La maschera del ristagno

La palude esistenziale in Persona di Bergman

«Ridi delle assurdità del mondo e te ne pentirai; piangi sulle assurdità del mondo e te ne pentirai […] Questo, signori, è la personificazione di tutta l’umana saggezza»

Søren Kierkegaard

«L’uomo è un’enorme palude»

Franz Kafka

È buio. Un anodo e un catodo s’imbiancano gradualmente e inondano l’immagine col bagliore d’un lampo. Fiat lux. Cambio repentino dell’immagine: dettaglio sul ricciolo battente d’una pellicola.

In un montaggio serrato le immagini s’affastellano in un carosello folle: sequenze di pellicole numerate, un cartoon al rovescio, un membro eretto, un brano di film comico, mani di bimbo, una tarantola, un agnello sgozzato, un chiodo infisso a martellate in una mano, vecchi ricoperti fino al collo da lenzuola candide dormono – o son morti? – un giovinetto si sveglia e dopo aver indossato occhiali pone le sue mani su un schermo, sfocato appare un volto di donna…

È l’avvio misterioso e paradossale di Persona di Ingmar Bergman. Misterioso per l’atmosfera onirica che pervade queste scene iniziali, paradossale perché i primi fotogrammi della pellicola mostrano gli elettrodi di carbonio che, anticamente, servivano a generare l’arco voltaico nelle lanterne di proiezione. La paradossalità, il fatto curioso, non sta tanto o solamente nell’accenno meta-cinematografico, il cinema nel cinema, quanto nel fatto che per generare un arco voltaico serve una differenza di potenziale, uno squilibrio fra poli, mentre il resto del film sviluppa il tema dell’indifferenza, della confusione e della sovrapposizione esistenziale di due vite. Due donne che finiscono per amalgamarsi in una persona, in una “maschera” (questo è il significato latino) come due gocce che cadono in uno stagno e si fondono in un unico specchio immoto d’acqua ferma.

Del resto, secondo alcune etimologie la parola “stagno” verrebbe dal greco stagon e significava proprio “goccia”, “stilla”. Come a dire: tra una piccola lacrima di rugiada in equilibrio statico sulla punta d’una foglia e una pozza d’acqua ferma ci sono identità poetiche e concettuali legate alla stasi dell’acqua che, non scorrendo così come in uno stagno, non è più veicolo di comunicazione ma di putrefazione. Anche l’I Ching, nell’esagramma 7 il Ristagno, ci trasmette l’idea che due differenze (cielo e terra) perfettamente bilanciate impediscano la comunicazione e segnino l’avvio d’una fase sterile, esattamente come Persona che dipana, fotogramma per fotogramma, la storia d’un ristagno psichico e esistenziale.

Elisabeth Vogler è un’attrice teatrale – il cognome Vogler ricorre nei lavori di Bergman, spesso è dato a guitti, capocomici che sono l’alter ego del regista – che improvvisamente, durante una rappresentazione, si blocca e smette di parlare. Non aprirà mai più bocca. Ricoverata in un ospedale psichiatrico i medici stabiliscono che però è sana di corpo e di mente e che la sua è afasia volontaria. Elisabeth ha scelto di non comunicare più.

Per aiutare Elisabeth i medici le affiancano Alma, una giovane infermiera, e spediscono entrambe in una casa isolata su una spiaggia. Qui le due donne avviano una relazione intima (manca poco non sfoci in un’unione saffica) ma in cui si stabilisce qualcosa anche di più profondo del sesso: una sorta d’innamoramento, di identificazione reciproca esaltata da una somiglianza fisica; Elisabeth ovviamente non parla, ma agisce molto; si prende cura di Alma, la massaggia, veglia sul suo sonno. Pare sia lei l’infermiera, non l’altra. Alma invece parla moltissimo, racconta anche i tormenti inconfessabili, anche quello che non vorrebbe dire. Le due donne si somigliano sempre di più e, in una sorta di climax, i loro volti arrivano addirittura a confondersi in uno solo.

Tuttavia tra loro non c’è vera comunicazione. Una parla, l’altra non risponde. Una tace, l’altra non ascolta quel silenzio; è troppo concentrata su di sé. Finché l’equilibrio non si rompe e si svela un’altra realtà: Elisabeth è in contatto con la dottoressa che le ha spedite lì e, sebbene non parli con Alma, scrive e alla dottoressa e rivela in una lettera il segreto di Alma: il tormento per il tradimento del marito. Alma trova la lettera e si scopre ingannata. Diventa aggressiva e cattiva nei confronti di Elisabeth. Non è più un’infermiera, è qualcuno che ha bisogno di cure, o forse Alma è sempre stata la paziente che si fingeva terapeuta? Perché quando il marito di Elisabeth compare in casa improvvisamente, finisce poi col giacere con Alma e non con Elisabeth?

Qual è dunque il tema del film? Abbiamo assistito a una messinscena psicanalitica? Oppure si tratta di altro? Per capirlo dovremmo chiederci: perché Elisabeth sceglie l’afasia? Perché sceglie il ristagno? Non è paradossale per un’attrice rinunciare a parlare?

I filosofi, in genere, prendono le mosse per far filosofia proprio da un ristagno concettuale, ossia da un paradosso. Almeno è così per i filosofi old school, non ancora arresi al pensionamento della filosofia, al suo confinamento nel salotto della Scienza, dov’è lasciata a svagarsi con l’enigmistica del pensiero analitico e dove, se parla di paradossi, parla di corda in casa d’impiccati. Per questi filosofi un paradosso è occasione per provare a far compiere alla rana-pensiero un balzo; oplà, via al di là dello stagno del sistema filosofico.

Viceversa gli artisti raramente mettono in conto di poter incappare in problemi senza via d’uscita. Per un artista il ristagno (estetico) è un cul-de-sac da evitare, è il blocco alla sua attività, è la crisi di creatività. Tali eventi equivalgono a uno sguardo nell’abisso, al faccia a faccia con l’abominio, ad Achab che fa segno dal dorso di Moby Dick. È anche un momento di inversione di ruoli. L’artista, specie di spettacolo, che non trova o peggio non può trovare una risposta alla domanda “Che fare?”, diventa lui il personaggio tragico.

In Persona Bergman affronta proprio il tema del ristagno artistico, ma lo fa con un vezzo filosofico a metà tra Kierkegaard e Kafka. Realizza un film paradossale sull’incomunicabilità dell’arte, ma mettendo in scena la storia di un’attrice che rinuncia alla propria voce, strumento principe del suo fare quotidiano, del suo essere artista.

Il tema di Persona è dunque lo stesso di 8 ½ di Fellini: la crisi artistica, anche se Bergman non intendeva certo rispondere a Fellini col suo film. Piuttosto Persona prosegue un percorso iniziato con la Trilogia del silenzio di Dio, dedicata all’incomunicabilità intersoggettiva, spirituale e esistenziale. Prosegue e – come nel Settimo Sigillo e Il Volto – fa il punto sulla strada fatta attraverso un alter ego.

Dopo il silenzio di Dio il silenzio dell’arte? Bergman un indizio lo dà suggerendo un motivo per l’afasia di Elisabeth. Mentre è ancora in ospedale assiste a un servizio televisivo: dei bonzi buddisti in Vietnam si son dati volontariamente fuoco per protesta. Bergman commenta, col montaggio, queste immagini associandole a quelle del ghetto di Varsavia. Come a suggerire che il mutismo di Elisabeth sia una risposta all’orrore, all’odio che pervade il mondo. La domanda che pone Bergman, attraverso Elisabeth, non è più semplicemente “Che fare?”, ma si può fare arte di fronte alla violenza, all’orrore alla guerra? Non è ridicolo mettere in scena un dramma dell’odio, come Elettra, in un mondo in cui dei bonzi si danno fuoco? Da qui il blocco di Elisabeth, la sua autocensura.

Ma Persona offre anche una risposta pessimista a tali domande. È un film sull’impossibilità dei rapporti tra arte e vera vita: Elisabeth rappresenta l’arte che si ritrae per cercare nella vita, in Alma, una via d’uscita all’impasse. Ma Alma rifiuta che la sua vita sia usata, analizzata dalla teatrante Elisabeth. Se l’arte indossa una maschera è per rivelare la verità, per cambiare il mondo. Ma a un certo punto la vita impone all’arte di togliere la maschera, per essere vita, e il corto circuito che alimentava l’arco di luce tra due poli differenti, vita e arte, si spegne. Il buio ristagna.

di Amedeo Liberti

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Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.

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