Le infelici

ovvero: L’incubo delle eroine

I Il nuovo romanzo di Benedetta Barone

Chi sono le infelici? Tantissime persone.

Ma qui la domanda è: chi sono le infelici di Benedetta Barone?

Chi sono le protagoniste del nuovo romanzo edito da Do it human e che offre debutto alla sua autrice?

Prendetevi il tempo per trovare i primi aggettivi evocati dall’infelicità. È probabile non siano quelli scelti in questo libro.

Qui le infelici sono creature presuntuose, delicate, selvatiche. Sono querule, enfatiche, un poco robotiche. Sono sagome di gesso, sono cartonati vuoti e bisogna capire perché.

Queste infelici sono alieni. Non si capiva da dove provenissimo, dicono.

Sono anche simbionti. Trattare il cellulare come fosse un’estensione della mia mano.

Sono disincarnate. Non si era altro che un corpo in mezzo ai corpi, morto, pesante.

Scadono in personaggi (questo l’epiteto che viene attribuito), mentre loro si definiscono genericamente “le altre”.  

Coi loro stessi tratti, disegniamo una sfocata distopica atmosfera. Ma qui non pesa alcun colosso burocratico come in Kafka, non opprime alcun sistema paideutico alla Gombrowicz, nessuna legge di gravità come in Lem, e perciò le soluzioni per scappare non sono né trasformarsi in scarafaggi o topi, né rimpicciolire per tornare bambini, né fuggire nello spazio con una sonda.

La sonda c’è, ma cala dentro di loro. Le infelici restano qua a esplorarsi.

Secondo Carofiglio: «Scrivere è essere qui».

Alfred Kubin, Confessions of a Tortured Soul

L’atto avviene mediante un vero e proprio rituale, che è solo simbolicamente quello di cacciarsi un tubo manometrico in bocca per guardarsi dentro, come fanno nei loro strani ritrovi.

In realtà sono “sonda” anche le loro parole, che all’incontrario trapassano pur sempre la gola. E loro stesse sono “sonda”, secondo me, quando perlustrano spazi urbani, le piazze, i vicoli, come il circuito che fa della città quel grande metabolico corpo.

Crediamo a Moresco, quando sfogliava come bucce di cipolla gli strati della città senza nome, dell’appartamento claustrofobico e delle anatomie di due amanti magmatici. Avviene anche in questo caso: A noi, il tempo aveva murato vive, […] discoteche nelle quali la stessa gente converge da anni […] separata dal resto del mondo da palizzate invisibili.

Si forma un ambiente che procede per rassomiglianze, per coazioni a ripetere, per circoli ermetici. L’eterno uguale è raffigurato dal maschio, abbandonato talvolta dopo asettiche notti d’amore, seguite da vomiti e da nuovi incontri con nuovi maschi che forse erano gli stessi di prima, chissà. Vengono tutti respinti come avessero urtato contro uno specchio.

Georgia O’Keeffe, New York City with Moon

Cos’è insomma questa schivata distopia, un realismo magico? Può darsi. D’altronde c’è un crogiolo di fatti compiuti, rubati dal dettaglio insensato della sonda nel pieno rifiuto di chiarirlo. Le premesse ci sono. Ma forse non è più l’epoca del realismo magico.

Esattamente settant’anni fa, Bioy Casares pubblicava la novella Il sogno degli eroi, dove una ridda di giovani facevano i beoti sperperando soldi in notti d’alcol, dubbio amore e oblio. L’unico a vederci era il Brujo, lo stregone, contraltare di Adelaide, una delle infelici di cui le altre sono tutte un po’ innamorate e che usano da faro per uscire dal buio. Ma qui le notti, ugualmente confuse e allucinate, non vengono profuse con spirito avventuriero, bensì dilapidate. Non è più tempo per l’epica.

Restano solo due alternative: fare come Adelaide e restar chiuse nell’adolescenza, il cui compito non è divertirsi ma sperimentare multiple metamorfosi. Oppure imitare la voce narrante, che prova a uscirne facendo leva sull’unica passione che la tiene a galla: la scrittura. Le infelici eroine non hanno sogni, solo incubi. Tutte tranne una. Una fuoriuscita dalle viscere come un sondino per sbucare con la sua testimonianza.

di Federico Filippo Fagotto

Odilon Redon, Lastra 1 da Edgar Allan Poe

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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