LA BOMBA GAY (Parte 8)

Come si dirà in inglese: scoppiare di salute?

Alla fine lo rassicura in modo più standard, trovando sulla cartella il nome del paziente in tempo per chiudere la frase.

Take care Mr Juma!

È un omarino gradevole e impensierito dal suo problemino, nient’altro che un leggero varicocele, ma nelle mutande qui si sta sul chi vive e ogni anomalia rasenta il Mayday. Sincera stretta di mano, senza paura del tatto.

Nice name anyway.

Il keniano si rallegra. Juma significa giorno, spiega, oggi è Jumapili, domenica. Non è andato in chiesa, dottore?

Lo rassicura anche su questo, per fortuna ignora che Hermes non è un nome battesimale. In ogni caso sempre a disposizione, il dispensario è aperto anche nel week end. Il paziente ossequia e chiude la porta con garbo.

Il sole abbassa i toni e termina quella domenica in un caldo tramonto, si indovina invernale solo perché sono le sei di pomeriggio. Fuori dalla finestra del suo nuovo sfornito ambulatorio, lettino ad angoli sdruciti, armadietto con qualche blister di facciata e un poster sulla prevenzione di ebola, colera e malaria a ritratto del lavarsi le mani come un gioco di prestigio, getta il nugolo di baracche che condensa il compound di Mathare. I raggi di sole fanno trampolino sull’eternit. In quell’enorme frasca di spine, il Bomu Medical Center sta come l’uccellino che fa il dentista al coccodrillo e di intere carcasse di guai può ripulire solo le briciole.

Ambientarsi non è stato per niente immediato. Nairobi è una pioggia di meteore, è un quadro di Cranach, una diafonia di clacson. Le piccole creature bambine se la cavano meglio delle grosse, i piccoli suoni si fanno largo più facilmente nel frastuono, come il trillo del telefono fisso sulla sua scrivania.

Gli fa strano posarsi la vecchia cornetta all’orecchio, lo faceva alle elementari, le voci laggiù erano fantasmi.

All’altro capo un certo Baba Dominic, i referenti dei Medical Care qui sono quasi sempre parroci, se sanano l’anima figuriamoci il corpo. Similia similibus curantur. Ringrazia per il lavoro speso finora e chi fra le nuvole ha mandato loro uno come lui.

Amina! Infioretta Hermes, che ormai si destreggia nei loro giri a vuoto linguistici.

Si trova bene nella slum?

Ci si adatta.

Non vorrebbe gettare uno sguardo ai villaggi? Sono la radice del baobab.

Non è ben chiaro se si tratta di una sorta di test, per sicurezza risponde di non sentirsi esattamente un turista.

Affatto, ripara il Baba, affatto! Anzi, sempre lassù si disegna di inviarlo in soccorso laddove c’è bisogno. Hermes è indeciso se chiedere prima dove o perché. Ci pensa Baba Dominic prendendola sempre larga. Di preciso nel Karamoja, una regione ugandese al confine col Sud Sudan. Il visto e altra burocrazia non saranno un problema, è già in piedi un’internship con la sede di Kampala, e poi la diocesi di Moroto è ben radicata, saranno felici di accoglierlo.

Radici, pensa Hermes avvisando qualcosa di amaro nel silenzio che gli lascia per giungere al punto.

Un’epidemia, rivela infine il Baba.

Di cosa?

Non si capisce, perciò lei sarà prezioso.

Sintomi?

Spiegheranno meglio di persona i confratelli, il telefono non è un confessionale.

Lambire il peccato lo lascia per un attimo di sale, c’è una scienza imbavagliata che gli fa le tabelline in testa e non sa come rispondere. Il Baba menziona gli extra che gli verrebbero accordati, i quadri clinici confidenziali e altri aspetti riguardo i trasporti. Accenna a problemi di igiene, sicurezza e miseria, poi rilassa dicendo che ha tutto il tempo per la sua decisione, pur col tono da rogna urgente. Saluta, benedice.

Amina… replica ancora Hermes per poi riattaccare.

Torna alla finestra impugnando le sbarre. Da che lato è della gabbia?

A Milano i lavori forzati fra i cuscini, qui a piede libero ma coi piedi nudi e senza calli per i sassi. Quando hai un po’ paura di tutto, la volta che ridi, ridi per forza in faccia alla paura. Tanto vale godere dell’incoscienza, fare dell’istinto un grilletto.

La sua lunga infanzia confusa di adolescenza alla fine ha chiamato in aiuto la razionalità, il fabbro delle maschere, con ritardo e concitazione, e perciò le piccole sfide sociali lo intimoriscono più dei veri rischi in cui non ne va dell’io, in cui il bambino gioca in casa, dove lo scivolo è un crepaccio e non una lingua di plastica e se la cava egregiamente. Per lui è come il sesso, il suo segreto, che sta ai rapporti quotidiani come una riserva naturale sta allo zoo.

E allora benvenga, tanto il suo nuovo diktat è dire sì.

Benvengano gli appestati, i peccatori e persino gli scoppiati.

[prosegue…]

Federico Filippo Fagotto

illustrazioni di Diletta Fiore Pappagallo

Autrici e autori

  • Federico Filippo Fagotto, direttore editoriale della rivista La Tigre di Carta, presiede l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Appassionato di scrittura, pubblica nel 2021 il suo primo romanzo: L'invenzione di Casares (Bookabook Editore), cui seguono Flæsh (Santelli Editore, 2024) e, in prossima uscita, Rever (Do It Human Editore, 2025).

Altre storie
Il mio corpo tutto nostro