Tavole e tavolozze barocche

La natura morta tra Spagna e Olanda nel Seicento

Dalle Filippine al Messico, metà delle terre del mondo erano dominio della Spagna. Cervantes consegnava la letteratura spagnola alla storia, Filippo II richiamava all’Escorial i talenti più promettenti e qualcuno diceva perfino che anche «Dio è spagnolo». Era il Siglo de Oro.

Dai Caraibi al Giappone, metà dei mari del mondo erano dominio delle Sette Province Unite. Le università brulicavano di filosofi, giuristi, matematici e astronomi, non si smetteva di stampare libri controversi e nei porti olandesi circolavano le merci più ricche. Era il Gouden Eeuw.

Rivali economicamente, ma pure moralmente – languidamente sontuosa l’una, freneticamente opulenta l’altra –, nel Seicento Spagna e Olanda splendettero del loro Secolo d’Oro, del Barocco, dell’Abbondanza. Anche se con esiti molto distanti, nel XVII secolo le arti e la pittura raggiunsero in entrambe fasti impareggiabili e, in particolare, si sviluppò uno stesso nuovo genere che metteva a tema proprio la Copia, facendosi cornucopia: la natura morta.

Influenzati dalle novità del caravaggismo e dai suoi violenti contrasti chiaroscurali, vero e proprio trend dell’epoca, pittori spagnoli come Luis Egidio Meléndez e Juan Sánchez Cotán si dedicarono a studiare austere composizioni di frutta e verdura. Emergendo dal nero dello sfondo, l’umile cavolo e la banale carota sono trafitti da una luce abbagliante che ne evidenzia ogni piccola, realistica ruga, e allo stesso tempo ce li fa apparire come attori su cui splendono i riflettori, impegnati a recitare la loro parte da protagonisti nel gran teatro del mundo.

Diego Velazquez, "Vecchia che frigge le uova" (1618).

Diego Velazquez, “Vecchia che frigge le uova”, 1618.

Il genere del bodegón, che introduce rappresentazioni di nature morte in scene di mercato, di taverna o di cucina, diventa popolarissimo; vi si cimenta anche Diego Velázquez, il quale, prima di dedicarsi a celebrare gli eroici sfarzi della corte madrilena, frequentava i barrios formicolanti di Siviglia, immortalando acquaioli, giovani cuoche mulatte, vecchie friggitrici d’uova.

Tuttavia, il campione della natura morta spagnola nel Seicento è senza dubbio Francisco de Zurbarán. Nato nel 1598 a Fuerte de Cantos ma formatosi a Siviglia presso un pittore di immagini devozionali, Zurbarán rimase legato per tutta la vita alla città andalusa, conducendo una vita piuttosto appartata e dedicandosi quasi esclusivamente a lavori richiesti dagli ordini religiosi, senza lasciarsi mai sedurre dalla mondana Madrid, dove pure era stato chiamato per un breve periodo dall’amico Velásquez per fare il “Pittore del Re”. Le sue tele,  contraddistinte da un naturalismo monumentale e intrise di intensa spiritualità, pongono sullo stesso piano i soggetti umani, sacri anche quando sono laici, e gli oggetti, irraggiungibili anche quando sono domestici, investendoli della stessa dignità.

Francisco de Zurbarán Natura morta con limoni arance e una rosa (1633)

Francisco de Zurbarán, “Natura morta con limoni arance e una rosa”, 1633.

Nelle composizioni di nature morte di Zurbarán pochi elementi – una brocca, tre limoni, un ramo di fiori d’arancio – emergono dal fondo scuro accarezzati da una luce morbida, calda, quasi “mistica”, che irradia ogni dettaglio scoprendolo prezioso e pregno di significato. È questo ciò che sembra volerci dire Zurbarán: Dio è lì, sulla superficie ruvida della scorza degli agrumi, è lì, annidato negli intrecci del cesto di vimini, ed è lì, in tutti gli angoli insignificanti della tovaglia da tavola. Ecco allora che il singolo limone, se da una parte è descritto in modo tanto minuzioso e realistico da allettare tutti i sensi (il tatto, il gusto, la vista, che indugia sul giallo brillante, l’udito, che assapora il silenzio della scena e, soprattutto, l’olfatto, che pare inebriarsi del profumo di zagara), dall’altra assume un tono sacrale e quasi estatico. E non è un caso, infatti, che la destinazione di queste tele fosse un contesto religioso, spesso i refettori dei conventi monastici. Ma non è nemmeno un caso che, dalle commissioni dei frati, Zurbarán non ne abbia cavato tanti soldi: morì in povertà a Madrid nel 1664.

Osservando le tele dipinte da Zurbarán e dagli altri pittori spagnoli riusciamo a farci un’idea delle tradizioni culinarie dell’epoca: la base dell’alimentazione era sicuramente il pane, accompagnato da vino e verdure, tra cui i pomodori e i peperoni importati dal Nuovo Mondo, spesso conservati sotto sale. Di carne se ne consumava ben poca, mentre era molto diffuso il pesce salato. E dove i quadri non ci aiutano più, spiamo su un libro di Arte de cozina come quello di Francisco Martínez Montiño del 1611 per scoprire che nel XVII secolo ebbe grande sviluppo la pasticceria (no, il pan di Spagna non c’entra niente, però si preparavano delle sorte di pasticcini di pasta sfoglia). Infine, l’ingrediente
principe ce lo rivela inaspettatamente il Don Chisciotte: i nobili non mangiavano che aglio, aglio, aglio.

Willem Claesz Heda, “Colazione con torta ai mirtilli”, 1632.

Risalendo in latitudine verso l’Olanda, il panorama non potrebbe essere più diverso. È innanzitutto la luce a cambiare completamente: si fa fredda, analitica, capace di indagare scrupolosamente – e anche un po’ spietatamente – ogni minuzia. Le famose stilleven di maestri come Pieter Claesz, Willem Claesz. Heda o Clara Peeters sono più che abbondanti: sovrabbondano di elementi, di laute vivande regionali a base di formaggio
o frutti di mare, di cibi esotici come le pesche e speziati come le stecche di cannella, di ricercate stoviglie d’argento, finissime caraffe di vetro e stoffe damascate di magnifica fattura. Grandi colazioni (ontbijtjes) imbandite erano ritratte spesso durante la loro consumazione, con vassoi per metà spiluccati, posate scomposte e briciole disseminate su panneggi stropicciati in modo un po’ troppo perfetto per sembrare naturali. In queste composizioni i pittori assecondavano di buon grado le vanità dell’alta borghesia di allora, che si compiaceva di sfoggiare sulla propria tavola i frutti di uno sfrenato capitalismo ante litteram e di vederli raddoppiati sulle pareti delle loro case, in quadri di piccolo formato ma altissima qualità. Certo, il clima calvinista che si respirava nelle Fiandre rendeva obbligatorio che si inserisse un dettaglio pietoso qua, un memento mori là, ma dobbiamo davvero prenderli sul serio?

A partire dagli anni Quaranta del Seicento si diffuse ad Anversa uno stile, se possibile, ancora più “ostentatore” chiamato pronkstilleven, di cui Jan Davidsz. de Heem fu il maggior esponente. Qui uva, ostriche, champagne, limoni, melagrane, un’aragosta si contendono lo spazio angusto della tavola, sfidandosi in un gioco di alternanze di colori vibranti e dinamismi interni.

Jan Davidsz. de Heem Natura morta con ostriche e uva ( 1653 ) [anna lav]

Jan Davidsz. de Heem, “Natura morta con ostriche e uva”, 1653.

Anche guardando i microcosmi gastronomici dipinti dai fiamminghi possiamo indovinare che cosa si mangiava in Olanda nel Seicento. Grazie ai traffici della Compagnia delle Indie Orientali e della Compagnia delle Indie Occidentali, l’offerta era quanto mai ricca ed esotica, fragrante dei profumi lontani di Giava e del Suriname, di cui ancora oggi la cucina olandese risente. Di sicuro i ceti più bassi non assaggiavano molto altro rispetto ai soliti cereali e legumi, ma la borghesia aveva la possibilità di scegliere tra una grande varietà di cibi tradizionali e prodotti d’importazione dalle colonie. Accanto ai tipici formaggi Edam e Gouda, ai krakeling (sorta di pretzel dolci) e al pesce affumicato, si trovavano infatti frutta esotica, frutta a guscio, dolci di marzapane e biscotti aromatizzati allo zenzero e cannella come gli speculoos, tè, caffè e riso (insomma, mancavano solo le patatine fritte, che si faranno attendere per ancora almeno un secolo).

Dal 1609 al 1621 la storica rivalità tra la Spagna e le Province Unite si interruppe per una Tregua dei Dodici anni. È bello pensare che durante quel periodo pittori, artisti e cuochi abbiano girato indisturbati tra un Paese e l’altro, offrendo gli uni le abbondanze della propria terra agli altri. Come se non ci fosse bisogno di stabilire chi delle due avesse giocato meglio la propria partita con la storia.

di Ilaria Iannuzzi

Autore

  • Comincia gli studi a Pisa per poi approdare a Milano, dove si laurea in filosofia. Grande appassionata di arte, si ostina ad andare in giro senza gli occhiali per vedere il mondo come se fosse un quadro impressionista.