Fa un caldo boia.
Un caldo insopportabile, nonostante i ventilatori, i ventagli che si alzano e si abbassano, e la gente che si spruzza acqua sul volto, intrappolati in comode poltroncine rosse, in file decisamente troppo ravvicinate per la stagione. Un tizio si aggira tra la balaustra e il palco, e ogni tanto grida “Monsieur Bobiceck! Monsieur Bobiceck!”. Non capisco cosa sta succedendo, se non che il mio culo si è attaccato alla poltrona.
Del resto, il teatro è un’esperienza che comporta qualche rischio. Il teatro è ricerca, e io sto cercando di capirci qualcosa. Il fatto che non sappia il francese non aiuta. Mi consolo vedendo che anche chi sa il francese ci capisce poco, e infine Google mi conforta dicendomi che lo spettacolo a cui sto assistendo è teatro dell’assurdo. Questo l’avevo capito.
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Qualche tempo fa abbiamo pubblicato la recensione a Viale delle Varesine, uno degli ultimi spettacoli di Studio Novecento. Avevamo già visto quest’opera alla 37esima edizione dei Rencontres du Jeune Theatre Européen, che si tengono ogni anno a giungo, e che si propongono appunto di presentare un teatro di ricerca, al di fuori delle accademie e del meinstream. I Rencontres sono un’esperienza davvero peculiare, e quindi abbiamo pensato di parlarvene in modo più esteso, al di là della recensione di un singolo spettacolo.
È davvero raro vedere un festival così longevo, così partecipato, che raccoglie giovani da tutta Europa (e a volte anche al di fuori, dalla Tunisia e persino dal Canada e dal Vietnam). È raro anche trovare un festival realizzato dagli attori per gli attori, con workshop e discussioni di gruppo sugli spettacoli. Tuttavia, la porzione di festival che abbiamo potuto vedere ci ha fatto sorgere delle domande sul teatro oggi. Per quanto probabilmente non siano rappresentativi del teatro europeo, i Rencontres sono infatti un appuntamento importante e soprattutto volutamente in controtendenza: il teatro che si vorrebbe presentare è un teatro di riflessione, un teatro volto non a stupire o emozionare fugacemente, ma a cambiare, a mutare l’osservatore. Questo, crediamo, è stato l’intento di Fernand Garnier quando nell’88 o giù di lì ha dato il via per la prima volta al festival, invitando persino un gruppo polacco prima ancora del crollo della Cortina di Ferro.
Inoltre, si distinguono per essere una manifestazione pensata molto più per gli attori che per il pubblico. Questo è un fatto sicuramente positivo in un mondo in cui i festival sono delle semplici rassegne in cui si presentano gli spettacoli: il Fringe Festival, per esempio, è una realtà molto ampia in Italia, molto partecipata ma usata più come vetrina che come veicolo di un dibattito vero e proprio. I Rencontres, invece, sono molto più di questo: sono un luogo innanzitutto di formazione per gli attori, e in particolare i giovani (non a caso il titolo si riferisce proprio al “giovane teatro europeo”), attraverso dei workshop, che condurranno poi a un grande spettacolo collettivo di chiusura; è poi un banco di prova per gli spettacoli, e un luogo di dibattito: forse l’aspetto più interessante sono i café debats (caffé-dibattito) dove le varie compagnie si ritrovano e commentano le rappresentazioni della giornata precedente.
Questo è sicuramente ciò che manca nella società attuale, in cui c’è tantissima offerta di opere, ma pochissimo commento, pochissima critica. L’opera d’arte – che sia un libro, un quadro, uno spettacolo o un film – generalmente si fruisce, si consuma, ma raramente la si commenta, e quasi mai la si commenta dal vivo, in gruppo. Scioccati dall’iper-inflazione del dibattito degli anni settanta (resa iconica da Nanni Moretti con la battuta: “No! Il dibattito no!”) negli ultimi decenni abbiamo espulso il dibattito come strumento di arricchimento dal nostro orizzonte culturale. Sono pochi i casi in cui c’è una comunità abbastanza forte da fare veramente critica (che resiste solo nel mondo cinematografico e in poco altro); pressoché nulli gli spazi in cui chi ha preso parte all’opera può discuterne apertamente con gli altri. Al tempo stesso, però, ci è sembrato che gli stessi partecipanti dei Rencontres sottovalutino molto l’importanza di questi momenti: la discussione infatti è condotta o con commenti di circostanza, o con critiche che però non risultano essere realmente costruttive. Molto spesso i commenti più interessanti vengono fatti al di fuori del momento ufficiale, nei dialoghi tra gli attori e i registi delle compagnie, e questo purtroppo mostra come ci siamo disabituati al dibattito pubblico.
Inoltre, sembra che i nobili intenti di Fernand Garnier si siano in un certo senso affievoliti. Non abbiamo potuto assistere a tutto il festival, ma dei sette spettacoli che abbiamo visto, solo tre erano veramente degni di nota (ne approfondiremo due nei prossimi articoli, quello di Studio Novecento e quello del Teatro di Francoforte sull’Oder). Gli altri, invece, non ci hanno convinto: o partivano da opere interessanti ma si perdevano in cascami e ripetizioni (come quella del Monsieur Bobiceck, che doveva essere un incontro tra lo humour ebraico e il teatro di Beckett e Ionesco), oppure partivano da presupposti estremamente esili: il trofeo di questa categoria per noi va alla compagnia rumena, che è riuscita a mettere in scena uno spettacolo sulla preistoria con Neanderthal dotati di wi-fi e Sapiens cannibali che guardano la televisione con un Windows ‘98.
La difficoltà, forse, sta nel fatto che, a parte i tre spettacoli di cui sopra, gli altri erano tutti commedie. È molto più difficile emozionare attraverso la risata, in quanto il riso varia di epoca in epoca, di luogo in luogo. Tuttavia, secondo noi, il problema non sta tanto in una distanza culturale, o linguistica, quanto nel fatto che tutte queste commedie, dalle più divertenti – almeno nelle intenzioni – a quelle che volevano comunque far riflettere e fare denuncia sociale, si rifugiavano nel grottesco: personaggi stilizzati ed esagerati; situazioni paradossali; comicità grossier ed esagerazioni fini a se stesse, con il solo scopo di far ridere. Così come le commedie americane dagli anni ‘80 in poi sono impensabili senza la categoria dell’imbarazzo, o come il cinepanettone era impensabile senza allusioni sessuali e volgarità, così sembra che il teatro comico sia inscindibile da una rappresentazione volutamente esagerata e deformata della realtà.
Certo, il genere comico lo prevede: è nel suo statuto, nella sua essenza. Non serve andare agli albori della satira per sapere che questa si fonda sull’eccesso, sulla sovrabbondanza. Eppure questa è una carta fin troppo giocata, e non solo ai Rencontres: sembra che non ci sia compagnia, specie nelle accademie, in grado di fare buon teatro comico senza calcare sul trash, sul kitsch, sulla strizzata d’occhio facile. Inoltre la deformazione della realtà prevede necessariamente una sua stilizzazione, una semplificazione: e il trash non è altro che un’idea ipersemplificata al punto da diventare di dominio pubblico. Il trash è una grande molla dell’era di internet proprio perché è il grottesco ridotto ad icona.
Ma incedere sul trash e sul grottesco, in un’opera artistica, finisce per avere una serie di contraccolpi. Per esempio: se voglio fare denuncia sociale, posso fare un pistolotto di due ore noiosissimo che non apprezzerà nessuno ma che ha dei temi importanti. Questo era, suppergiù, il ragionamento dell’artista medio degli anni settanta. Oggi, invece, l’artista medio che vuole comunque fare critica sociale ha l’ideona: ci metto dentro satira e comicità, così il comico stempera il noioso e siamo tutti contenti. Prendendo ad esempio la storia di un altro spettacolo dei Rencontres, che poteva essere molto buono e invece ci ha lasciato l’amaro in bocca, immaginiamo un gruppo di persone povere che è costretto, per varie ragioni, ad abbandonare la loro casa. Potrebbe risultarne una storia molto drammatica, ma mettiamo di voler invece fare una commedia. Come facciamo a far ridere? Una soluzione buona sarebbe quella di soffermarci su tutte le difficoltà, le debolezze e le incapacità dei protagonisti, in modo da creare una serie di situazioni sempre più divertenti, fino ad arrivare al parossismo.
Il rischio, però, è di spezzare completamente l’empatia nei confronti dei nostri protagonisti, che diventano quindi un mero pretesto per ridere. Così, dalla denuncia si arriva alla presa in giro, al motteggio di una categoria o di una classe sociale. Ma, anche immaginando di non spingerci così in là, ciò che ne risulta irrimediabilmente compromesso è il patto narrativo, che forse è la vera questione sull’arte degli ultimi anni.
Se andiamo a vedere, infatti, la produzione cinematografica, teatrale o narrativa degli ultimi anni, la troviamo nettamente scissa in due filoni: uno estremamente ligio al patto narrativo e ai principi cardine dello storytelling, e uno invece sperimentale, maggiormente libero e anarcoide, ma anche più freddo, cerebrale e distaccato. Il primo è quello delle serie tv, di manga e anime, di libri di enorme successo come i romanzi di Elena Ferrante, e così via: un metodo sicuramente efficace, che sconta però il tributo di una poca originalità. Il secondo è quello che vediamo appunto nel teatro e nel cinema comico, nel romanzo sperimentale, in un certo cinema d’autore in generale in tutte le opere marcatamente postmoderne: un metodo che ricerca l’originalità, indubbiamente, ma che paga lo scotto di essere dis-incantato, di non credere mai fino in fondo alla storia che sta raccontando. E questo è uno scotto duro da pagare, al punto che nessuno spirito sperimentale e anarcoide può essere sufficiente a colmarlo.
Il trash e il grottesco a teatro, in fondo, non sono altro che l’ipersemplificazione di questa tendenza post-modernista, e contribuiscono a una continua messa in crisi del patto narrativo, una messa in crisi che, dopo trent’anni di letteratura in questo senso, non ha più nulla di sperimentale o di progressivo. Oggi non viviamo più in un’epoca idealistica, in cui l’eccesso di misticismo spopola: al contrario, viviamo un’epoca materialista in senso deteriore, un’epoca già di per sé disincantata e disillusa. Accorgerci, dunque, di essere a teatro, di assistere a un’opera fittizia, vedere il personaggio ma anche l’attore, ma anche lo sguardo critico del regista, ma anche l’artificialità di ciò a cui stiamo assistendo, non è più un atto critico, ma diviene un atto distruttivo. Il nostro problema non è più il credere all’illusione, ma la capacità di costruire alcun tipo di illusione.
Ecco perché il teatro, in quanto unione di corporeità e spirito, unione di visibile e invisibile, di individuo e gruppo, dovrebbe essere un’arte centrale per la nostra società, e non dovrebbe essere appiattito sul genere, sui porti sicuri, sulle facili soluzioni.
I Rencontres sono stati un’esperienza preziosa per accorgerci di tutto ciò, e per capire che il problema principale, oggi, non è tanto l’offerta di teatro: teatro buono ce n’è, ce n’è tantissimo e ovunque, a Milano come nelle valli alpine, come in Francia, in Germania e, per quanto possiamo immaginare, molto oltre la nostra Europa. Il problema è l’incontro e lo scontro fra modi diversi di intendere il teatro; il problema è la mancanza di un dibattito ampio, serio e strutturato, che vada oltre la partigianeria per la propria realtà e che metta in relazione attori e professionisti da luoghi diversi. Una realtà come i Rencontres servirebbe molto a Milano, dove esistono centinaia di compagine teatrali e pochissime occasioni di scambio e confronto.
Sappiamo che è difficile, sappiamo che a Milano gli spazi si stanno riducendo, le associazioni e le compagnie vivono in grandi ristrettezze, eppure se non ci sono incontri e dibattiti, oltre che semplici “vetrine”, la situazione non potrà che continuare a deteriorarsi. Avere momenti di confronto, in cui dibattere diverse idee di arte e teatro, momenti di formazione tra professionisti di provenienze diverse, con differenti approcci, non può che arricchire la scena teatrale e artistica della nostra città.
E, comunque, continua a fare un caldo boia.






