La Dispersione

Il tema di questo numero ha bisogno di un piccolo sforzo d’interpretazione.

Il capitolo dell’I Ching che ci è venuto fuori, infatti, alcune edizioni lo intitolano: La dissoluzione, altre invece: La dispersione. Per essere precisi, l’ideogramma è 渙, che in cinese si legge huàn e contiene il radicale di “acqua” con accanto il segno che indica le grandi quantità. Letteralmente significa: “Grande acqua” ed è spesso tradotto con “inondazione”. Per inquadrare il ventaglio di interpretazioni proposte dagli articoli che seguiranno, vorrei restare a cavallo fra le due ritraduzioni che l’I Ching attua su questa etimologia.

Il significato di “dissoluzione” allude certo anche all’annullamento dell’Io su cui, soprattutto in Cina, si sposeranno bene Buddhismo e Taoismo, soprattutto quando l’I Ching recita che è necessario: «Dissolvere l’egoismo che ci divide». Tuttavia, anziché rimanere nell’ottica molto focalizzata dell’anātman (il non-Sé), conviene partire da una visione più ampia, per la quale l’immagine metaforica di una “dispersione” è forse più evocativa. In Asia, infatti, si contano molti tropi cosmogonici di “dispersioni” creatrici, a partire dallo smembramento del corpo del Purua, il gigante primordiale che nella mitologia vedica crea il cosmo disunendo il suo Io, fino allo sparpagliamento dei pezzi del corpo di Sati, la prima moglie di Śiva, il cui cadavere viene portato nei cieli dal consorte e, laddove cadono a terra alcuni arti, là cresceranno i luoghi sacri dell’India per custodirne le reliquie.

Fa eco il mito che racconta la nascita dell’arcipelago giapponese, le cui isole sorgono in corrispondenza dello spargimento delle gocce piovute dalla punta della lancia del dio Izanagi. Possiamo dire che Izanagi è anche il padre della fertirrigazione!

la dispersione Kali

In effetti, per guardare dietro il mito, pensare alla diffusione dell’agricoltura può essere utile. L’embrione della cultura indoeuropea e indo-iranica, che bene o male abbraccia quasi tutta l’Eurasia, ha imparentato questo macrocontinente su cui viviamo proprio grazie a un atto di dispersione, traverso la transumanza della cultura Kurgan che, dalle steppe del Caucaso, ha migrato ellitticamente fra Europa e Asia Centrale trapiantando ovunque le proprie radici linguistiche.

Il sedentarismo agricolo è stata una delle cause che ha interrotto questo nomadismo culturale, a partire dalla “scoperta” della possibilità di allagare i campi per renderli ubertosi.

Un secondo spread, di tutt’altra schiatta, ha poi avuto luogo verso Est. Parlo di quello dei canoni buddhisti a partire dall’impostazione Mahayana, protesa a estendere il più possibile il nuovo credo: dal lamaismo al pāli sri lankese, dalle correnti del Sudest asiatico fino allo Zen e ai buriati siberiani, la macchia d’olio buddhista è forse il più grande esempio di redistribuzione religioso-culturale dell’intero Vicino ed Estremo Oriente.

A fronte di tali rimescolamenti, com’è possibile che il Paese che dà i natali al tesoro culturale dell’I Ching, cioè la Cina, ad oggi sia contemporaneamente il più popoloso ma anche quello con uno degli indici più bassi di melting pot?

Se infatti la Cina possiede il primato storico di conversione stanziale per aver “inventato” l’agricoltura forse persino prima della Mezzaluna fertile, è pur vero che ha attraversato varie fasi di dispersione politico-sociale, la più acuta durata per più di due secoli nel periodo dei “Regni combattenti” (V-III sec. a.C.), quando il Celeste Impero era frazionato in chefferies in perpetua guerra reciproca.

Jared Diamond, autore del famoso Armi, acciaio e malattie, individua il punto critico negli anni fra il 1405 e il 1433, nelle lotte intestine fra cortigiani e la fazione degli eunuchi, dopo le quali la Cina – forte del recente esempio di resistenza all’altra più grande dispersione etnica avvenuta in Asia, stavolta in armi, cioè l’espansione mongola – si è ulteriormente arroccata su sé stessa compiendo, a suo dire, un suicidio evoluzionistico rinunciando ad acquisizioni tecniche quali: orologi, filatoi ad acqua e molte altre tecnologie che lei stessa aveva inventato. Fu sia un preludio, insomma, dell’autogol novecentesco della Rivoluzione Culturale, che un evento in parte foriero dell’arretratezza cui si presentò l’Impero Cinese nel XIX secolo ai primi contatti con gli occidentali.

la dispersione shiva

Secondo Diamond, la Cina si è privata della grande risorsa che ha avvantaggiato l’Eurasia rispetto agli altri grandi continenti, sancendo la subordinazione dei popoli di quest’ultimi (precolombiani, aborigeni, etc.), e cioè l’orizzontalità territoriale che permetteva a popoli molto distanti di raggiungersi e nutrirsi a vicenda, in virtuosa dispersione, grazie alla somiglianza delle condizioni climatiche dell’asse Est-Ovest. La muraglia cinese, dunque, non come scudo bensì autoesilio.

Ma facendo un notevole passo indietro, Diamond ricorda che a monte aveva avuto luogo una prima e utile dispersione, forse tanto profonda quanto quella indoeuropea: trattasi del cammino delle lingue di matrice cinese principiato quasi seimila anni fa, ripartite nella famiglia sino-tibetana (che conta il mandarino), la famiglia Miao-Yao (suddivisa in: miao rosso, bianco, nero, verde e yao), quella Tai-Kadai e le lingue austronesiane, il tutto per regalare una forma fonetica ai pensieri e ai bisogni dei popoli di: Cina, Himalaya, Thailandia, Indocina e molto altro, fino alla Malacca, la Polinesia il Madagascar e l’Isola di Pasqua!

Siamo quindi di fronte al paradosso di un grande Paese a scarsa permeabilità centripeta (oggi più che mai), ma elevata propulsione centrifuga (oggi in particolare, soprattutto dal punto di vista economico ed epidemico).

In grande risonanza rispetto a queste maree cinesi, il caso Giapponese.

Il famoso pendolarismo nipponico, che spalanca o serra le porte agli esteri a seconda dei venti che tirano, è a lungo dipeso dalla sua emulazione e, insieme, diffidenza, verso le ondate culturali cinesi e coreane. Anche qui, storia e preistoria creano bizzarrie: un arcipelago che durante l’ultima era glaciale consentiva ai popoli di muoversi a piedi dalla penisola coreana alle isole dell’Hokkaido, l’Honshu, il Kyushu e lo Shikoku, dunque un panorama aperto, al più austero isolazionismo (il cui acme furono i Tokugawa) che conserva tutt’ora orgogliosamente la più limitata dispersione genetica dei caratteri etnici del proprio popolo.

la dispersione purusha

Mi torna in mente una geniale battuta che mi ha raccontato la mia solita amica ebrea, di cui potete leggere fra poche pagine un articolo sul tema della “dispersione” come diaspora. Gli ebrei, mi ha detto, sono come la cacca: se li metti tutti insieme puzzano (Israele), se li spargi concimano (Sefarditi, Ashkenaziti, etc.).

Su queste profumate note, arginerei per concludere questa ricognizione tematica sulla figura di Masanobu Fukuoka, uno dei padri della permacultura. Nel suo ormai cult La rivoluzione del filo di paglia, egli promuove il ritorno alla tecnica dello spaglio, contro l’aratura e lo spossamento dei suoli. È curioso, per noi, che “spaglio” significhi tanto “inondazione” quanto “disseminazione”, intesa come metodo di sparpagliare liberamente le semenze imitando la dinamica germinale naturale.

Avrei potuto citare a pieno titolo Fukuoka già lo scorso numero, sul tema della Mitezza, lui baluardo del “non-fare” e della coltivazione che meglio riesce quanto più si sta tranquilli e interviene il meno possibile. In effetti corre qui un bel parallelismo rispetto al numero precedente della Tigre di Carta. Nell’I Ching, infatti, il simbolo grafico della “dispersione”, mostra l’azione invisibile del “vento” a far evaporare “l’acqua” che, metafora dell’energia vitale, quando ristagna «viene dissipata e disciolta mediante mitezza».

È esattamente quanto messo in opera dal serafico Fukuoka, fra i primi ad abolire la coltura del riso immersa in acqua, la cosiddetta marcita, che costa inutili sforzi e fatiche per far crescere una pianta che può benissimo cavarsela da sola.

Già l’I Ching sottolina che la “dispersione” è il contrario della “raccolta” – capitolo 45 del Libro dei Mutamenti e già argomento del numero 15 della nostra rivista. Fukuoka fa eco schierandosi contro le colture intensive e industriali che, sull’imperativo dei raccolti forsennati, impoverisce la terra, gli alimenti e strangola il pianeta. «Più il contadino ingrandisce la scala delle sue attività», afferma Fukuoka, «più il suo corpo e il suo spirito si disperdono».

Pensando quindi che l’esagramma di sviluppo del nostro simbolo è “La diminuzione”, e guardando poi ai risvolti negativi e attualissimi del villaggio globale, pensiamo insomma alla ridimensione non tanto dei nostri desideri e ambizioni, ma della loro scala d’applicazione.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!