Una vita d’arte e meditazione
Appena iniziata l’Università ero particolarmente vorace di cinema, cercavo di guardare almeno un film per ogni regista esistente o esistito e, così facendo, conobbi David Lynch. La sua poetica, radicata nella cultura nordamericana, ma allo stesso tempo tanto autoriale, mi colpì al punto che iniziai ad approfondire la sua biografia e tutta la sua opera.
Scoprii così che Lynch nacque nel 1946 a Missoula, piccola città del Montana, e passò l’infanzia sballottolato nella provincia americana, sviluppando uno sguardo analitico verso la natura e le persone che via via conosceva.
Grazie a queste peregrinazioni scoprì la passione per la pittura, l’angoscia per la grande città e tante altre cose che poi torneranno nel suo cinema.
Ma il cinema entrò nella sua vita solo successivamente, il suo grande sogno fu sempre quello di diventare un pittore professionista, sulle orme di Francis Bacon e Oskar Kokoschka, e solo quando decise di regalare movimento alle sue opere dovette cimentarsi con la settima arte.

I primi cortometraggi, ci troviamo a fine anni ‘60, furono folgoranti sia per lui che per chi li vide. Dimostravano un grande talento visionario oltre che la capacità di usare i mezzi tecnici (fotografia, montaggio, scenografia) per creare atmosfere.
E così Lynch iniziò ad approfondire, assorbendo tutto il possibile dalle persone con cui entrava in contatto (alcune delle quali diventeranno sue collaboratrici una volta regista). Si trasferì a Philadelphia, divenne padre e visse quest’esperienza come un trauma ma foriero di suggestioni che torneranno nella sua prima fatica: Eraserhead. Film che Lynch impiegò anni per portare a termine, cosa che avvenne a Los Angeles dove si era trasferito per frequentare l’American Film Institute. Nonostante le difficoltà nel terminare Eraserhead, dovute principalmente a mancanza di fondi, infine il film uscì e dopo un avvio molto difficile divenne un cult nei cinema di mezzanotte. Mel Brooks lo vide, se ne innamorò e decise di proporre a Lynch la regia di Elephant Man, pellicola che gli permise di spiccare il volo.

Seguirono successi (Velluto Blu) e insuccessi (Dune), ma l’opera che fece diventare Lynch famoso in tutto il mondo fu la serie tv Twin Peaks, scritta a quattro mani con Mark Frost. La seconda serie di Twin Peaks fu meno fortunata della prima, ma l’ultima puntata rimane uno dei più alti esempi (se non il più alto) di televisione d’autore.
Da Twin Peaks in poi, iniziò una nuova fase per Lynch, quella del Second Stage Cinema, caratterizzato da opere enigmatiche in cui le filosofie orientali, la fisica quantistica e il cinema di genere si contaminano a vicenda.
L’unica parziale eccezione è rappresentata da Una storia Vera del 1999, pellicola che ha una struttura più lineare rispetto a quella che lo precede (Strade Perdute, 1997) e soprattutto a quelle che la seguono: Mulholland Drive (2001), Inland Empire (2006) e la terza stagione di Twin Peaks (2017), opere d’autore in purezza.

Un aspetto di cui però si parla sempre poco, o su cui si riflette ancora meno, quando si tratta il cinema di Lynch riguarda la sua esperienza come praticante di meditazione trascendentale e che ha, inevitabilmente, condizionato la sua persona e il suo cinema.
Il mio libro (David Lynch, una vita d’arte e di meditazione, 2025, edito da Bietti), vuole appunto sottolineare come un’analisi accurata della sua poetica, non possa prescindere dalla sua storia di meditante benché io consigli sempre, a chi non è particolarmente interessato/a a sviscerare ogni elemento della sua filmografia e a cercare, per quanto possibile, di interpretare il suo cinema (ma anche a quest’ultimi) di godersi i suoi film, soprattutto quelli del Second Stage Cinema. Viverle come esperienze, sospendendo per quelle ore l’ossessione tipicamente occidentale di voler per forza capire razionalmente, lasciandosi così trasportare in quei mondi magnifici, oscuri e conturbanti che David Lynch ha saputo creare per sé stesso e per tutti noi. Per chi volesse approfondire, c’è sempre il mio libro.