Seguire i movimenti

Dalla medicina antica alle forme più moderne di teatro-danza: il movimento come intima e istintiva forma espressiva dell’uomo, nella quale a seguire i gesti e a vivere fisicamente la performance sono sia gli attori che il pubblico.

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Loie Fuller in una posa Art Nouveau. Foto di Benjamin J. Falk, 1901

Non sono molte le opinioni considerate universalmente corrette, vere in modo assoluto a prescindere dall’epoca storica e dal contesto sociale. Forse, in tutta la storia dell’umanità, solo quattro dei postulati di Euclide (sul quinto qualche dubbio c’è stato[1]) e l’assioma secondo cui il movimento fa bene.

Limitandoci alla sola Grecia antica sia Ippocrate, sia Erofilo, Erisistrato e poi Galeno, e in pratica ogni studioso di scienze mediche, riconobbero in varia misura l’importanza del moto e dell’attività fisica per il mantenimento della salute e della vita
stessa; da parte loro anche gli artisti hanno sempre attinto al grande potenziale estetico del movimento, costantemente riprodotto e trasposto con le più svariate modalità, dalla plasticità del discobolo al dinamismo della ripresa cinematografica.

Quanta gioia possa dare un movimento, agito o anche solo osservato, lo sa chiunque abbia visto un bambino compiere i primi passi o abbia imparato ad andare in bicicletta. Allo stesso modo, ogni interprete dell’I Ching sa che la gioia nel moto conduce
al Seguire, l’esagramma 17.

La prima linea, nove all’inizio, recita: «Uscir di casa per frequentare gente crea opere». Conviene quindi partire da questa esortazione al moto per collegarsi a una delle opere che più facilmente si incontrano uscendo di casa, fenomeni d’arte popolare che ogni piazza ha visto ripetersi nei secoli come un rito antico e gioioso: lo spettacolo di strada. È assai magnetico e misterioso il fascino che un bravo busker sa esercitare sul suo pubblico; si tratta di una capacità finemente appresa con l’esperienza che gli consente di catturare l’attenzione, farsi seguire nello sviluppo della sua arte e, alla fine dello spettacolo, riceverne il prezzo. Vivere del seguito che si riesce a ottenere è il mestiere di ogni celebrità moderna, ma già in epoca medioevale quest’arte era praticata con gran maestria dagli attori della Commedia dell’Arte, riuniti in compagnie di comici itineranti il cui sostentamento dipendeva proprio dalle offerte del pubblico – il cosiddetto “cappello” in cui gli spettatori, divertiti, ricompensavano l’attore dei suoi sforzi con qualche soldo. Col pragmatismo tipico dell’epoca moderna quest’usanza è andata sostituendosi a cachet e minimi sindacali, ma ancora oggi la formula “entrata libera, uscita a cappello” sopravvive in qualche spazio teatrale[2], presso alcune stagioni di teatro in casa o all’interno di centri sociali con poche pretese. Nella sua rozza semplicità è il metodo più semplice per valutare quanto una performance è stata seguita, quanta gioia ha generato un movimento scenico.

Anche laddove il palco non esista come luogo fisico, ad esempio durante i sempre più frequentati spettacoli itineranti, il moto che si genera sulla scena ha una conseguenza diretta sul pubblico. In questo caso, banalmente, costringerlo a spostarsi per seguire lo svilupparsi delle scene in diversi luoghi lungo il percorso stabilito. Ancora una volta, non si tratta di un modus operandi particolarmente originale, visto che già un millennio fa rappresentazioni di carattere religioso coinvolgevano intere città, trasformate durante le feste comandate in palcoscenici a cielo aperto[3]. I drammi sacri, uno per tutti la Via Crucis, prevedevano dunque un coinvolgimento attivo dello spettatore fin dalla sua collocazione spaziale, a partire dalla posizione assunta: verticale, attento, in piedi e non seduto, rilassato, in attesa degli eventi. Anche nel teatro rinascimentale, e a maggior ragione in quello elisabettiano, era raro che il pubblico si accomodasse durante una rappresentazione teatrale e questo semplice fatto spiega in gran parte il diverso e maggiore coinvolgimento con cui il teatro era seguito in altre epoche.

I più basilari rudimenti della fisica insegnano che un fondamento del moto è il peso; ciò risulta vero anche riguardo i moti dell’animo, ad esempio riferendosi alla partecipazione emotiva a un pezzo teatrale. Seguire la gravità adagiandosi sulle poltrone della platea può avere come risultato un placido sonno, mentre al contrario l’atteggiamento attivo che il dover sostenere il proprio peso richiede permette di seguire molto meglio un dramma[4]. Un corpo disponibile è una mente in ascolto che si adatta al momento della rappresentazione deviando dai propri binari consueti per smarrirsi nel fenomeno teatro, un luogo dove lo scorrere dei minuti e delle ore diventa meno assoluto e più malleabile. Annoiarsi, o al contrario perdere completamente la cognizione del tempo, sono reazioni normali alla visione di uno spettacolo o di un film, all’ascolto di un racconto o a alla fruizione di una performance live nella quale diversi ritmi narrativi si avvicendano e a un andamento ne segue un altro opposto, come avviene nel butō. Questa danza, nata nel Giappone contemporaneo, è lo specchio dell’esagramma Il seguire: un moto giocoso che alterna movimenti lenti e convulsioni frenetiche, esasperando una contrapposizione sempre in atto tra la scena, dove prende vita l’azione teatrale, e il suo pubblico che, nel momento in cui assiste, è per definizione inattivo. Una sintesi di questo delicato equilibrio è offerta dalle immagini proposte dall’I Ching riguardo al seguire: il tuono nella calma invernale e l’uomo che si appresta al riposo. Come il momento teatrale, entrambe racchiudono in un attimo atto e quiete, poiché sia il tuono sia l’uomo dopo un anno o un giorno sono destinati a tornare in azione. In termini fisici, entrambi hanno un enorme potenziale; lo stesso si può dire di un corpo, che in qualsiasi momento può essere trascinato e messo in movimento dal suo peso. In modo analogo, sulla scena ogni attore viene messo in moto dal peso delle parole che deve pronunciare, quello che comunemente viene definito il “sottotesto” di una battuta.

Osei Budei Fradei di e con Enrico Bonavera_Foto di Anna Laviosa ( 2016 ) [ anna lav ]

“Osei Budei Fradei” di e con Enrico Bonavera. Foto di Anna Laviosa, 2016

Ancora più evidente è però il caso di un danzatore, la cui arte consiste specificatamente nel controllare e disciplinare il proprio corpo fino a ottenere una sequenza di forme, un movimento coreografico; la necessità di dosare in modo estremamente misurato il peso e il dinamismo di ogni componente anatomica comporta, in questa disciplina, un’abitudine a dominare il movimento. L’effetto che se ne ricava è tra i più delicati ed estetizzanti a cui l’essere umano possa ambire.

La ricerca verso la perfezione del movimento portata avanti dalla danza, un’arte di per sé stessa scenografica ma non necessariamente scenica[5], è stata molto approfondita dal teatro e non solo in epoca recente. È pur vero che il termine “teatro-danza” ha origine solo agli inizi del secolo scorso[6], ma sappiamo che fin dal dramma antico il coro eseguiva vere e proprie coreografie a intervallare gli stasimi di cui il testo tragico era composto; questa e altre simili contaminazioni susseguitesi nella storia del teatro dimostrano come la distinzione tra azione scenica e movimento non sia mai esistita e, dal momento che l’una comporta obbligatoriamente l’altro, essa sia per forza di cose destinata a rimanere del tutto teorica. In effetti, l’abitudine di categorizzare il fenomeno teatrale entro generi ben definiti e poco elastici nasce nell’Ottocento col teatro borghese, uno stile di rappresentazioni cucite a misura del proprio pubblico e di conseguenza poco disponibili verso forme di spettacoli più antichi e popolari come la commedia o il vaudeville. Eppure, la paternità della danza moderna si fa risalire proprio a questa forma di intrattenimento che nel nome richiama più il canto, voix, che il movimento del corpo; un aneddoto ben preciso si lega a questa filiazione. Era il 1911 quando una bambina di Pittsburgh assistette a una esibizione di Ruth St. Denis, una danzatrice celebre per le sue coreografie ispirate all’Oriente. Il suo nome era Martha Graham e di lì a vent’anni avrebbe rivoluzionato la concezione del movimento come atto d’arte, raggiungendo con i suoi lavori teatrali le vette più liriche di questa forma d’espressione. Nessuna sorpresa che il fondamento della sua tecnica si basi sul seguire la respirazione come motore del moto e consideri il bacino, punto di bilanciamento dei pesi del corpo umano, come sua origine.

Ma è il caso di raccontare anche un altro episodio a cui ho assistito qualche tempo fa uscendo di casa, un seguire di cui ancora non conosco l’esito: un bambino che pende dalle labbra di Arlecchino in maschera e ne ascolta affascinato i lazzi e forse, un giorno, anche lui riuscirà a innovare qualcosa nel modo in cui ci muoviamo.

Note

[1] Per approfondire consiglio la lettura del saggio di Gerolamo Saccheri, Euclide liberato da ogni macchia, testo latino a fronte, a cura di Pierangelo Frigerio, Bompiani, Milano 2001.

[2] Sciapò a Roma; Teatro della Caduta a Torino.

[3] Lo stesso principio è stato adottato dal collettivo Rimini Protokoll, nei suoi studi/performance-spettacoli city specific.

[4] È vero anche il contrario: la tensione drammatica spesso si riverbera in tensione muscolare. Momenti di particolare pathos portano spesso lo spettatore a contorcersi sulla sedia, a digrignare i denti o ad assumere smorfie ora di disgusto, ira o piacere. Personalmente, uno dei momenti di maggiore tensione muscolare che mi ricordi è stato un passaggio dell’ultimo spettacolo di Oscar De Summa, La sorella di Gesucristo; la sensazione era esattamente quella di reggere pesi da una tonnellata ben sollevati sopra la testa.

[5] L’origine della danza è di carattere rituale e mistico prima ancora che performativo, sottintesa con questo termine la presenza di audience; la natura simbolica del movimento coreutico è in ultima analisi il motivo del forte impatto emotivo delle forme di spettacolo basate sulla danza.

[6] Il termine si fa solitamente risalire al Tanztheater di Pina Bausch, riconducibile alla manifestazione in ambito della danza dell’espressionismo tedesco degli anni Trenta.

di Giulio Bellotto

Autore

  • Rappresenta l'anello di congiunzione tra l'attore e il critico teatrale, panni che indossa uno sopra l'altro come maglioni in un giorno uggioso. Si sta formando alla Scuola di Teatro dell'Arsenale e nel tempo libero studia Lettere Moderne in Statale.