Solve et coagula

I Ching, Hegel e Alchimia sull’ultima linea dell’esagramma

Non si può trattenere il fervore spirituale, cercare di ghermire il momento propizio lo dissolve. Nell’attaccamento all’abbondanza scoprirai i semi dell’invidia e dell’avarizia, i germi che annunciano il ribaltarsi della copia, e il suo trasformarsi in accumulo, stagnazione e, infine, povertà.
Solo una trasformazione radicale può conservare lo slancio spirituale come altro da sé; come il contadino cuoce la frutta nel mosto per servarla in altra foggia, così il saggio alimenta il calderone del proprio cuore con l’abbondanza del suo fervore incontenibile e sacrifica la propria interiorità al proprio Signore ricavandone la somma ricompensa.

A ogni estrazione si ripete lo stesso piccolo dramma: come far quadrare l’esagramma di base (in questo caso Fong, L’abbondanza) con l’esagramma di sviluppo (Tsing, Il calderone o Il pozzo)? Cosa significa questa successione? Pur con tutti i trattati che corredano l’edizione classica dell’I Ching, non vi è un chiaro libretto d’istruzioni, né regole fisse per interpretare questo passaggio fondamentale, vera e propria croce ermeneutica degli interpreti. Così, nel familiare spaesamento che mi coglie ogni volta che apro il Libro dei Mutamenti, ricorro all’immaginazione, mezzo infingardo e mutevole, e scrivo di getto qualcosa che mi dia una provvisoria direzione; solitamente questa piccola nave viene abbandonata una volta giunti sull’altra sponda del fiume, ma non questa volta. Sarà che Tsing è un classico simbolo dell’immaginazione, e dunque un prodotto immediato e irriflesso come questo piccolo brano si trova a casa nel Calderone, o sarà che l’immagine in apertura dell’articolo descrive bene la trasformazione della sesta linea da Fong a Tsing.

È da questa linea che voglio partire: l’esagramma dell’Abbondanza si chiude con un oscuro auspicio: «La sua casa è in stato di abbondanza. Egli nasconde la sua famiglia. Egli spia attraverso il portone, e non scorge più nessuno. Per tre anni non vede nulla. Sciagura». Ci aspetteremmo agio e festa, e invece il culmine dell’abbondanza ci descrive lo stato dell’uomo ricco che, ripiegato sui propri interessi privati, si chiude al mondo nel timore di perdere quanto accumulato: poco importa che il fine di tale possesso sia altruistico (qual fine più nobile di provvedere per la propria famiglia?), l’abbondanza che rimane in se stessa è destinata a perdersi, a depotenziarsi e a isolare chi la possiede. Attaccarsi alle cose, materiali o spirituali, non accettare la transitorietà e la continua trasformazione che investe il mondo, porta a tradire ciò che l’oracolo dice nella sentenza: «Sii come sole a mezzogiorno», cioè che per essere l’abbondanza (e non semplicemente possederla) bisogna dare senza riserve, come il sole.

Ermete Trismegisto, scrittore e filosofo egiziano del III secolo, a cui si ricollega il Corpus Hermeticum [anna lav]

Ermete Trismegisto, scrittore e filosofo egiziano del III secolo, a cui si ricollega il Corpus Hermeticum.

La prodigalità, però, non basta a se stessa, e come il sole nel suo irradiare di energia lo spazio intorno a sé cuoce e trasforma gli elementi all’interno del nucleo, così per mantenerci nello stato di abbondanza l’I Ching ci prescrive Tsing, Il calderone, simbolo del nutrimento spirituale e della trasformazione degli elementi. Con una torsione leggermente hegeliana possiamo dire che solo la trasformazione è capace di conservare i frutti della crescita: il Calderone sarebbe, così, il luogo dell’Aufhebung ( “Superamento”), e l’immaginazione il mezzo con cui raffinare la propria interiorità nella trasformazione.

Fin qui tutto liscio. Ma se vogliamo seguire la lezione hegeliana più a fondo non possiamo ignorare che l’Aufhebung non è una semplice azione, ma è un processo che comporta uno slittamento di soggetto e di tempo: il soggetto genera il proprio superamento come un “altro da sé”, un altro soggetto a tutti gli effetti, e lo genera nel tempo. Così il Concetto Puro (atemporale) si estranea nella Natura (temporale), e la Natura si produce nello Spirito come l’eterno calato nel tempo. Questo significa che l’abbondanza spirituale, la ricchezza interiore, non può essere conservata come abbondanza, ma deve trasformarsi per mantenere la sua presenza nell’alterazione: lo slancio iniziale deve passare attraverso il dubbio e la lontananza; il dolore della separazione da Dio (cioè il dolore della perdita dell’afflato iniziale) è il fuoco che alimenta il calderone della propria interiorità.

Ma quale magico intruglio ribolle nel nostro calderone? E a che pro? Rispondere a queste due domande è stato il compito dell’Arte, ossia l’Alchimia. L’Alchimia non fu, come pensa il volgo, una sorta di proto-chimica dedita al tentativo (fallimentare) di fabbricare dell’oro da metalli comuni: questo è quello che gli alchimisti volevano che si pensasse di loro per nascondere la ben più nobile e segreta impresa spirituale in cui erano impegnati. «Aurum nostrum non est aurum vulgi» dice Arnaldo da Villanova nel Rosarium Philosophorum: l’oro che gli alchimisti raffinavano nel loro calderone (nel gergo alchemico chiamato Athanòr) non è un oro fisico, ma l’espressione della compiutezza spirituale e dell’incorruttibilità della carne guadagnata tramite l’impresa spirituale. È l’Arte. Condizione necessaria per ogni operazione nel calderone è il fervore mistico, l’abbondanza e lo slancio spirituale, simboleggiato dalla fontana della vita, o acqua mercuriale: ma come per l’I Ching, anche per l’Alchimia questa abbondanza si trascende, è contemporaneamente se stessa e il suo opposto, è nutrimento e insieme dissoluzione della vita. È questa materia anfibola ad alimentare l’Athanòr, perché grazie alla propria duplicità racchiude in sé il movimento essenziale del processo alchemico: solve et coagula, scioglimento e fissazione di ogni contenuto determinato. Per «diventare oro» (o «essere come il sole a mezzogiorno» direbbe l’I Ching) ogni oggetto psichico, emozione, pensiero e rappresentazione deve passare attraverso questo moto di sistole e diastole, deve essere tolto per essere poi fissato nuovamente.

Skull on fire. Ph. Anna Laviosa 2013, tutti i diritti riservati

Skull on fire. Ph. Anna Laviosa 2013, tutti i diritti riservati

Qui Hegel, l’I Ching e l’Alchimia si allineano come sole, luna e terra durante l’eclissi. La prima linea dell’esagramma del Calderone, infatti, recita: «Un calderone capovolto. Propizio per eliminare ciò che ristagna»: come nell’Aufhebung hegeliana e nel solve et coagula alchemico anche l’I Ching insiste sull’antecedenza del momento negativo, sulla necessità di eliminare prima di creare. Ciò da cui occorre staccarsi – la materia da raffinare nell’Athanòr – è la propria interiorità, ciò che noi reputiamo più intimo e nostro. Ma da Hegel sappiamo che non si può attuare alcun superamento nel soggetto lasciando indisturbato questo soggetto: l’Aufhebung richiede “come sacrificio” proprio colui che compie l’operazione.

Questo sacrificio, o meglio, il suicidio di quello che abitualmente consideriamo l’Io, è il fine dell’operazione alchemica: tramite una continua alternanza di distacco e fissazione dai propri contenuti interiori, l’Alchimia mira a liberare l’uomo dalla schiavitù verso il proprio Io, dall’illusione di essere l’Io. Il cambiamento avviene internamente al soggetto, o più precisamente ciò che cambia è il punto in cui andiamo a identificare il soggetto: dai contenuti positivi (“io sono le mie emozioni, pensieri ecc.”) a una pura negatività che rigetta ogni identificazione, fino a rigettare l’identificazione stessa. Tale rigetto è la morte di quella modalità appropriativa che chiamiamo “Io”, il momento rappresentato simbolicamente nella Nigredo, o Opera del Nero, la morte che preannuncia la rinascita, la rigenerazione del corpo in una nuova foggia.

Di contenuto in contenuto l’opera alchemica avanza inesorabile per liberare l’uomo dalla propria condizione limitata e mortale, vale a dire della propria individualità e umanità. L’Alchimia conduce l’adepto a staccarsi dal possesso e dalla proprietà, fino a vedere la propria anima come il luogo dove sacrificare ogni contenuto interiore, ogni illusione e pensiero, a Dio: per andare da Io a Dio l’uomo deve morire, deve cedere il possesso e accettare che l’unico modo per avere è dare, e l’unico modo per mantenere è sacrificare nel fuoco del proprio Calderone interiore. Solo così l’uomo, ormai non più uomo, può giungere alla pienezza del proprio essere, che è il Nulla, e diventare un Dio in terra, particella di temporalità catturata nella materia, immagine del fuoco divino che divampa in noi nel luogo dove ormai l’Io è estinto e dimenticato.

di Alessandro Vigorelli Porro

Autore

  • Studente di filosofia laureatosi al corso triennale con una tesi focalizzata sull'hegelismo e, dopo un'esperienza di studio a Venezia, al corso magistrale dell'università milanese, presso la cattedra di Storia della filosofia ebraica. Attualmente, è intenzionato a svolgere un dottorato, sempre sul solco del pensiero ebraico.