Un piccolo Universo

Presentiamo nella rubrica Racconti di questo numero il vincitore del concorso letterario Seguire la Tigre, indetto dalla nostra rivista in collaborazione con la piattaforma online mEEtale, «l’incubatore di scrittori». Una giuria formata dai redattori de La Tigre di Carta ha premiato il miglior testo dedicato al tema Il seguire: un racconto su umanità e alterità, identità e differenza.
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Alien Conspiracy foto di Anna Laviosa 2016 per 'Seguire la Tigre'

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Era di fronte a me. Il suo odore intenso, dolciastro, permeava la stanza.

Lo fissavo, sconcertato dal fatto che la mia mente non riuscisse a interpretare ciò che i miei occhi vedevano: l’incubo incompiuto di uno scultore folle.

«Benvenuto, chiunque tu sia», dissi prendendo coraggio.

L’essere cambiò posizione, ebbi una vertigine quando identificai improvvisamente degli arti lunghi e robusti. Un attimo dopo il cervello risolse il rompicapo: l’ammasso ingombrante mi apparve per quello che era, un organismo non più bizzarro di altre forme di vita estreme viste nei documentari. Soffermai lo sguardo sulla testa relativamente piccola: un’escrescenza bulbosa e irregolare dominata da occhi sproporzionati.

Emise dei suoni appena percepibili. Dietro un ammasso carnoso, sotto la sua bocca, presero a danzare numerosi led colorati; confuso tra le pieghe della pelle scura e coriacea, scorsi un minuscolo dispositivo che con qualche istante di ritardo parlò al suo posto:

«Salute a te, alieno gentile.»

Un primo assaggio della vena ironica che non lo avrebbe mai abbandonato.

«Punti di vista…», commentai, cercando di non mostrarmi sorpreso né divertito. «Mi consideri gentile?»

Altri flebili vocalizzi, così poco adeguati alla sua mole, sovrastati dalla voce sintetica e squillante: «Sei il primo che mi dà il benvenuto.»

Il mio lavoro cominciava meglio di quanto avessi sperato: «Bene, allora possiamo terminare le presentazioni e parlare un po’.»

Gli dissi il mio nome.

«Sasso?», ripeté per conferma.

«Sì, in effetti significa proprio sasso», acconsentii.

Si avvicinò. Nonostante ci separasse un pannello blindato, dominai a fatica l’istinto di retrocedere.

«Sasso», ribadì. «Bello.»

Dovetti chiederglielo esplicitamente: «Il tuo qual è?»

«Chiamami Nessuno. Significa nessuno.»

Corrugò la pelle della testa, emettendo un suono che in seguito imparai a riconoscere come una risata: «Così, quando la mia gente vi chiederà chi vi ha aiutato a fermarli, risponderete “Nessuno” e non verranno a cercarmi.»

«Cosa significa? Perché dovremmo fermarvi?»

«Per rimanere vivi. Avete la sfortuna di abitare un pianeta simile al nostro e noi siamo miliardi, in un mondo sempre più piccolo. Lo spazio vitale scarseggia.»

Accantonai le sue parole minacciose, volevo prima approfondire il contatto con lui:

«Da dove provieni?»

«Da lontano. La luce della mia galassia è appena visibile, nel vostro cielo.»

«Come sei arrivato fin qui?»

Prese a percorrere lenti cerchi, ad ogni movimento dondolante sembrava sul punto di rovinare a terra: «Domanda difficile! Pensa di addormentarti dentro una culla e di risvegliarti nel posto che hai sognato. Ho viaggiato così.»

Continuò: «Io non sono certo il primo. Vi studiamo da un pezzo, nascosti. Ormai sappiamo tutto di voi. È necessario, quando si decide un’invasione.»

«D’accordo, fammi capire: la tua gente avrebbe deciso di invaderci e tu, Nessuno, vorresti aiutarci a fermarli? Perché?»
«Perché è giusto.»

*

Nel corso dei giorni seguenti lo sottoposi a interminabili interviste, seguivo rigidi schemi di analisi psicologica. Rispondeva a tutto, pur ritenendolo, come ribadì più volte, una perdita di tempo. Probabilmente aveva ragione, ma i vertici militari mi avevano chiesto di decidere se fosse sincero e affidabile. Nella lunga relazione che compilai rispondevo positivamente alla domanda, rimarcando comunque i miei dubbi sull’applicazione a lui di un metodo calibrato sui nostri schemi mentali. Consegnai il rapporto con la convinzione che non avrei più rivisto Nessuno.

Mi sbagliavo: fui condotto da lui pochi giorni dopo.

Lo trovai circondato da computer e monitor, in una postazione adattata alle sue strane proporzioni.

In sostanza mi invitava a stare con lui, gli ero piaciuto e mi proponeva uno scambio di favori: io avrei potuto studiare in esclusiva la psicologia di una mente aliena e lui avrebbe avuto qualcuno con cui comunicare senza dover parlare di fisica.

Accettai, mi dissi che alla peggio avrei scritto un libro che sarebbe rimasto invenduto.

Le sue giornate erano estenuanti: teneva continue videoconferenze con scienziati da ogni parte del globo, tracciando un’infinità di simboli e formule oscure comprensibili solo agli iniziati. Dall’altra parte del terminale annuivano pensierosi e ricambiavano con altri simboli e formule un po’ diverse. Almeno tra loro, si capivano senza interpreti.

Per mia fortuna faceva frequenti pause per nutrirsi. In quelle occasioni smettevo di prendere inutili appunti e gli facevo compagnia. Consumare quei pasti insieme ci avvicinò più di quanto potessi immaginare: vedendo la tristezza della sua mensa gli proposi di cucinare per lui, anche se in realtà lo facevo per entrambi. Chiese e ottenne l’uso della cucina. All’epoca non erano molte le cose che gli venivano rifiutate.

Doveva seguire una dieta prevalentemente vegetariana, ma conoscevo qualche trucco per rendergliela più gradevole: io preparavo le pietanze, Nessuno assaggiava, spesso apprezzava, nonostante aggiungesse i suoi integratori alimentari che falsavano completamente il gusto. L’atavico valore del condividere il cibo ci portò a superare distanze e diffidenze, fino a farci scoprire il piacere di stare insieme, di conversare, di ascoltarci.

Quando non mangiava con me, esponeva ai nostri ricercatori una nuova, avanzatissima teoria fisica. Di questa teoria so le due cose che sanno tutti: prevede la possibilità del teletrasporto virtualmente istantaneo e ci ha permesso di costruire un tipo di ordigno dalla potenza inimmaginabile.

Fu determinante nella progettazione delle prime culle di traslazione, ma si rifiutò categoricamente di partecipare allo sviluppo di armi. I militari riuscirono a fare a meno di lui, tutto ciò che serviva era scritto nelle sue formule: la pace tra i due pianeti poté concretizzarsi sul filo sottile del potere deterrente della distruzione assoluta. L’invasione, almeno per il momento, era scongiurata.

*

Dopo un anno di attività frenetiche, i suoi appuntamenti accademici cominciarono a diradarsi: qualche consulenza sui nascenti programmi di esplorazione spaziale, poi più nulla. Viceversa, la nostra frequentazione si fece più assidua; i miei figli crebbero considerandolo uno di casa, un mostro buono disposto sempre a giocare con loro. Era uno di famiglia, ma la mia famiglia non poteva colmare il vuoto e la solitudine che provava.

Vide un’occasione di riavere parte della sua vita quando siglammo il trattato di non belligeranza: il fatto che la tensione tra i nostri due popoli fosse calata gli fece coltivare l’ingenua illusione di potersi proporre come ambasciatore; un modo per riallacciare i rapporti col suo mondo d’origine. Scoprì amaramente di non avere alcuna speranza: per tutti i suoi simili, pacifisti compresi, lui era il Traditore. Tuttavia aveva spinto tanto per entrare in politica e archiviata la delusione percorse altre vie. Divenne consulente apprezzato di tre presidenti. Il suo ruolo nei successi scientifici, fino a quel momento segreto militare, fu infine riconosciuto e giustamente celebrato: tutti seppero cosa aveva fatto per noi. Ebbe svariati incarichi di governo, divenendo una figura unanimemente apprezzata, tanto da vedersi conferito il Premio dell’Unione.

In quella occasione pronunciò il famoso discorso che terminava con una sorta di testamento ideale, enunciato a modo suo, giocando con le parole per dire cose tremendamente serie:

«Mi guardate e vedete un alieno. Un gigante. Qualcuno un mostro. Altri un genio. Un salvatore. Sono tutto questo, naturalmente!

«Ma prima di questo, io sono vivo.

«Per quanto mi possiate vedere diverso da voi, la Vita è qualcosa che ci accomuna!

«E che accomuna il vostro popolo al mio popolo.

«Questa semplice considerazione mi ha condotto fin qui: quando si tratta di Vita, esiste sempre un Noi!

«Esiste un Noi. Io ne ho voluto fare parte.

«Perché da solo io sono Nessuno. Insieme siamo Tutto.»

Spense l’interprete appena terminò di tradurre. La flebile voce che giungeva dagli altoparlanti fece ammutolire tutti. Ripeteva poche parole nelle tre lingue principali dell’Unione:

«Noi siamo!»

Di fronte all’assemblea attonita, terminò pronunciando la stessa frase nella sua lingua madre.

*

Raramente i personaggi importanti hanno un solo assassino.

Non ho mai creduto al fanatico solitario, ma non ho prove per dimostrare il contrario.

Ho solo ricordi.

Passeggiavamo nella notte, attorniati dalla scorta nervosa, ingombrante accessorio della sua candidatura alle presidenziali. Un giornalista ci seguiva, impaziente di terminare l’intervista che aveva concordato; interrotta a causa mia: alla domanda sulla sua longevità cinque volte maggiore della nostra, commentai esprimendo tutta la mia invidia. Lui prese a deridermi bonariamente, a lungo.

«Fattene una ragione, vecchio», mi disse infine, «e lascia lavorare questo giovane.»

Il giornalista, dopo aver ricevuto un cenno di conferma, recitò diligente:

«Lei si è condannato all’esilio e al disprezzo dei suoi simili per aiutare un popolo a migliaia di anni luce dal suo. Perché lo ha fatto?»

Mille volte avevo sentito quella domanda. Mille volte lui si era sforzato di usare parole diverse per esprimere lo stesso concetto. Rispose:

«Volevo impedire che solerti Distruttori di Mondi terminassero la propria opera, pentendosene, come al solito, solo dopo. In quel momento, la possibilità più concreta che avevo per evitare che usassero strumenti di morte su di voi era mettervi nelle stesse condizioni.»

«Avrebbe potuto semplicemente unirsi ai suoi simili contrari all’invasione e portare avanti una battaglia politica sul suo pianeta», obiettò di getto il giovane. «Poteva diventare un leader tra loro, piuttosto che provarci con noi!»

L’ostilità con cui lo disse era palpabile.

Nessuno ribatté senza scomporsi: «La storia del mio pianeta non mi permette di pensare che fosse una strada percorribile. Non in pochi anni.»

«Le è parso più comodo fingere di aiutarci a costruire una bomba per poi convincerci che non dobbiamo usarla contro di voi?»

Esitò a rispondere: «Questo è inesatto. Non vi ho aiutato con la bomba. Ci siete arrivati senza di me. Come loro, d’altronde.»

Mi pareva un’inutile sottigliezza, e faceva il gioco di quell’idiota. Intervenni:

«Senza di te nessuno sarebbe stato in grado neppure di immaginarla! Hai permesso che anche noi avessimo la possibilità di difenderci.»

«No! No!» Perse il controllo per un istante ricomponendosi subito. Mi guardò: «Non mi interessa cosa pensi questo demente o chi lo ascolta. Nessuno può attribuirmi strumenti di morte!»

Fissò un punto lontano: «Io vi ho mostrato formule, splendide teorie. Voi, come loro, avete deciso che non vi bastavano le culle di traslazione e avete sviluppato armi. Mi aspettavo che lo faceste? Sì, lo speravo per voi! Vi ho aiutato a progettarle? No!»

Dopo qualche istante di silenzio proseguì: «Vi pare ambiguo? Lo è certamente. Ma non sempre si può scegliere il bianco o il nero.»

Si rivolse al giornalista: «Ho fatto e farò tutto ciò che ritengo giusto per evitare di spandere morte nell’Universo. Scriva questo, se vuole. Adesso non ho più voglia di risponderle, se ne vada! Mi lasci solo con questo vecchio medusa

Il traduttore, non trovando corrispondenze nella mia lingua, riportò l’ultima parola esattamente come la pronunciò lui. Mi fece imbestialire: usare quell’epiteto scherzoso in presenza di un giornalista del fronte avverso significava privarsi di ogni speranza di vincere le elezioni. Provai maldestramente a correre ai ripari:

«Dovresti aggiornare il tuo interprete, si può tradurre con “saggio”! Te l’ho de…»

Un lampo verde mi accecò. Qualcuno mi spinse e caddi in avanti, udii diverse detonazioni.

Appena la vista tornò, scorsi il corpo mutilato del giornalista steso a terra.

Urlavano tutti, chiamavano i soccorsi, capii che Nessuno era ferito.

Dopo i primi istanti di smarrimento, sconvolto e scioccato, mi feci largo tra i militari armati che gli facevano un inutile capannello intorno. Gli fui nuovamente accanto, il quadro era orribilmente chiaro: il sangue rosso si spandeva copioso dalla profonda ferita vicina al suo unico cuore. Frammenti di ossa bianche spiccavano tra la carne lacerata.

Forse sul suo pianeta l’avrebbero potuto salvare, ma da noi non esisteva chirurgo che sapesse qualcosa della sua biologia.

«È grave, dottore?», mi chiese.

Non risposi, ebbi il dubbio che delirasse.

«È grave», concluse.

Non sono religioso, ma davanti al mio amico morente provai l’impulso di recitare le preghiere a G’shnag Ra’ss imparate nell’infanzia. Mi frenai, chiedendomi se non compissi su di lui l’ultimo oltraggio invocando in suo nome una divinità che neppure conosceva.

Gli parlai: «Nessuno, fratello mio. Credo che tu stia morendo. Io sono qui con te.»

Un attimo dopo pensai di essere stato troppo brusco: loro apprezzano pietose bugie e false speranze. Se fu così, non me lo fece pesare:

«Bene. Nessuno morirà, allora!» constatò sorridendo. Con un colpo di tosse sparse goccioline di sangue intorno.

Mi feci ancora più vicino: «Come chiami il tuo dio? Chiederò a lui di accoglierti.»

«Non ho un dio», mi rispose. «Lo sai.»

Lo sapevo, ma la morte imminente cambia molte cose.

Infatti continuò: «Forse suo figlio. Lui… Sì, lui mi andava a genio.»

«Vuoi dirmi un nome?», chiesi senza capire.

«Ha un nome difficile, per te.»

«Proverò a pronunciarlo. Dimmelo», lo incalzai, cosciente che il tempo andava esaurendosi con la velocità del suo sangue sulla strada.

«Gesù. Di Nazareth

«Gesù di Nazert», ripetei per essere certo di aver capito.

Emise un’ultima debole risata: «Basta solo Gesù, vecchio incapace.»

Il tempo però era finito: si aggrappò con una mano alle mie membrane alari, strinse fino a farmi male e chiuse gli occhi.

Le sue cinque dita abbandonarono la presa cadendo pesantemente.

L’Alieno Giusto, il Gigante Rigido, un Uomo, il mio migliore amico, ormai non era più.

Al suo funerale, pronunciai finalmente il saluto rituale che non ebbe il tempo di sentire prima di lasciarmi:

«Gesù! Accompagna il suo flusso immortale verso le Acque Eterne, fa’ che il suo scintillante torrente si unisca al Mare della Speranza…»

Complici le traduzioni approssimative, in molti oggi credono che Gesù fosse il suo nome.

Il feretro affondava velocemente nell’oceano.

«Nessuno!», urlai, quasi volessi richiamarlo indietro. «Noi, Nessuno!»

L’ultimo drappo colorato sparì tra i flutti.

«Noi siamo!» Il mio grido prolungato, spegnendosi, lasciò spazio al silenzio assoluto per pochi istanti.

Poi un boato esplose: milioni di medusa lo ripetevano insieme.

di Massimiliano Murgia

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