori, se si parla di accessibilità, sembra si faccia riferimento esclusivamente a quella architettonica […] Noi ci concentriamo sull’accessibilità culturale, sulle possibilità lavorative nel campo dello spettacolo. […] Spesso i corpi disabili sono esclusi anche dalle accademie di formazione.
Con questa citazione, tratta da un’intervista del 2022 a Diana Anselmo, apriamo una finestra su quello che è ad oggi uno dei maggiori tabù nella storiografia musicale (soprattutto colta) ovvero la disabilità. Ci entriamo così, senza bussare o chiedere permesso, perché è davvero tempo di restituire all’immagine collettiva del passato la sua forma reale, ovvero quella poliedrica.
Da un punto di vista storico e storiografico vi è stato un lungo rapporto fra disabilità visive e professione musicale, tanto che in numerose culture quella della cecità è spesso risultata una caratteristica tradizionalmente associata alla professione stessa – più o meno a ragione. In certi ambiti, come ad esempio nella strutturazione didattica degli istituti per ciechi, questa associazione è stata talmente automatizzata da scadere nello stereotipo.
Il Novecento ha consegnato alla gloria artistica popolare musicisti come Ray Charles, Stevie Wonder o Art Tatum, mentre oggi conosciamo personaggi come Andrea Bocelli, o i giovani Lucy Illinworth e Nibuyuki Tsujii.
Ma dalla storiografia accademica manca totalmente il riconoscimento al contributo che ciechi e ipovedenti hanno dato in passato alla strutturazione della musica, che è espressione massima della nostra e delle altre culture – contributo che separiamo qui, ai fini dell’articolo, da quello di tutte le altre tipologie di artisti disabili, che meriterebbero un’eguale considerazione.
Il fine ultimo di questa indagine in due puntate – che si rivolge a docenti, studenti e appassionati appartenenti a tutta la gamma di esperienze visive – è quello di fornire una via d’accesso alle possibilità di una didattica musicale specializzata, ma senza perdere di vista l’importanza che ha, secondo il fenomeno della rappresentazione, parlare della pluralità di esperienze di tutte le epoche.
La sua compilazione è nata come tappa di un viaggio, quello attraverso l’insegnamento del linguaggio musicale braille nel contesto di un percorso di studio del pianoforte, e non è quindi da intendersi come concluso o definitivo. Rappresenta uno spaccato contemporaneo, passibile di miglioramento, sulle competenze di una docente vedente, che ha tutta l’intenzione di fornire un’educazione adeguata al proprio corpo studentesco, attuale e futuro, istruendo al contempo i colleghi sulle mancanze del nostro percorso di studi accademico.
Canzone Popolare e Musicisti di Strada
Per farci un’idea di quanto in passato musica e cecità siano state connesse, possiamo intanto notare che si è trattato di un elemento comune agli ambienti colti – di corte o accademici – e popolari in diversi continenti, ben prima dell’inizio dei primi passi della globalizzazione. Per molto tempo, in diverse zone d’Europa, specialmente nell’Italia dell’epoca dei Comuni, i musicisti di strada ciechi erano parte della vita cittadina e, in quanto professionisti, si trovavano riuniti in specifiche corporazioni – ne fu un esempio quella bolognese nata nella prima metà del Quattrocento e rimasta in attività fino a tutto l’Ottocento.
Nel Sud-Italia, soprattutto in Sicilia, fra la metà del ‘600 e tutto il ‘900 era prassi avviare allo studio di uno strumento musicale i figli ciechi e ipovedenti – che lo fossero dalla nascita o meno – allo scopo di assicurare loro un mezzo di sostentamento. A Palermo, Catania e Messina per esempio vi erano delle vere e proprie confraternite di “suonatori” ciechi, nate intorno al 1644, la cui professione consisteva nell’esibirsi su richiesta in ogni tipo di contesto laico o religioso.
Essendo rimasti in attività fino al XX secolo, questi esecutori hanno lasciato testimonianza tangibile di tipologie compositive dal grande valore storico e culturale, come i cunti, le novene, le orazioni o i triunfi, che suonavano durante il loro lavoro di evangelizzazione per conto dei Gesuiti – grazie ai quali d’altronde le confraternite erano nate – che vivono ancora della memoria dei siciliani più anziani.
Spostando l’attenzione verso il Nord-Italia, scopriamo che negli ultimi anni l’interesse per i canti di tradizione ha riportato in auge uno strumento antichissimo, la ghironda: originariamente di grandi dimensioni, era usata nel medioevo per accompagnare i canti gregoriani, ma si è evoluta in una versione più piccola e maneggevole entrando a far parte dei fenomeni musicali “di strada” già a partire dal Rinascimento. Questo strumento – nel quale il roteare di un cilindro azionato a manovella struscia le corde, mentre l’altra mano preme dei tasti che ne alterano la tensione a produrre suoni di altezza diversa – veniva spesso classificato col nome di “viola da orbi” ed è ritratto in numerosi documenti iconografici proprio fra le mani di esecutori ciechi. Ne sono un esempio i vari dipinti con questo soggetto prodotti ad inizio Seicento da Georges de La Tour.
Un altro strumento molto usato dai musicisti ciechi del passato è stato l’arpa. Prediletta nella tradizione celtica dei bardi irlandesi, ebbe fra i propri autori e personaggi storici di maggior spicco il celebre Turlough O’Carolan, vissuto fra il 1670 e il 1738, che aveva perso la vista a causa di una malattia e che lavorava sia in ambito aristocratico sia come musicista itinerante.
Interessante è anche notare che vi sono esempi dell’uso dell’arpa da parte di musicisti ciechi, accademici e girovaghi, anche in altre culture, passando per il Perù pre-coloniale, risalendo fino all’antico Egitto.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento l’unione tra ricerca d’interesse umanistico e avanzamento tecnologico nella presa del suono produsse una disciplina, l’etnomusicologia, grazie alla quale la musica di strada e le tradizioni popolari furono oggetto di un primo slancio di recupero. Oltre ai succitati canti del Sud-Italia – e numerosissime tradizioni musicali oggi conosciute come world music – questa ha permesso ad esempio la registrazione e lo studio del repertorio dei Kobzar, musicisti itineranti cosacchi di area ucraina che, fino al loro annientamento per mano di Stalin negli anni Trenta, si spostavano fra i villaggi accompagnando i canti tradizionali con il Kobza, strumento della famiglia dei liuti.
Col tempo si creò uno stereotipo secondo il quale tutti i Kobzar erano ciechi, ma in realtà questa caratteristica non era determinante per accedere alla professione.
Lo era invece nel Giappone del periodo Edo, quando il fenomeno dei musicisti ciechi permeava tanto gli ambienti itineranti quanto quelli accademici e di corte, costituendosi come una vera e propria tendenza sociale.
A questo periodo risale infatti il riconoscimento ufficiale della corporazione dei Biwa Hoshi. I suonatori di Biwa – un cordofono a manico corto della famiglia dei liuti di origine cinese – si erano diffusi come cantanti di storie a contenuto eroico, le quali col tempo andarono a formalizzarsi in una specifica struttura poetica e musicale, chiamata heikyoku. Fino al quattordicesimo secolo, quando appunto si organizzarono, diversi di questi monaci-musicisti itineranti si aggiravano per il Paese vivendo della propria arte in maniera indipendente, portando avanti una tradizione le cui tracce risalgono a tutto il dodicesimo secolo.
Contemporaneamente, fra il 1600 e il 1868, in Giappone si stabilizzò anche la figura delle Goze, cantanti e suonatrici cieche che erano inserite in un complesso meccanismo sociale: sia il percorso di formazione che le regole a cui dovevano attenersi una volta iniziato il proprio lavoro (fra cui l’obbligo di nubilato) erano fortemente strutturati e formalizzati. La loro attività si è protratta fino al Novecento, con l’ultima maestra deceduta ultracentenaria nel 2005, ma ve n’è traccia già in precedenza rispetto al periodo del riconoscimento corporativo.
Attive in quanto parte del sistema feudale, si spostavano fra i villaggi suonando in cambio di ospitalità da parte dei contadini, esibendosi in un vastissimo repertorio che spaziava dalla musica vocale colta, alle canzoni popolari, passando per una serie di tipologie compositive proprie della loro professione – di cui purtroppo sono pervenuti solo pochi esempi, anche in questo caso grazie a incisioni effettuate a inizio Novecento.
Un ruolo particolarmente importante per la raccolta di informazioni relative alla musica di strada, oltre all’invenzione di apparecchi di registrazione, è ricoperto dai documenti iconografici – la sua intrinseca caratteristica di trasmissione orale del sapere non lascia tracce tangibili a testimoniare le caratteristiche dell’arte di questi professionisti girovaghi. Grazie a pitture, sculture e illustrazioni, la presenza di strumentisti e cantautori ciechi è riportata in svariate culture e, col contributo aggiuntivo delle testimonianze orali, risalta l’importanza sociale che avevano sia loro come professionisti sia la musica popolare in senso generico.
Corte, Accademia e Musica Colta
A differenza dell’ambito popolare, quando si parla di contesto accademico vi è un numero notevole di documenti fisici relativi alle opere composte da musicisti ciechi, i quali tuttavia hanno occupato una percentuale inferiore dei professionisti rispetto alla loro controparte girovaga.
Non è certo che quella della visione limitata una caratteristica implicita per accedere alla professione di arpista nell’Antico Egitto, in ogni caso vi sono numerose pitture e bassorilievi provenienti da diverse sepolture – 47 nella sola Necropoli di Tebe – che mostrano arpisti privi di vista, talvolta accompagnati da cantanti, che datano questa tradizione a partire dal 2040 fino al 1200 avanti Cristo circa. Uno dei più antichi di cui è pervenuta notizia si chiamava Neferhotep ed è presente sulla Stele di Iki, dove vi sono un suo ritratto, con le caratteristiche tipiche dei personaggi illustri, e la trascrizione di una sua canzone.
I musicisti ciechi furono numerosi anche nella Cina imperiale, nella cui tradizione accademica musica, cecità e veggenza sono state a lungo connesse, in seguito al diffondersi della leggenda di Shi Kuang (572-532 a.C.), un suonatore di Zheng del regno Jin. Secondo i racconti, possedeva capacità sovrannaturali, grazie alle quali si era guadagnato un ruolo determinante nella politica, arrivando col tempo ad essere venerato come divinità della musica stessa.
Anche in Giappone vi sono stati esempi illustri: uno degli autori più celebrati di musica classica giapponese fu infatti Yatsuhashi Kengyō (1614-1685), famoso per aver diffuso il Koto fuori dall’ambiente accademico e per aver portato innovazione tanto nell’evoluzione tecnologica di questo strumento quanto nella teoria musicale della tradizione nipponica. È interessante notare peraltro che la parola Kengyō, che viene associata al suo nome, costituisce una specifica onorificenza formale, che veniva concessa solo ai musicisti ciechi di particolare qualità.
Nella musica colta occidentale, invece, la presenza di artisti ciechi è stata forse più contingentale che sistemica. In Irlanda, di un paio di generazioni successivo a Turlough O’Carolan, Patrick Byrne (1794-1863) fu l’ultimo arpista a tramandare la tecnica originale dell’arpa celtica e fu importante tanto come compositore-esecutore quanto come didatta. Studiò in un ambiente accademico e adattò la professione, tradizionalmente girovaga, ad uno stile di vita sedentario più simile a quello di molti strumentisti solisti di area colta, vivendo per lo più nello stesso posto ed esibendosi principalmente in concerti privati per le classi sociali più elevate, facendo parte anche di accademie e circoli – compresi quelli massonici.
Il suo repertorio fu fin da subito vasto, improntato sulle melodie tradizionali irlandesi e successivamente arricchito con arie scozzesi e gallesi, meno antiche, ma le recensioni delle sue esibizioni dimostrano come i suoi concerti avessero tutte le caratteristiche di una dimensione “colta”.
A parte alcuni esempi singolari, come quello di Byrne, in ambito colto e accademico la scelta dello strumento da parte di musicisti ciechi è stata varia e per lo più mossa da necessità pratiche – ma in questo campo professionale, a differenza della controparte itinerante, la cecità si è considerata più spesso più una complicazione che una risorsa.
Gli strumenti prediletti da insegnare ai giovani, già a partire dal Seicento, sono stati quelli a tastiera, più raramente l’arpa (quasi esclusivamente insegnata a persone socializzate donne), o il mandolino – strumento del virtuoso e poeta Giovanni Vailati (1815-1890) – il canto, i fiati o gli archi, ma soprattutto l’organo.
È estremamente complesso rintracciare le ragioni per cui l’organo sia stato lo strumento più studiato dalle persone con limitazioni visive in Europa: la maggior parte degli strumenti, essendo progettata per persone vedenti, risulta di difficile utilizzo in mancanza della vista e verrebbe da pensare che strumenti come i flauti o la voce umana abbiano dei vantaggi maggiori rispetto a macchinari complessi come l’organo – soprattutto quello dell’ottocento, che richiede a prescindere assistenza per la messa in funzione e l’utilizzo.
Con buona probabilità, la tradizione di insegnare strumenti a tastiera, e in generale di rendere centrale la musica nell’istruzione dei ciechi, nacque grazie al contributo che Maria Theresa von Paradis (1759-1824) – pianista e organista viennese contemporanea di Mozart di cui parleremo in un secondo articolo – diede a Valentin Haüy nella strutturazione dei corsi del primo Istituto per Ciechi, aperto a Parigi nel 1785. Queste istituzioni erano spesso vicine a quelli di carità cristiana – per la cui liturgia l’organo era assolutamente fondamentale – e forse, in aggiunta alle ragioni di questa predilezione, poteva essere stato d’ispirazione di Francesco Landini.
Fra le personalità musicali forse più influenti per la fondazione dell’intera cultura musicale europea vi fu infatti questo musicista fiorentino, vissuto fra il 1325 o 1335 e il 1397, che oltre ad essere un virtuoso dell’organo portativo era polistrumentista ed inventore di strumenti, nonché poeta e organista ufficiale per alcune cattedrali, a Firenze – soprattutto San Lorenzo, dove è sepolto – Venezia e in Italia settentrionale.
Era il maggior esponente dell’Ars Nova e nonostante fosse impiegato come organista ecclesiastico si produsse principalmente, stando a quanto ci è pervenuto, in composizioni laiche, le quali vengono descritte come dotate di particolare dolcezza e maestria armonica – tanto che vi sono formule tecniche che prendono il suo nome, come la Cadenza di Landini.
Il numero di professionisti ciechi in questo settore vissuti fino a tutto il Novecento è pressoché incalcolabile, anche perché, come accennato, lo studio dell’organo viene adottato come strumento didattico prediletto all’interno degli Istituti per ciechi. Queste erano scuole specializzate, che iniziarono a fiorire in tutto il continente fra diciannovesimo e ventesimo secolo, dove si insegnava agli studenti, solitamente molto giovani, ogni tipo di attività culturale o pratica che fosse ritenuta adatta per una loro futura professione.
Queste realtà, non sempre luoghi di grande serenità per gli studenti/residenti, furono tuttavia il luogo dove per molti ebbe inizio una carriera musicale: questo avvenne ad esempio per diversi degli iscritti all’istituto di Milano e di Parigi – due fra le numerose istituzioni esistite in tutta Europa.
Fra gli organisti e professionisti in ambito musicale formati all’Istituto di Parigi, molti divennero titolari di cattedre al Conservatoire o di posizioni stabili fra le istituzioni più importanti della Francia, come accaduto per esempio a Louis Vierne, che oltre alla sua carriera come compositore fu organista stabile di Notre Dame (tutt’oggi una delle posizioni più ambite del mondo).
In questo Istituto studiò fra gli altri lo stesso Louis Braille, che fu organista discreto e che qui strutturò una versione del suo metodo di scrittura/lettura specifico per il linguaggio musicale tutt’oggi in uso – il cui funzionamento verrà approfondito nel prossimo articolo.
A dimostrazione di quanto, per i pionieri della didattica per ciechi, fosse importante questo strumento, è da sottolineare che in Italia il primo organo destinato ad una sala da concerto, ovvero non inteso per la liturgia, fu eretto proprio all’Istituto per Ciechi di Milano nel 1901. Qui l’istruzione musicale è stata davvero centrale nella didattica, al punto che, anche quando gli allievi non mostravano interessi spiccati per la professione musicale, lo studio di questa disciplina restava comunque obbligatorio, anche se in misura più contenuta.
Non Solo Goze
In un sistema che ricorda quello degli Spedali, dove al termine degli studi le allieve spesso decidevano di restare per formare le generazioni successive, fra gli insegnanti degli istituti per ciechi vi erano molti ex allievi e allieve, unitamente a docenti dei Conservatori vicini, che vi lavorano a titolo gratuito. Ovviamente la musica non era l’unica delle attività, e buona parte di queste era differente, come avveniva Milano, per ragazzi e ragazze.
Da un punto di vista culturale, fino al Secondo Dopoguerra la presenza di donne cieche “in società” era malvista e il modo in cui veniva costruito il loro percorso negli Istituti ne era una dimostrazione. La maggior parte delle attività manuali che vi si insegnavano divergeva fra studenti e studentesse e anche gli strumenti musicali venivano scelti in base a questa differenziazione: anche se tutti erano polistrumentisti e in parte pianisti, l’organo veniva insegnato ai ragazzi, l’arpa alle ragazze – in base ad una ormai sorpassata etichetta per cui vi fossero strumenti maschili e strumenti femminili. Un esempio in questo senso, di interesse ad oggi crescente, fu quello di Antonetta Banfi (1832 -1869), una dei due primi studenti iscritti all’Istituto di Milano, arpista e compositrice.
Una volta terminati gli studi tuttavia la maggior parte delle allieve veniva scoraggiata dal perseguire una carriera musicale – o una carriera quale che fosse – mettendole in condizione di decidere, più o meno autonomamente, di restare per sempre negli istituti, come insegnanti o come ospiti. Questo perché si riteneva che non dovessero neanche costruirsi una famiglia e, seguendo la definizione di alcuni studi, l’imposizione di non avere figli rasentava in certe occasioni l’eugenetica.
Per questo in alcune delle città nacquero anche scuole dedicate alle sole studentesse, dove l’istruzione potesse essere formante per ogni aspetto della vita e finalmente libero da limitazioni. Fra i casi più celebri di lotta a queste ingiustizie vi è quello di Marie Aimée Régnier, che nel 1900 aveva ottenuto, dopo anni di battaglie, il permesso di vivere fuori dall’istituto in cui insegnava e che col tempo aveva creato circoli culturali e sociali dedicati alle donne cieche, nei quali peraltro si costituì il primo nucleo di femministe disabili.
Un aspetto fondamentale della storia degli Istituiti per ciechi che dalla letteratura dedicata traspare forse troppo poco, risiede come accennato nel contributo che Maria Theresa von Paradis diede alla strutturazione di quello di Parigi: questo fu possibile grazie all’esperienza che questa aveva non solo in quanto cieca ma anche in quanto insegnante. Lei stessa nel 1808 fondò un istituto, nel quale la musica era l’unica materia di studio e il corpo docente era composto quasi esclusivamente da ragazze.
Per approfondire:
Vedere il suono, sentire l’invisibile, L’educazione musicale all’Istituto dei Ciechi di Milano – La Decima Sifonia, Lorenzo Pusterla, 2025.
F. Vezzosi – Francesco Landini “il cieco degli organi”, 2003; Alfredo Santocci – “Il suono delle cose”, 2024. UICI
Marina Julienne – Femmes aveugles : une histoire à écrire – 2024
Piluccai Carrer – Un repertorio di compositrici nell’editoria italiana del XIX secolo, CIDIM, 2016
P. Origgi – Elogi e sonetti ispirati dalla musica del grande mandolinista Giovanni Vailati: “detto per gloria il cieco di Crema” o “il Paganini del mandolino”



