Un poema senza eroe

Sottrazione e rinuncia nel poema di Anna Achmàtova

Cos’è il poema? Oggi sembra una domanda inadeguata. Ormai questa struttura poetica pare essere quasi estinta, diminuita nell’incidenza fino alla scomparsa totale. Eppure è la struttura poetica per eccellenza, o almeno questo emerge a scuola: le prime opere poetiche che abbiamo studiato sono sempre poemi, dall’Iliade, all’Odissea, fino alla Commedia e così via. C’è una linea comune che si delinea lungo i millenni accomunata proprio dalla struttura poematica. Eppure, oggi pare una struttura destituita di valore. Una forma diminuita fino alla marginalità.

Con questa mia breve dissertazione vorrei dimostrarvi come il poema in realtà non sia propriamente morto e quanto sia invece necessario. È un tema su cui lavoro e rifletto da molto e un’autrice russa, Anna Achmàtova, col suo Poema senza eroe, mi ha fornito un cenno per parlare di questa forma poetica fondamentale, che è tale perché rende plasticamente il ruolo e la dinamica del verso poetico; più della lirica, perché in essa si trova pur sempre un eccesso di autoriferimento. Consideriamo da dove nasce il lirico: egli esponeva le sue poesie nelle corti, aristocratico tra gli aristocratici, cantava il proprio disagio emotivo, non si sa quanto per davvero quanto per finta – non lo sapremo mai – e nella lirica resta sempre un’aria di gioco, o comunque di passatempo raffinato. Era considerata poesia di valore, sì, è una poesia destinata a rimanere; però il tema preponderante era il sintomo dell’io, ossia il sentimento, che è emozione condivisa, apprezzata, vissuta e amplificata, un’emozione evidente, palese.

Questo sintomo diminuisce e perde di sostanza nel poema: esso rappresenta qualcosa al di qua dell’Io; è la costipazione di eventi che prescindono dalla propria esperienza e si votano alla rappresentazione di qualcosa, di una storia, un contenuto che si espande e definisce non tanto nelle strutture sentimentali, quanto nelle strutture emotive ed esistenziali. La lirica insegna il sentimento, ossia il sentire qualcosa, il poema insegna l’emozione, quindi la base di ogni esigenza e azione umana, perché l’emozione è quello che ci muove ad agire. Il poema quindi nasce da una diminuzione dell’Io in funzione di un Io collettivo che sparge il proprio seminato lungo le strade della storia della letteratura. Nel poema, quindi, ritroviamo la struttura più intima di quel che è fare poesia: al pari del palombaro, il poema discende per risalire; ossia scende a trovare le emozioni, diminuisce qualcosa del sé, e raduna tutto quello che può essere considerato collettivo, lo riporta in superficie, condotto dal moto dell’incresparsi delle onde, la musicalità, il ritmo, fondamentale per espandere di senso qualcosa che va oltre il sé. Ovviamente tutto ciò non può mantenersi uguale a se stesso: il modificarsi dei tempi richiede uno sforzo per contestualizzare adeguatamente tale struttura. L’opera di Montale, da molti considerata lirica, in realtà appare più poematica, perché in Montale l’Io è declinato in forza di una maggiore identificazione nel territorio: quello che i critici chiamano correlativo oggettivo non è nient’altro che una forma di poematizzazione della struttura apparentemente lirica. Tant’è che Montale stesso considerava Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera la sua Commedia, ipotesi avvalorata da delle analogie contenutistiche molto forti, che ho già citato scrivendo de La bufera.

Farfalla su cardo ph. Anna Laviosa 2017

Farfalla su cardo. Fotografia di Anna Laviosa, © 2017

Ecco, in Anna Achmàtova ho riscontrato un uso interessante del poema sin dal titolo: Poema senza eroe. Un poema in cui non esiste un protagonista, ma paradossalmente tutto è protagonista. Questo poema fu scritto tra il 1940 e il 1962, un periodo molto complesso, che inizia nel pieno della seconda guerra mondiale e poi prosegue nella stesura, tra aggiunte, modifiche e ripensamenti. Nonostante la sua brevità, dietro questo poema c’è un lavoro ventennale, un lavoro necessario, perché Achmàtova voleva dare identità a qualcosa la cui tradizione pesa. Pesa in maniera incommensurabile. Ne era ben cosciente.

Nella nota di prefazione a un certo punto l’autrice scrive che «il poema non contiene nessun terzo, settimo o ventinovesimo senso. Non voglio né modificarlo, né chiarirlo. “Quel che è scritto, è scritto”». Già questo punto indirizza il lettore: il senso è chiaro, non c’è bisogno di aggiungere altro. Nonostante la tacciassero di oscurità, lei ha riconosciuto che una semplificazione, una spiegazione, sarebbe equivalsa, paradossalmente, a una diminuzione di senso del suo poema, che non voleva essere oscuro – e infatti non lo è. Il suo voleva piuttosto presentarsi come poema deprivato della struttura eroica, quindi di un epicentro. Un poema scomposto e riadattato a un tempo frammentato, un periodo in cui si va perdendo il concetto di eroe.

Il movente di quest’operazione è ridare senso a un mezzo poetico che andava perdendo di importanza: il poema è il luogo delle emozioni, il luogo più primitivo dell’uomo, in cui emergono gli strati nascosti, le parole negate, i tratti di vergogna che vengono rielaborati e catalogati nel verso poetico, e poi acclimatati al ritmo della poesia e alla complessità di un racconto più o meno coerente. Nel caso dell’Achmàtova non si poteva costruire un senso tradizionale: riusa e cita i capisaldi del passato inducendo nella scrittura una reinterpretazione del verso poematico, riducendo quindi la figura dell’eroe a un’assenza. Non c’è un eroe perché non è necessario, perché l’io poetico non ne concepisce più il senso retorico: ha perso di struttura. Anzi, è una figurazione che provoca disagio, è uno spettro. L’eroe è definito come un ente che viene da un altro mondo, un eroe quindi morto, de-finito. E a questo eroe deve supplire l’Io poetico, che scalza la figura per eccellenza dell’eroe, sostituendolo con un aspetto nuovo: la quotidianità, la festa in maschera, che evolve nell’orrore di fantasmi e di un enigmatico ospite del futuro e di maschere… tutte figurazioni del compito poetico, un compito sublime e quindi orribile: Achmàtova sa – e lo si vede bene in questo poema – come il poeta sia spettatore di orrori indicibili, di abissi neri e afoni, dove il suono, il tempo, l’espressione minima dell’esistenza è vacua, inetta, inutile. E qui nasce la poesia, da una sublimazione: si adatta un sistema orrendo e lo si racconta, così, per come esso si presenta alla mente del poeta. Per questo “ciò che è scritto, è scritto”: non c’è alternativa. Un ulteriore senso di sottrazione, di rinuncia, nasce quando il poeta sceglie cosa scrivere: nel poema questa scelta si fa più attenta, ardua, si manifesta con un determinismo dialogico impossibile da modificare, se non dal poeta stesso e di certo non con la finalità di renderlo più “facile”. Anche perché fondamentale in poesia è la sintonia tra lettore e scrittore, sintonia che non si raggiunge rendendo il proprio testo piano, facile alla comprensione, tanto meno semplificandolo: si raggiunge semplicemente con l’accettazione di ciò che è scritto.

Che cos’è il poema, dunque? Il poema è un fondamento. Non è un caso se le più grandi civiltà sono tutte iniziate con poemi in cui l’eroe, il dio, il protagonista, non era altro che espressione di qualcosa di comune che lega la maggioranza degli uomini. Il poema ha il ruolo di solidificare il concetto di umanità, di dargli un aspetto e di tutelarne le forme con la figurazione proiettiva dell’eroe, che viene scarnificato dalla qualità di uomo per assurgere a qualcosa di universale. Tutto questo permane nelle varie epoche, anche nell’Achmàtova, dove l’eroe non c’è: qui, a venire scarnificato è il poeta stesso, che smette di essere lirico e racconta ancora più nell’intimo cosa significa il disagio di leggere dentro le cose (pensiamo all’etimo di intelligenza). Nel poema si raccontano le emozioni sottese al pensiero cosciente, pensiero che le esorta al silenzio, perché intimorito dalla forza dell’emotività. Il poema permette a queste forze di sfogarsi, di dare spazio al più totale delirio e quindi di lasciar andare quelle forze dell’inconscio all’ipotesi di una catarsi. Un processo sentito con importanza da chi fa poesia, nel compito di riportare a galla l’indicibile. Un indicibile che in Achmàtova diventa nudo. E forse fu questo all’origine della polemica sul fatto che fosse incomprensibile il suo testo: in realtà, questo testo è terribilmente comprensibile e rilascia dentro un’inquietudine che pone domande, che lascia un senso di insufficienza intollerabile. Questo è anche il compito del poeta: far diminuire certezze. Dalla lettura spesso ci si aspetta di avere delle risposte, ci si aspetta una linearità, un intrattenimento, ma non è questo il compito dello scrittore: egli deve permettere a chi legge la domanda, deve indirizzarlo verso la diminuzione del sé e quindi indurre un’elevazione verso una coscienza maggiore, ossia quella di far parte di una specie e di dover condividere con essa il peso della vita. Finché tutto questo è orchestrato secondo il costume della storia intrigante non pesa o pesa poco, vagamente; quando, invece, tutto ciò, come nel caso del Poema senza eroe, viene esposto, lì inizia quell’ottundimento, quel non capire, che non è nient’altro che un non voler ascoltare fino in fondo quanto sia buia la propria coscienza, quanto sia profonda l’inconsistenza e quanto mal posta la sicurezza di essere un Io indiviso e indivisibile.

Credo ci sia un forte bisogno di ripartire da letture di questo genere, dai poemi, perché essi costruiscono senso. Più della lirica, che è un costume facile da indossare, ma che lascia pochi strascichi, poca forza: nel poema sta la necessità di una civiltà.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).