La bombetta scura si attesta sull’attaccapanni all’ingresso.
Ismahil la indossa solo nelle occasioni importanti, insieme al suo gilet monopetto, quando gli tocca andare in chiesa, a un funerale o dal medico. Il nuovo dottore si è accorto che molti lo vengono a trovare in ghingheri, qui alla piccola clinica assegnatagli, come offrisse sacramenti o aruspicine.
Invita l’uomo alla poltrona, contemplandolo per un attimo riempirla interamente. Ci affonda con tutto il suo corpulento giocattolo d’ossa, sangue e muscoli, e mentre sprofonda lui ripensa alla parola sub-sahariano che ha letto qualche giorno fa sulla cartina mentre cercava di orientarsi per capire dove fosse capitato, fin dove l’avessero spedito. E quel “sub” navigando nella testa prese le forme della sua nuova esperienza africana, un’immersione a volo su un fondale che, per quanto incredibile, come tutti gli habitat alieni spande una miscela diversa e qui tutti hanno le branchie e tu sai che prima o poi dovrai uscirne, tornare a galla, sperando basti l’aria nella bombola.
Raccogliendo un respiro, Hermes intavola il breve incontro con il signor Ismahil Mwanza atterrando sul suo morbido inglese orecchiabile, più chiaro e spedito di quello degli scorsi pazienti.
Con atto buffamente formale, Ismahil si presenta quasi fosse sotto inchiesta, ripetendo ancora il proprio nome e informazioni sparse su di sé e la famiglia che manco un nastro registrato. Educazione britannica, indovina Hermes, mentre l’uomo flette la voce per scartare dalla filastrocca a ciò che gli sta davvero a cuore, come quando la barca esce dal porto e deve spiegare le vele a mare aperto. Intus et in cute, comincia dai sintomi per tentar di superare la membrana. Prurito, gonfiore, umidore, spasmo.
Su varie zone del corpo?
No, tutto lì dottore.
E questo dopo aver avvertito quel rombo e il pizzico portato dal vento sulla pelle, esatto?
Tutti quanti la stessa identica storia, pensa, che diavolo sta succedendo? Chiede quante volte si sia verificato.
Una volta sola, dichiara Ismahil.
Hermes è dubbioso. Quando vengono da lui dopo una sola occorrenza, nove su dieci sono ipocondriaci. Effetti collaterali?
Non direi, cincischia l’uomo, e poi aggiunge: almeno non fisicamente.
Che intende dire?
Nessuno degli altri, durante la visita, ha mai varcato questo bordo. Ah non so, il medico è lei! Reclamavano di solito. Mi guarisca e chiudiamola qui, insistevano pure, contraffacendo pesanti quantità d’imbarazzo.
Ismahil invece azzarda nuotare senza sponde. Svela che il vero problema è quanto accaduto dopo, a lui e al suo collega. Hermes ripete quell’ultima parola con un punto di domanda. Gli viene spiegato che fanno da guardie a un grosso parco naturale, il Kidepo, metà ugandese metà sud sudanese, anche se lì è meglio non andare. Tutti i giorni, stessa ora, a impigrirsi aspettando visitatori inesistenti poiché i turisti non si spingono fin là e per i locals l’elefante e il bufalo sono più una minaccia che pezzi da museo, sebbene al Kidepo stiano belli comodi con quasi millecinquecento chilometri quadrati non recinti.
E proprio in uno di quei caldi e selvaggi ozii ecco che tuona a ciel sereno e ci si sente le termiti addosso e ciò che fino a quel momento è sempre stato soltanto un collega diventa qualcos’altro.
Per la prima volta si siede anche il dottore, un po’ sperso. Rifà l’eco dell’ultimo brano: Qualcos’altro?
Qualcosa che vuole toccare, dottore, ha presente? Che vuole vedere meglio, che vuole incontrare coi sensi!
La bocca di Ismahil tende ad aprirsi, a lasciarsi andare, e gli occhi per reazione a chiudersi nella vergogna.
Forse sarei riuscito a fermarmi, balbetta, non mi fosse stato chiaro che anche Gideon lottava con sé stesso.
Gideon?
Il mio collega.

I suoi tendini si fanno d’acciaio mentre confessa pian piano la mondezza carnale che l’ha sopraffatto, quasi il corpo volesse impedirglielo. Hermes glieli ammira fibrillare sotto pelle quei tendini, come serpenti intrappolati, stupendo di una rivelazione venata di pericolo con chiunque altro non gli fosse stato estraneo come lui, cioè, in un piccolo villaggio come quello, praticamente nessuno. Si sente insignito più da strizzacervelli che come dottore, e ormai gli è chiaro che lo psicologo è l’esatto punto di raccordo fra un medico e un prete, è colui che maneggia la strana ghiandola d’interstizio fra soma e spirito.
Non lo dirà a nessuno, vero dottore?
Vedendolo in frantumi, Hermes inizia a rendersi conto che c’è qualcosa di simile fra questa assurdità e i motivi per cui la maggior parte dei suoi pazienti è sempre venuta in passato per farsi visitare, tutti legati in qualche modo alla morte.
Certo, qui non si rischia la vita, anzi, ma si affronta pur sempre qualcosa che concerne l’aldilà, e cioè l’ignoranza, qualcosa contro natura se natura è sinonimo di vita. E chissà come mai, anche in questo caso, come in fondo da quando ha iniziato a trasformarsi lentamente in un medico vero – uno che non manda più tomi a memoria ma fronteggia corpi scoperchiati e sguardi invocanti difesa legittima, – si sente sottilmente in colpa, come un sottofondo continuo che ha trovato humus nella sua professione ma che, se ci pensa bene, esisteva forse anche prima. Forse dipeso dal dogma del successo inculcatogli dal padre e che fa della morte, effettivamente, un enorme insuccesso se la si vuole interpretare così. E dunque, di rimando, è morte ogni sconfitta che minaccia studi, carriera, sesso e identità.
Ricordati, si corregge ora fra sé per bardarsi la coscienza dall’ammissione liberatoria di quell’uomo che gli si disarma dinnanzi agli occhi, non sarai mai responsabile della tua morte.
In cima alla sua testa, i capelli rasta sono quelli di un uomo che ha eroicamente e stupidamente preferito morire piuttosto che amputarsi un alluce, e così tutti i martiri e i suicidi, ma non bisogna confondere il come morire dalla morte in quanto fatto assoluto. Per chi capisce che quella faccenda non ci riguarda, la colpa svanirà.
Hermes si risveglia in un soffio di sollievo, in tempo per tornare nei suoi panni e fare eccezione al segreto deontologico.
Guardi che da quando si è diffuso il fenomeno, chiamiamolo così, tutti gli altri pazienti mi hanno raccontato la stessa storia. Sono stato chiamato qui per questo.
Gonfiando il petto, Ismahil inala quel soffio di sollievo e riapre il dilemma.
No dottore, mi scusi, io veramente intendo un’altra cosa.
Mi dica.
Che mi è piaciuto…
L’uomo scivola dal bilico e non può fermarsi.
Intendo che da quando ho peccato non penso ad altro! Guardo i miei amici con strani desideri e anzi, scopro che forse li ho sempre guardati così.
Affiora un silenzio in cui cercano entrambi di rialzarsi. Ci riesce per primo Hermes, forte del camice bianco che si sente indosso, pur ricolmo di fragilità.
Crede allora di star capendo chi è davvero, Mr Mwanza?
Mi chiami pure Zimwi.
L’uomo inverte il rilievo delle labbra per mimare il suo dubbio.
Dottore, nel nostro paese non è molto importante chi sei, una volta mantenuti certi doveri quella cosa è risolta. Ma io ho sempre saputo che c’era un piccolo demone che mi distraeva e finora l’ho sbiancato, temendo mangiasse la mia identità.
Hermes vorrebbe chiedergli se parla di un demonio o di uno spirito pagano e qual è la differenza, ma decide di non interromperlo, lanciato com’è nei primi vagiti di antichi muti pensieri.
Invece adesso, continua Ismahil, ho capito che il demone non ha mai tentato di distogliere la mia identità dalle sue illusioni.
Quali?
La famiglia, la fede, il matrimonio.
Hermes nota l’anello al suo dito.
Quindi è tutto il contrario, avanza Ismahil, È il demone che non ha mai osato chiedere nulla e così non è mai esistito.
Deglutendo saliva, Hermes torna a fissare la gabbia toracica di quell’uomo, colma d’ansia possente.
E ha fame adesso? Gli domanda con la voce un po’ vitrea.
Ismahil si piega su sé stesso per cercare la risposta.
Non sa nemmeno cosa sia l’appetito…
Sembra un busto di Rodin, scuro come quello stesso bronzo che non pensava di emulare etnie lontane. Il calore si accentua, diventa sudore. Il torso di Ismahil sviluppa lunghi respiri incontenibili.
Accertandosi con un’occhiata che la porta del suo studio abbia la chiave nella serratura, Hermes ascolta qualcosa nel suo cuore che sempre più forte rimbomba.



