Lo Spiantato – Lo straniero

Ritorno dalla mattinata di tirocinio all’ospedale Auxologico San Luca, in piazzale Brescia. Sono diretto verso la fermata del 16 quando una signora anziana, capelli tinti, ben vestita, mi chiede come raggiungere una sede distaccata dell’Auxologico; le spiego brevemente la strada e lei chiosa questo breve siparietto dicendo: «Ah, per fortuna ho incontrato lei. Ormai son tutti loro qua, guardi, un’altra – indica una donna sudamericana che ci è passata accanto e ci dà le spalle – sono più loro che noi».Victor Attilio Campanga Lo spiantato

Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma non va sottovalutato questo tema. E bisogna affrontarlo con attenzione. Anzitutto, il razzismo ha radici profonde. Nell’Atene classica, per fare un esempio, solo figli di ateniesi potevano essere considerati cittadini e godere dei relativi diritti. Me è dalla lingua greca che si hanno delle risposte su ciò che era lo straniero. I Greci hanno coniato due termini: barbaros, che significa letteralmente “uomo che balbetta” (è un’onomatopea che indica il “bar bar” incomprensibile degli stranieri, simile al nostro “bla bla”), e xenos, che significa sia “ospite” che “straniero”, a indicare che chi non si conosce va ospitato e accolto, soprattutto se in difficoltà.

Due parole contrapposte, che riflettono una dicotomia ben definita nell’Antigone, quella tra legge civile e senso etico. La politica usa il termine barbaros per definire il nemico in quanto straniero, ostile proprio perché non si capisce nulla di quel che dice. Il senso etico, invece, fa suo il termine xenos, dotato sì dell’ambiguità tra hostis (“nemico”) e hospes (“ospite”), ma con un orientamento maggiore verso l’idea che chi non si conosce va accolto, rispettato e conosciuto, perché lo xenos è ragione di arricchimento se si pongono le giuste basi. La lingua greca, quindi, immette nell’immaginario comune due idee diverse di cosa sia lo straniero, usate entrambe secondo convenienza.

Oggi cosa succede? Niente di particolarmente innovativo: si usa l’immigrato come capro espiatorio per incanalare la frustrazione di una società in crisi. Del resto lo straniero è da sempre uno strumento per mantenere l’ordine sociale, un facile bersaglio per l’ira degli ultimi (pensiamo agli ebrei, perseguitati per secoli, o al massacro di Srebrenica). Il meccanismo è ben rodato: si creano ghetti, soprattutto in periferia, dove vive la maggioranza delle piccola borghesia, così da dare la sensazione che “siano solo loro”; si fa in modo che abbiano estreme difficoltà per avere un lavoro o comunque che ottengano solo lavori a condizioni poco dignitose; non si forniscono agli immigrati corsi di lingua italiana, svolti solo da centri di volontariato; si fa poco o nulla per evitare che alcuni di loro siano costretti a finire in giri malavitosi, svolgendo attività di spaccio, rapine, o anche di vendita di rose, oggettistica, libri, solo per avere un tetto, garantito dalle associazioni a delinquere. Il risultato è un nemico sociale perfetto, che nella percezione comune diventa il “clandestino”, o meglio l’hostis. Avete notato, poi, che spesso li si irride per come parlano? E qui si torna al concetto di barbaros.

Insomma, tutto cambia perché nulla cambi e il risultato è che una signora, magari istruita, se ne esce fuori con una frase come «eh, ormai son tutti loro qua». Non fosse che mia madre è brasiliana e mio padre è siciliano, immigrato nel ’59 con tutta la famiglia nel Nord. Ma si sa, l’apparenza inganna.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).