Sfrenate rincorse

Il tarlo della poesia in una società dispersa

Pezzi di usi, culture e costumi da ricucire per riacquisire lo statuto di esseri umani. Caproni, Fiori e Cattaneo: tre poeti sgretolano il linguaggio tradizionale per affondare i denti nella realtà e guardarla con occhi lucidi.

C’è un filo comune che lega i pensieri. Lo sgretolamento. Man mano che le epoche avanzano, si ha come una frammentazione progressiva: perdiamo pezzi di usi, culture, costumi, per riacquisire lo statuto d’essere umani, specie caratterizzata dall’abuso[1].

Ciò si riflette nella poesia. La poesia, infatti, ha sempre teso a unire i pezzi, esprimendo l’esigenza di fermare la sabbia nella clessidra, così da fissare i concetti e poterli tramandare. All’inizio lo si faceva con la trasmissione orale, poi con la scrittura. Teniamo bene a mente che le Muse sono figlie di Mnemosyne (Μνημοσύνη), ossia la memoria, un concetto fondamentale per capire il perché dell’esigenza di scrivere.

Ciò detto, nell’evolversi della poesia c’è una costante: l’osservazione. Omero era cieco, ma aveva una vista interiore, al di sopra del contesto umano; egli era a contatto con gli dèi, al pari degli indovini. Omero è un poeta che narra, che esprime l’esigenza dell’uomo di essere ricordato.

Premesse antiche per avere più chiaro il sentimento del contemporaneo. Eliot affermava che la poesia è un filo ininterrotto che inizia con gli aedi e, diremmo noi, arriva a Milo de Angelis: tutti uniti da esigenze comuni. È proprio quel filo comune che lega i pensieri, con le dovute differenze temporali. E da queste ultime, dalle differenze, dobbiamo iniziare. Ricordando che la differenza è anche attraversamento, portare oltre. Heidegger stesso lo sottolinea nel suo In cammino verso il linguaggio, denotando come il poetico sia prima di tutto soglia da attraversare.

In arrampicata verso il linguaggio. Ph. Anna Laviosa, tutti i diritti riservati

In arrampicata verso il linguaggio. Ph. Anna Laviosa, tutti i diritti riservati

Lo Sgretolamento si connette alla differenza nella misura in cui essa annulla i confini grazie a uno sguardo che si fa interiore ed esteriore insieme. Contemplazione e sgretolamento sono i segni dati dall’oracolo, entrambi voci presenti con forza nella nostra poesia: solo guardandosi dentro il principe riesce ad abbattere il tarlo subdolo che erode la luce; allo stesso tempo la contemplazione è osservazione da un punto strategico e insieme raccoglimento interiore. Contemplare per comprendere. Cosa fa la poesia se non questo?

Oggi viene difficile distinguere la voce della poesia, che pare essersi ormai annullata, sepolta dal vociare di prosa, musica e arte performativa. Tre autori, Caproni, Fiori e Cattaneo, ci permettono di trarre una stilla di qualcosa di più profondo e definitivo. Il nostro discorso deve articolarsi secondo una considerazione di base: la poesia è continua giustificazione osservativa dello sgretolamento.

Nel 1986 esce Il Conte di Kevenhüller, di Giorgio Caproni. In quest’opera si vedono l’erosione e la destrutturazione del poema, che viene riadattato agli schemi di un’epoca in cui l’antieroe diventa una necessità: non esiste alcun proposito eroico e non c’è bisogno di ricordare.

Osservazione. Attraverso. Raccoglimetno. Ph. Anna Laviosa, tutti i diritti riservati

Osservazione. Attraverso. Raccoglimetno. Ph. Anna Laviosa, tutti i diritti riservati

La poesia di Caproni risponde a quest’apparenza con quello che pare un anti-poema. In realtà, ci troviamo pur sempre di fronte a un poema, solo che scoordinato: la trama iniziale si sfalda, facendosi occasione. Lo si vede anche solo sfogliando le pagine: poesie brevi, una di un solo verso, altre monolitiche, rime sparse, metrica rivista e riadattata.

Tra le tante poesie, bellissima è Alla Foce, la sera, e in particolare questo passaggio: «Ne ignoravo il nome / Il mare / mi suggeriva Maria». Rimane presente in Caproni l’idea di un senso di dettame, non solo di un dire costante ed esercitato, ma anche di un flusso che vive nell’istante e viene sentito: l’«ἔννεππε, Μοῦσα» dell’Odissea o l’«Amor mi detta» dantesco. Eppure si sente la necessità di sgretolare con lentezza il senso di quel che significa fare poesia. Già negli anni Ottanta era difficile pensare che la poesia potesse narrare: almeno, non così come lo si fa nei romanzi. Il cambiamento era necessario: si stava elidendo qualcosa e Caproni, grazie alla sua capacità contemplativa, ne ha colto i segnali. Forse per questo nel suo Conte ha tessuto una nuova forma di poema, unica struttura con valore fondativo, senza però i canti, ma con poesie fulminee, veloci, che si caratterizzino per la rapidità, l’istante, poesie che raccolgano con attenzione il particolare, l’attimo. Tutto vero, ma non basta.

Prendiamo ad esempio Corollario:

Leone o drago che sia,
il fatto poco importa.
La Storia è testimonianza morta.
E vale quanto una fantasia.

Poesia brevissima, quattro versi, due settenari e due decasillabi. Riecheggia il metro della canzone, ma manca qualcosa, si sente un silenzio, un ritmo spezzato nei due endecasillabi mancati; è come se nel testo si sentisse quella sillaba mancante. Guardando al contenuto, poi, abbiamo delle frasi imponenti: da una parte il mostro non importa più, non è l’antagonista; dall’altra la Storia è morta, è quasi fantasia. Sembra prevedere quel che avviene oggigiorno con le fake news. Ma non è solo questo: qui c’è un doppio sgretolamento frutto di una contemplazione. Da una parte il verso, la struttura metrica che rimane come eco di una tradizione obbligatoria; dall’altra le storie, la capacità della poesia di farsi portatrice del ricordo, nonché (fintamente) disinteressata alla verità, tradendo un principio iniziato con Esiodo e smentito e confermato più e più volte dalla tradizione poetica. Il filo si tiene.

Umberto Fiori pubblica nello stesso anno Case. Una raccolta nel vero senso del termine, perché egli fa una poesia che osserva e raccoglie frammenti di realtà, eleggendo le case a luogo dove si svolge l’occasione. Prosegue quindi la linea di Montale e la estremizza, rintracciando negli eventi quotidiani la necessità di una poesia che non parli di eroi, ma di banalità. Ha un che di pindarico la sua poesia, non tanto nella complessità, quanto piuttosto nella struttura distinguibile in una parte narrativa, di contesto, e una γνώμη finale. È su quest’ultimo aspetto che pesa tutto il componimento. La poesia si sgretola ancora di più, perdendo totalmente l’ambizione di costruire un poema, una narrazione. La tendenza è di ricercare l’universale nel particolare, una linea seguita non solo da Umberto Fiori, ma propria di una contemporaneità fatta di aspetti e particolari. Una realtà rosa da un tarlo che va sempre più squilibrando le nostre identità.

Ritornando per un attimo al Conte di Caproni, si vede bene come la Bestia non sia altro che l’Io che s’espande e raggrinzisce insieme, l’Io che diventa sempre più straniero, sempre meno identificabile («La Bestia che cercate voi, / voi ci siete dentro»). Allo stesso tempo Essa è solo una parola: è un nome, o meglio, è la grammatica in sé, il linguaggio tutto rappreso in un sostantivo, Bestia. Bestia come Io, Bestia come Grammatica. Come parlare di eroi e poemi se la Bestia non esiste, se la Bestia sono io? Su questo solco, Fiori scolora l’idea che si possa parlare di Io: nella sua poesia si osserva, si guarda e di linguaggio si caricano gli oggetti («Dal marciapiede pieno / guardavo lavorare […]»; «Più grande di tutto è lo sguardo, / ma le case sono più grandi»). L’identità si sgretola nei mille aspetti della realtà, nell’accostarsi continuo di case, che spezzano il ritmo dello sguardo e costringono all’attenzione emotiva chi sa cogliere l’attimo e si lascia dettare. Il tutto con un linguaggio piano, privo di vette stilistiche, ma che fa proprio di questo tono apparentemente piatto la sua forza: il realismo. Anche qui sgretolamento e contemplazione.

Da ultimo Simone Cattaneo. Rappresenta il compimento di questo percorso. In Cattaneo vediamo una poesia dura, volgare, angosciante: rappresenta il compiersi del nostro sgretolamento. Nella sua poesia si evidenzia il tarlo che oscura, la mancanza totale di luce, in una società dispersa. Simone Cattaneo affonda nella disperazione e ci offre il tracciato di un’umanità lisa, volgare, assoluta e indecente, tanto provinciale, quanto universale. È una poesia d’impatto che mostra il compimento di un processo di liberazione dell’urlo di un uomo nudo, privo di Io, di sentenze, di verità. Continua anch’egli la vocazione necessaria alla poesia d’occasione. Cosa trarre altrimenti da una realtà frammentata? Ora, da questi tre autori abbiamo tracciato un percorso che non si è ancora concluso. C’è bisogno di una rinascita da questo sgretolamento, uno sguardo interiore che si rifletta all’esterno. Per cui credo che oggi la poesia abbia bisogno del respiro di una narrazione estesa, che debba farsi foriera del bagaglio di quel filo, su cui solo i funamboli riescono a passeggiare con agio. La poesia oggi deve farsi differenza. Non bastano più le occasioni, né il dilagante lirismo, ormai stanco e noioso: la poesia deve sollevare il problema dell’uomo con l’idea di poterlo raccontare, senza la paura della concorrenza di una prosa che monopolizza il mercato editoriale.

Caproni, Fiori e Cattaneo hanno una cosa in comune: non hanno mai rivolto lo sguardo troppo indentro, non si sono mai asserragliati nell’indifferenza verso chi non comprende, ma hanno affondato i denti nella realtà, l’hanno guardata con occhi lucidi e ne hanno descritto lo sgretolamento. Alla fine hanno costruito una nuova idea di narrazione. Senza subire il peso delle classifiche. Rimane un punto da cui ripartire: l’eredità di quell’umanità che Caproni ha descritto con l’acume dei grandi, quell’umanità che è sempre particolare nella sua costanza.

Note

[1] “Abuso” viene da “abusus”, alla lettera “allontanamento dall’uso”. Ad ogni passo evolutivo l’uomo si allontana da un uso e ne intraprende altri.

Bibliografia

G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1999.

S. Cattaneo, Peace & love, Ponte del Sale, Rovigo 2012.

U. Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.

M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1999.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).