LA CONTEMPLAZIONE

Introduzione n. 36

Raggiunto il punto di fusione nel numero precedente dal titolo: Il Crogiolo – uscito in occasione dell’anniversario per i dieci anni della nostra rivista – e contrassegnato da questo calderone dove le energie hanno raggiunto la temperatura più elevata, è ovvio segua un momento più riflessivo, autunnale, in cui a freddo si osserva l’operato per poi guardare avanti. L’I Ching propone allora il tema della Contemplazione.

In cinese e giapponese, l’ideogramma che significa “giorno” e “luce”, e che funge da radicale a moltissimi termini di uso quotidiano, è rappresentato da un occhio stilizzato (), a richiamare l’idea costante di una visione alle spalle dei fenomeni. Quest’occhio si erge però al di sopra di essi, nella forma del simbolo che l’I Ching usa per raffigurare la Contemplazione, ossia quella di una Torre (disegnata da quattro linee Yin alla base e due linee Yang in cima). È la chiaroveggenza che si innalza nella posizione degli stiliti, gli eremiti in cima a una colonna che facevano astrazione dal mondo per osservare le verità dall’alto. Tuttavia, il Libro dei Mutamenti smussa il rischio di presunzione specificando che il tema «da un lato significa il contemplare, dall’altro l’essere visto», come nello scambio di occhiate dell’abisso nietzscheano. La ferrea torre di panopticon, nel privilegio del guardiano/spia di passare inosservato, viene così distrutta ed esautorata esattamente come nella torre dei tarocchi, con un fulmine che abbatte l’alterigia del torrione babelico.

Il gioco di sguardi dissolve il senso unico della vista. È la maschera sulla nuca indossata nei villaggi indiani per evitare l’assalto alle spalle delle tigri. È la metafora delle Upanishad che paragona l’anima a una coppia di uccelli sull’albero del pippala, dove uno va a mangiare il frutto e l’altro resta indietro a guardarlo, e che tradotto significa che ogni nostra azione è accompagnata da un’istanza speculativa che osserva di lontano, giudica e racchiude la coscienza.

Va da sé, a questo punto, che la Visione di cui parla l’I Ching sia «un raccoglimento interiore, quale lo produce la contemplazione religiosa». La meditazione di visione è effettivamente uno degli stati della dhyana buddhista, in cui al praticante viene proposta una serie di esercizi durante i quali deve allenarsi a focalizzare lo sguardo interno su oggetti capaci di fissare la coscienza, come ad esempio un disco di colore blu. Questo sguardo rivoltato, che accende una nuova pupilla accecando la cornea, si racconta anche in un noto mito di Shiva, secondo il quale la divinità, straziata per la morte della sua consorte Sati, abbandona le vesti guerriere per farsi monaco, chiudendosi in meditazione. Kama, dio del piacere, armato di arco come Cupido ed Eros, viene incaricato di scagliare una delle sue frecce contro il temibile Shiva per farlo innamorare di Parvati (reincarnazione di Sati), ma Kama indugia molto a lungo prima di scoccare. Shiva, turbato nella sua ascesi, tiene le palpebre serrate e schiude il famoso terzo occhio con cui incenerisce il povero Kama, da allora soprannominato “il senza corpo”. Da allora, il tapas (“calore”) sarà uno degli attributi dei discepoli in cammino ascetico.

Insomma, l’atto di vedere senza guardare, l’atto di scorgere ad occhi chiusi reso simbolico dai rapsodi dell’epica (come il cieco figlio di Vyāsa, compilatore del Mahābārata) riporta a una dimensione molto orientale resa del tutto iconica dal famoso haiku di Matsuo Bashō: Piove e c’è nebbia / il Fuji non si vede / è un buon giorno, per la forza con cui rende dignità alla sacra bellezza della montagna proprio per la sua parziale invisibilità, per la presenza chiaroscurale simile alla luna.

Per tornare infine alla Cina dell’I Ching, uno degli autori che meglio ha saputo appropriarsi di questa visione mistica e interiore fu il pittore Shitao, vissuto durante la dinastia Qing, il quale fu capace di fondere il proprio sguardo pittorico con le istanze del credo taoista, nell’uso dei vuoti e dei bianchi a significare uno sguardo in negativo in cui risalta ciò che non c’è grazie ai pochi tratti di contorno. Egli scoprì che alla condizione della non-mente (wúxīn), si perviene grazie all’utilizzo del non-inchiostro (wubi) e del non-pennello (wumo). Fu un rivoluzionario dello sguardo e anche a lui calzano le parole che Huysmans spese per descrivere l’ossessione visiva di Cézanne: «Un artista  dalle  retine  malate,  che nella  sua  esasperata  percezione  visiva scoprì  i prodromi di un’arte nuova».

Autrici e autori

  • Federico Filippo Fagotto, direttore editoriale della rivista La Tigre di Carta, presiede l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Appassionato di scrittura, pubblica nel 2021 il suo primo romanzo: L'invenzione di Casares (Bookabook Editore), cui seguono Flæsh (Santelli Editore, 2024) e, in prossima uscita, Rever (Do It Human Editore, 2025).

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