Il fuoco sacrificale

Dalle montagne dell’Altai alle colline della Giudea, dai Veda all’Antico testamento, il sacrificio rappresenta uno dei capisaldi della pratica religiosa e delle società arcaiche. In questo articolo si esplora l’evoluzione del sacrificio e alcuni possibili “sovvertimenti”.

Un fuoco divampa sotto la pallida luce delle stelle e gli uomini si raccolgono nel cerchio luminoso descritto dalle fiamme. In silenzio attendono lʼingresso dello sciamano con lo sguardo fisso su un oggetto particolare, un palo di legno di betulla con sette incisioni orizzontali, piantato davanti al fuoco. La loro attesa viene rotta dallʼarrivo di due uomini che portano un cavallo dal vello bianchissimo, lo sciamano con le sue vistose vesti adorne di sonagli in coda, e il bash-tut-kan-kishi (“colui che tiene la testa del cavallo”) davanti. Lo sciamano spezza il silenzio ballando e cantando, invocando lʼaiuto degli spiriti per il duro compito che lo attende: il sacrificio del cavallo può iniziare.

La cattura di Cristo foto di Anna Laviosa dal progetto Cattura di Caravaggio ( 2011 )

La cattura di Cristo | Foto di Anna Laviosa
dal progetto “Cattura di Caravaggio” (2011)

Lʼesagramma Ttung Ĵenn (La comunanza tra gli uomini) non menziona esplicitamente il sacrificio quale momento fondativo della comunità, ma la struttura simbolica dellʼesagramma ci permette tranquillamente di tracciare questo collegamento. Cinque linee forti si raccolgono intorno a una linea debole, simbolo di un gruppo che lascia uno spazio vuoto al proprio interno, ma anche simbolo di una comunità che si unisce contro un elemento che subisce. Così il commento: «Qui abbiamo chiarezza allʼinterno e forza allʼesterno – il carattere di una pacifica unione tra uomini che, per la sua coesione, ha bisogno di una natura cedevole fra numerose persone decise». Quale migliore «natura cedevole» della vittima sacrificale, e quale migliore momento aggregativo di un banchetto dopo il sacrificio?

Ma non è solo il prospetto di un lauto pasto in comune ad aggregare il gruppo, né la partecipazione collettiva allʼuccisione mediata dal rito. Il fuoco raccoglie la comunità orientandola verso lʼalto, verso quel cielo che sovrasta la «comunanza degli uomini allʼaperto», come recita la sentenza. Il fuoco rappresenta non solo una fonte di luce e di calore – caratteristiche necessarie al viver in comune – ma anche un vettore verso lʼalto, verso cui guizzano le fiamme di Agni (dio vedico del fuoco e del sacrificio), un ponte che permette di trasportare in cielo ciò che vi viene immolato. Per questo lo sciamano sacrifica il cavallo: il suo spirito sarà la cavalcatura con cui salire sul palo (simbolo dellʼaxis mundi) e ascendere ai cieli. E per questo il profeta Elia viene rapito in cielo dallʼapparizione di «un carro di fuoco, e cavalli di fuoco» (2Re 2,11).

Il duplice ruolo mediatore del fuoco (orizzontalmente tra gli uomini e verticalmente tra il piano umano e quello divino) è perfettamente riassunto da un inno del Ṛgveda: «Io invoco per voi Agni dai bei bagliori, la preghiera il persona, lʼospite delle tribù […]. Gli dei hanno posto il caro Agni tra le tribù umane, così come stringono un patto di alleanza coloro che desiderano vivere in pace»[1]. Il fuoco rappresenta non solo il veicolo dellʼalleanza («organizza i clan e distingue le cose», direbbe lʼI Ching), ma in questa sua qualità assurge a personificazione della preghiera, mentre la cosa sacrificata (nella cultura vedica il soma, la bevanda sacrificale) assume lʼaspetto del contenuto dellʼinvocazione. «Ecco, il dio fabbricato dalla parola ispirata [il soma] corre oltre gli ostacoli mentre si purifica, ineffabile. Ecco il dio procede su di un carro e dispensa i suoi favori: manifesta rende la sua voce»[2]. Una simile vicinanza tra fuoco, sacrificio e parola rappresenta uno dei capisaldi della cultura ebraica: nel fuoco di un roveto che non si consuma Dio parla a Mosè (Es. 3,14) mentre in Deuteronomio 4,24 il Signore degli Eserciti si presenta come il fuoco del sacrificio: «Perché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, è un Dio geloso». Fuoco è altresì lʼinvestitura profetica che chiama Geremia (Ger. 5,14): «Ecco, io rendo la mia parola come fuoco nella tua bocca, e questo popolo legna che esso divorerà», in unʼimmagine affine alla discesa dello Spirito Santo sugli apostoli in Atti 2 (non è un caso, dunque, che il fuoco divino porti in grazia il dono delle lingue).

La vicinanza simbolica tra sacrificio, comunità, e parola sembra essere ben fondata e trova il proprio baricentro nel simbolo del fuoco. Eppure lʼI Ching non sembra soddisfatto, e ci indica il Sovvertimento come sviluppo dellʼesagramma della Comunanza tra gli uomini, come ad alludere a un possibile principio immanente di rovesciamento dialettico allʼinterno del sacrificio. In effetti il sacrificio, che appare come un elemento pressoché costante allʼinterno delle culture arcaiche, sembra avere una tendenza a scomparire nello sviluppo delle pratiche religiose. È questo il caso dellʼebraismo, dove un evento storico contingente – la distruzione del Tempio, avvenuta del 70 d.C. per mano di Tito – rese impossibile lʼatto sacrificale: ciò obbligò il popolo ebraico a stravolgere lʼintero culto, trasformando de facto una liturgia sacrificale completamente dipendente dalla casta sacerdotale in una devozione personale mediata solo dalla Torah e dai suoi interpreti. Questo epocale sovvertimento, però, al posto di far scomparire il sacrificio, lo traspose nella devozione personale, al centro della preghiera. Come nellʼinno vedico precedentemente citato, così anche nellʼebraismo preghiera e sacrificio finirono per identificarsi, come viene esplicitamente detto in questo brano del classico della Qabbalah medievale, Sefer ha-Zohar (Il libro dello splendore): «Rabbi Yehuda infatti ha detto che, quando un uomo digiuna, gli si indeboliscono le membra ed è sopraffatto dal fuoco […]. Perciò quando Rabbi Elʼazar digiunava, pregava con queste parole: Sia volontà a tuo cospetto di considerare lʼodore che sale dalla mia bocca in questo momento come quello che sale dal sacrificio, offerto sul fuoco dellʼaltare e di accordarmi il tuo favore. Dunque, quando digiuna, lʼuomo offre il grasso, il sangue e lʼodore che sale dalla sua bocca, e diventa un altare di espiazione. Per questo motivo la preghiera fu stabilita al posto del sacrificio»[3]. Ecco dunque che la preghiera sostituisce il sacrificio mantenendone inalterate le coordinate simboliche: la devozione (devequt) e la retta intenzione (kawwanah) forniscono il fuoco allʼinterno del quale lʼorante brucia le proprie preghiere, che così vengono trasmesse sul piano divino.

 Il sacrificio di Isacco foto di Anna Laviosa dal progetto Cattura di Caravaggio ( 2011 )

Il sacrificio di Isacco | foto di Anna Laviosa dal progetto “Cattura di Caravaggio” (2011)

Forse il miglior esempio di sovvertimento dellʼordine sacrificale ci viene offerto dalla figura di Cristo. Chiunque abbia mai partecipato ad una messa avrà notato le parole con cui il sacerdote introduce lʼeucarestia: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». Per tutta la durata del rito il motivo sacrificale viene ripetuto («Padre clementissimo, noi ti supplichiamo […] di benedire queste offerte, questo santo e immacolato sacrificio»), la struttura stessa della chiesa è incentrata intorno allʼaltare, eppure il sacrificio è assente, ovvero è presente solo in quanto è ricordato. A questo gesto il fedele partecipa tanto con la parola, nella preghiera, quanto mangiandone la carne attraverso lʼostia benedetta – concetti posti in reciproca interrelazione dalla ben nota espressione evangelica «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv. 1,14). A questo punto ritorna preponderante il motivo della Comunanza tra gli uomini, cambiata, però, di segno rispetto allʼorigine. Con una torsione dialettica che richiama da vicino pensatori come Hegel o René Girard, possiamo dire che nellʼorizzonte cristiano non è il sacrificio a fondare la comunanza ma è precisamente l’impossibilità dello stesso, il fatto che la morte in croce di Dio, del Verbo stesso, interdice ogni futuro sacrificio e con lʼultimo e più paradossale sacrificio spalanca lo spazio per lo Spirito, la comunità universale. La morte del Verbo appare come il più forte sovvertimento del sacrificio, il suo vero e proprio rovesciamento dialettico: non è più un uomo a sacrificare un altro vivente per il Dio, ma è Dio stesso ad auto-sacrificarsi in quanto Verbo incarnato per liberare lʼuomo dal vincolo. Con la morte di Dio sorge lo Spirito come la vera Comunanza, dove i vincoli linguistici e tutte le barriere vengono abbattute: «Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo [la legge]. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non cʼè più giudeo né greco; non cʼè più schiavo né libero; non cʼè più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo» (Gal. 3,25-28).

Note

[1] Ṛgveda, II, 4, Marsilio, Venezia 2000, p. 97. Corsivi miei.

[2] Ivi, IX, 15, p. 105. Corsivi miei.

[3] Sefer ha-Zohar, II 20b, in Zohar. Il libro dello splendore, a cura di Giulio Busi, Einaudi, Torino 2008, p. 106.

di Alessandro Vigorelli Porro

Autore

  • Studente di filosofia laureatosi al corso triennale con una tesi focalizzata sull'hegelismo e, dopo un'esperienza di studio a Venezia, al corso magistrale dell'università milanese, presso la cattedra di Storia della filosofia ebraica. Attualmente, è intenzionato a svolgere un dottorato, sempre sul solco del pensiero ebraico.