Come si costruisce una catastrofe

Un po’ di luce sul caso del Vajont

Un processo che si costruisce attorno a una diga che crolla? Un chiarimento sul caso del Vajont ricorda che la diga non crollò affatto, ma a crollare fu il sistema penale e giudiziario. Cosa significa esattamente: far le cose all’italiana.

Ho preso in prestito il titolo di questo articolo da un saggio di Tina Merlin del 1983. O meglio, ne ho rubato una parte: assieme alla frase che campeggia qua in alto ce ne sono altre due, la prima è “sulla pelle viva”; la seconda è “il caso del Vajont”.

Quel libro è una delle fonti principali di un bellissimo spettacolo di Marco Paolini, che racconta con intelligenza l’intera vicenda della diga e del disastro. Prima di introdurmi in quelle due ore e mezzo di soliloquio teatrale non sapevo quasi nulla della vicenda. Del Vajont ricordavo, senza peraltro rammentare la fonte, che era un disastro naturale, avvenuto un sacco di anni fa nella zona del Nord-est; erano certamente morte un sacco di persone: questo mi bastava. Non avevo veramente capito se fosse stata una frana, un’inondazione o se era crollata una diga.

Alcune intuizioni che avevo nella testa erano corrette. Il disastro del Vajont è accaduto il 9 ottobre del 1963 proprio al confine tra le regioni del Friuli e del Veneto; c’era di mezzo una diga, all’epoca la più alta del mondo, che però non è crollata, tanto che è lì ancora oggi.

Dove c’è una diga, c’è dell’acqua: e infatti tutta quella parte della valle percorsa dal fiume Vajont, affluente del Piave, era stata chiusa da quella costruzione gargantuesca, creando un bacino artificiale che serviva come “banca idrica” per permettere a chi gestiva le centrali idroelettriche di avere sempre flussi a sufficienza.

Il problema è che una delle due pareti della valle era particolarmente soggetta a frane. Infatti, il 9 ottobre del ‘63, la gigantesca parete rocciosa crollò nel lago artificiale sollevando un’onda di duecentocinquanta metri, che prima lesionò due paesi posti “al di qua” della diga, e poi, superando quest’ultima, ne spazzò via altri cinque posti a valle, con un bilancio di circa duemila vittime.

Longarone distrutta dal disastro del Vajont del 9 ottobre 1963

Longarone distrutta dal disastro del Vajont del 9 ottobre 1963.

Molti giornalisti e intellettuali di primissimo ordine – da Giorgio Bocca a Dino Buzzati – nei giorni successivi si lanciavano in una retorica fine, di buon gusto, ricordando come l’uomo non può nulla contro la natura, che quando mostra i denti è capace di devastazioni gravi e suggestive quanto le studiatissime esplosioni nucleari che diciotto anni prima avevano posto fine alla guerra.

Sarebbe bello poter chiudere la vicenda del Vajont associandosi a queste facili constatazioni, asserendo che non era proprio colpa di nessuno, che è stata una tragedia inaspettata e inspiegabile. Eppure, i documenti via via emersi dicono tutt’altro: approfondendo un secondo la questione, ne esce un quadro molto meno rassicurante.

C’era un mucchio di persone che sapeva tutto; anzi, aveva addirittura smosso la terra causando il dissesto.

A dire il vero, già nei primi appostamenti e con i primi lavori era stato chiarissimo che le cose proprio non quadravano: dai primi carotaggi e dai primi studi già emergeva che la valle del Vajont non era il posto adatto a costruire una diga di qualunque dimensione, figurarsi la diga più alta del mondo.

Gli ingegneri, i geometri, i geologi che lavoravano per la SADE, la società idroelettrica che aveva costruito la diga per sfruttare il lago artificiale, sapevano benissimo che una delle due pareti di montagna era a rischio frana. Con lo sviluppo degli esami e dei lavori erano arrivati a conoscere benissimo la dimensione, la forma, il peso, la profondità della faglia.

L’odore dei soldi, però, superava di gran lunga le risultanze scientifiche: da lì doveva passare una quantità d’acqua pazzesca; con quest’ultima, un sacco di energia elettrica, quindi un sacco di quattrini (fra l’altro neanche pubblici, perché prima della nazionalizzazione la SADE era una società del tutto privata).

All’approssimarsi dell’ottobre ‘63 e al termine della costruzione della diga, durante i test di riempimento del bacino artificiale, gli operai che lavoravano alla diga e gli abitanti dei paesi superiori sentivano la terra muoversi; gli scossoni peggioravano di giorno in giorno; eppure i lavori proseguivano, silenziando ogni dissenso e richiesta di aiuto e ignorando i migliaia di segnali che provenivano da ogni dove e – soprattutto – non rendendo noto alle città a valle della diga, il rischio terrificante che si avvicinava a una velocità impensabile.

Questo è fare le cose all’italiana: non tanto farle male o bene, perché la diga era costruita perfettamente, tant’è che ha retto all’impatto e agli scherni dei decenni a venire; fare le cose all’italiana è escludere o corrompere l’Autorità, agire nell’ombra, tacere e far tacere, non preoccuparsi delle conseguenze dei propri comportamenti, anteporre il proprio tornaconto personale a qualsiasi altro valore. Se poi in gioco ci sono immense distese di denaro, si può anche accettare il rischio di distruggere cinque paesi e uccidere migliaia di persone.

Lo scandalo, però, non finisce qui; anzi, si può dire che la prima tragedia ne faccia nascere una seconda, certamente minore in termini di portata, ma altrettanto indicativa del tema che stiamo trattando. La seconda storia che qui si innesta è quella giudiziaria, ancora funestata da depistaggi e tentativi di insabbiamento dall’alto.

Dopo sette lunghi mesi, una prima commissione parlamentare d’inchiesta cercò di coprire tutto, sostenendo che il disastro fosse imprevedibile: ovviamente, ammettere il contrario significava confessare le leggerezze e inadempienze di tutto l’apparato pubblico posto a sorveglianza delle grandi opere (dal Ministero e Consiglio superiore dei lavori pubblici al Genio civile, fino ai prefetti di Udine e Belluno).

Delusioni anche dal punto di vista strettamente giudiziario: il giudice istruttore, Mario Fabbri, nominò una équipe di periti italiani che dovevano disbrigare, dal punto di vista scientifico, ingegneristico, geologico e fisico tutta la faccenda, spiegando appunto il tasso di prevedibilità della frana e del disastro.

Questi periti ci misero due anni, giungendo a un esito solo nel dicembre del ‘65; anch’essi conclusero che comunque era impossibile aspettarsi tutto quel trambusto.

Il giudice istruttore non se la beve, si accorge di «errori e omissioni» in quelle perizie tecniche. Chiede una seconda perizia; intanto ci si rendeva conto di alcune forze potentissime che si muovevano contro il processo: nessuna Università italiana era disposta a collaborare, a redigere perizie o consulenze tecniche. Il giudice andò all’estero, in Svizzera e in Francia.

Con i periti d’oltralpe, le cose cambiarono: le nuove perizie sostenevano che la frana era prevedibile.

Si può iniziare il processo, ovviamente non contro chi ha ideato la diga, coordinato i lavori e redatto le prime false attestazioni: è tutta gente morta prima ancora che la diga fosse completata. Ce la si prende ovviamente con le società coinvolte e con i vertici successivi.

Non è ancora tempo per il lieto fine: il processo, prima ancora di iniziare (nel ‘68) è trasferito all’Aquila, perché si temono disordini in aula e un’eccessiva sensibilità da parte del Tribunale. Con immensa fatica, nel dicembre ‘69, si arriva alla sentenza di primo grado: altre controperizie oscure fanno sì che i giudici ritengano sussistente il solo reato di “mancato allarme”. Si chiude il primo grado con un giorno di carcere per ogni morto, nessun risarcimento in sede penale.

Va meglio in secondo grado e in cassazione: si riconoscono i reati di disastro, frana e inondazione; si riconoscono responsabili le società che vengono condannate al risarcimento; si prevedono pene di circa tre anni per i vertici considerati responsabili – una miseria, rispetto al danno causato, ma una discreta vittoria, visti i presupposti.

La cosa più importante è che in quelle sentenze è scritto a chiare lettere che il disastro del Vajont è stato provocato dall’uomo.

È difficile riuscire a trarre qualcosa da questa storia, se non un’immagine piuttosto vivida. Poco dopo la parete della valle, rischiava di sgretolarsi anche il sistema della giustizia sotto le pressioni degli stessi potenti. Se sappiamo come sono andate realmente le cose è solo per via della gente cocciuta – dal giudice istruttore ai difensori di parte civile a quei cittadini che non si sono mai arresi, chiedendo di poter conoscere la verità – che ha svolto fino in fondo il proprio dovere, perché davanti ad alcune cose tacere non è un’opzione.

di Gianluca De Rosa

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.