La capitis deminutio dall’antica Roma a oggi

Contrazione e ampliamento dei diritti

Siamo abituati alla visione di una società dinamica, in continua evoluzione, ricerca e perfezionamento. In tutto ciò si pensa che l’essere umano tenda a una maggiorazione infinita della propria figura e lo si può notare dal pletorico aumento dei cosiddetti nuovi diritti, che si stanno via via formando negli ultimi anni. A titolo d’esempio si pensi al diritto a un ambiente sano, alla bioetica e ai diritti derivanti dalle nuove tecnologie.

I diritti seguono una precisa tassonomia gerarchica, sono riconducibili all’ordine della collettività ovvero della soggettività. Più precisamente si nota come lo Zeitegeist dei nuovi diritti sia rivolto al piano collettivo – differentemente da quanto accadeva con il riconoscimento dei primi diritti, che viceversa riguardavano l’individuo (ad esempio il diritto alla vita, o alla libertà di pensiero e di culto).

Dunque si è passati da pochi diritti e prettamente individuali a una moltitudine di diritti su settori specifici e di valore collettivo. Non è più il singolo diritto che io cittadino posso vantare ad avere un lavoro, ma è il diritto che la collettività vanta ad un ambiente pulito, volto a beneficare tutti indistintamente.

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Da questo quadro sembrerebbe che la proliferazione dei diritti sia una questione di mera evoluzione della società, quasi come un’equazione esponenziale. In realtà non è sempre stato così, i diritti come vengono ad aggiungersi gli uni agli altri possono anche essere eliminati o compressi.

Un’importante caratteristica del diritto in sé è che esso può essere ridotto o comunque modificato senza che tuttavia venga meno. Pensiamo alla costituzione di usufrutto sulla nostra proprietà, oppure banalmente a un acquisto in comproprietà con altri.

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Altre volte invece non occorre nemmeno il nostro consenso affinché si abbia una riduzione dei nostri diritti. Questo era l’istituto della capitis deminutio conosciuto in epoca romana. La capitis deminutio è uno schema concettuale elaborato dai giuristi repubblicani e rivisto dai classici, utilizzato fino in epoca giustinianea. Consiste nella mutazione di un precedente status nella quale vengono a rompersi i precedenti vincoli con un gruppo.

Può essere di tre tipi: maxima, media, minima.

Si ha capitis deminutio maxima con la perdita dello stato di libertà (status libertatis), ovvero quando un libero diventava schiavo.

La media si ha quando veniva perso lo status civitatis, ossia l’appartenenza alla categoria dei cittadini romani. Ciò comportava una serie di conseguenze quali il non poter partecipare alle assemblee politiche di Roma, esenzioni fiscali e più in generale di non essere assoggettato ai privilegi dello ius civile (cioè il diritto dei cittadini). Quello di cittadino era un titolo anelato non solo per i vantaggi ma anche per il prestigio sociale che comportava[1]. Vari erano i modi per perdere questo privilegio: divenire schiavi, trasferirsi in colonie nuove, essere puniti con l’esilio; e ne era privato pure chi era stato condannato a morte e per scampare aveva preferito l’esilio. I liberi non cives infine erano chiamati peregrini e disponevano di un loro diritto (ius gentium), e ovviamente a loro erano negati i privilegi dello status di cittadino romano.

La capitis deminutio minima invece si concretizzava nella perdita dello status familiae come conseguenza del venir meno dei vincoli famigliari di agnatio. Si aveva con la arrogazione sotto la propria potestà di un cittadino libero, con l’adozione di un cittadino sotto potestà altrui, nonché quando una donna si sposava e passava sotto la potestà maritale o con l’emancipazione di un figlio. Questo istituto oggi sconosciuto aveva in realtà una grande importanza all’epoca, poiché tutti gli individui sottostanti all’unica patria potestas dell’unico pater familias erano sprovvisti di capacità giuridica e i loro figli ricadevano sotto la potestà diretta dell’avo.

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Per i romani lo status d’appartenenza era di fondamentale importanza: si pensi che un testamento scritto prima dell’intervento della capitis deminutio sarebbe divenuto invalido assieme alla perdita dello status.

A sua volta poi erano ricollegati a essa altri effetti più o meno importanti; addirittura la si equiparava alla morte. Come l’usufrutto si estingue per morte, così esso veniva meno anche con la capitis deminutio.

Cosicché è bene tener conto che anche in epoca romana i diritti aumentavano e diminuivano. L’editto di Caracalla che estese la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero ad esempio può essere visto come un antesignano del trend espansivo dei diritti, ma tutto quello che abbiamo detto ci deve sempre portare a una profonda riflessione: nemmeno i più liberi cittadini romani erano esenti da riduzioni di status.

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Questo racconto così romantico può avere risvolti anche guardando al presente. È palese che oggigiorno siamo tutti titolari del medesimo status di cittadini – anzi si sta discutendo se allargare le maglie della legge sull’ottenimento della cittadinanza – e proprio per questi motivi sembra che una capitis deminutio odierna sia impensabile. In realtà vi sono categorie di soggetti che ancor oggi subiscono forti limitazioni nei propri diritti.

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La capitis deminutio del XXI secolo si può benissimo chiamare interdizione, inabilitazione amministrazione di sostegno.

L’interdizione è il provvedimento con il quale un individuo maggiorenne perde la capacità d’agire, quindi la capacità di compiere atti giuridici. Detta capacità, che secondo l’art. 2 del codice civile si acquista con la maggiore età, comporta una serie di poteri per l’individuo, quali ad esempio comprare un immobile. Interdizione e inabilitazione sono istituti di protezione legale[2] tramite i quali il giudice accerta una limitazione totale o parziale di detti poteri. Interdetto è colui che per infermità mentale viene equiparato al minore e cioè considerato incapace di agire.

L’inabilitazione invece è il provvedimento dato a causa di condizioni di incapacità non permanenti (per esempio l’alcolismo) oppure per handicap fisici (per esempio la cecità). La sua funzione è di comprimere la capacità di agire ma non annullarla del tutto, ed esso è pertanto un rimedio meno drastico dell’interdizione. L’individuo può quindi compiere atti di ordinaria amministrazione; se eccede l’ordinaria amministrazione l’atto sarà annullabile ex art. 427 c.c.

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Un ennesimo esempio di compressione (anche se rivista ultimamente) dei diritti può ravvisarsi nella potestà genitoriale. È interessante il parallelismo con il diritto romano: da potere illimitato sui figli essa diventa oggi un ufficio di diritto privato, in quanto deve essere esercitata nell’interesse esclusivo del minore. È emblematica la recente riforma[3] con cui si è verificato un vero e proprio passaggio anche terminologico: oggi infatti il termine potestà è stato sostituito con responsabilità genitoriale.

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È utile ricordare come l’I Ching, al suo esagramma 41 (La diminuzione, appunto), ci inviti a guardare molto più a fondo di quanto non stiamo già facendo. Non tutto ciò che è una riduzione è anche una perdita. L’esagramma rimanda a un ordine normativo e razionale, che speculativamente o teoreticamente racconta la riduzione come se fosse già iscritta ontologicamente nella natura. La visione a tratti deterministica dovrebbe quindi tranquillizzarci e infondere una mentalità panglossistica: da un lato il lago evapora, ma dall’altro sorge la montagna che era celata. Allo stesso tempo i diritti possono sorgere o comprimersi, ma solerte è l’avanzamento della tutela all’uomo; le riduzioni odierne non sono altro che maschere per un futuro migliore. La grande differenza con i tempi passati risiede proprio nella motivazione che sta dietro alle compressioni. Se un tempo erano dettate da utilità vanagloriose e di scarsa praticità, oggi invece il sistema è figlio del contratto di Rousseau; quando con una mano toglie lo fa unicamente per dare con l’altra, e la moneta con cui paga si chiama tutela.

In conclusione il grafico dei diritti è certamente crescente; l’I Ching sul punto sembra suggerire una riduzione logico-funzionale da cui possa scaturire un aumento; la riduzione non è fine a sé stessa ma subordinata all’avvenire. L’identificazione della riduzione come negatività deve essere scacciata da un pensiero apotropaico; questo artificio umano lascia quindi spazio a una classificazione benevola e tronfia della diminuzione, intesa come momento di preparazione per un qualcosa di magniloquente che sta per arrivare.

Note

[1] Si poteva acquisire per meriti (tramite il lavoro di anni a favore della città di Roma), per nascita se nati da padre cittadino con matrimonio legittimo o se nati da madre cittadina senza giusto matrimonio, per concessioni statali (si pensi a quella storica di Caracalla nel 212 d.C. rivolta a tutti gli abitanti liberi dell’impero), tramite senatoconsulto.

[2] L’interdizione si può anche avere come effetto di una condanna penale ai sensi dell’art. 32 del codice penale.

[3] D.lgs. 154/2013 che ha riscritto gli articoli art. 315 e ss. del codice civile.

di Michele Chierici

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