Il battello controcorrente del simbolismo

Arthur_Rimbaud_by_Carjat_-_Musée_Arthur_Rimbaud

di Elena Battaglia

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Un percorso attraverso il simbolismo in poesia, tra Baudelaire, Mallarmé e Rimbaud, in un viaggio a ritroso, una ritirata non solo nei versi, ma anche nella vita, che ha legato questi tre grandi della letteratura francese.

La seconda metà dell’Ottocento, con la sua fanfara del progresso, variamente modulata sul leitmotiv positivista a corredo di un’oggettiva impennata produttiva, può essere posta in astratto attraverso le categorie concettuali di affermazione e accelerazione. Di contro, le coeve esperienze artistiche, voce intima e profetica di un’epoca, paiono muoversi lungo la direttrice opposta, tracciando idealmente un movimento di “ritirata”, applicabile tanto a una questione stilistica, quale la sparizione del narratore in favore dell’impersonalità nel Naturalismo, quanto all’interpretazione problematica delle opere simboliste. Esse meritano un approfondimento a partire dall’imprescindibile riferimento al capostipite Baudelaire, che fissa i cardini di una nuova e disperata metafisica nei termini di una ricerca scevra di etiche pregiudiziali. Nel distico di chiusura de Les Fleurs du mal, summa dell’antropologia dolente e angosciata che l’opera sottende, si rintracciano almeno tre nodi di riflessione, quali spunti di lettura per altri autori di ambiente simbolista.

[…]

plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?

Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau![1]

In primo luogo, l’imperativo conoscitivo è accolto da Mallarmé, che sostituisce gli slanci baudelairiani verso l’ignoto con un percorso a ritroso fino all’inattingibile Mistero, attraverso «la meraviglia di trasporre un fatto di natura nella sparizione vibrante di se stesso secondo il gioco della parola»[2]. L’autore si allontana dal dato fisico assottigliando la materia fino a smaterializzarla, oscillando tra l’affermazione semantica e la negazione concettuale, in una raffinata dialettica presenza-assenza dagli esiti spesso ermetici. Il recedere dalla corporeità apre la via all’evocazione del Néant, posto in corrispondenza analogica con oggetti vacui e crepuscolari nell’oscurità del tessuto linguistico. «Il senso […] è evocato da un miraggio interno alle parole stesse»[3], scrive il poeta in una lettera all’amico Henri Cazalis, a proposito di un enigmatico sonetto del 1868, in cui la resa dei referenti reali è affidata allo “ptyx”, significante senza significato, pura suggestione sonora.

Ses purs ongles très-haut dédiant leur onyx,

L’Angoisse, ce minuit, soutient, lampadophore,

Maint rêve vespéral brûlé par le Phénix

Que ne recueille pas de cinéraire amphore

Sur les crédences, au salon vide : nul ptyx,

Aboli bibelot d’inanité sonore,

(Car le Maître est allé puiser des pleurs au Styx

Avec ce seul objet dont le Néant s’honore.)[4]

[…]

In secondo luogo, tale autoreferenzialità del momento creativo sgombra il campo da qualsiasi implicazione morale – si veda la sintesi baudelairiana «Enfer ou Ciel, qu’importe?» – anche nello svolgimento della vita dell’individuo, qualora essa si ponga come opera d’arte in fieri. Uno su tutti, l’esteta Des Esseintes del romanzo Controcorrente di Huysmans da un lato compie una ritirata ideologica dai valori di produttività e socialità del suo secolo, dall’altro percorre in senso contrario la direttrice campagna-città, perché il suo animo in rotta trovi rifugio all’interno di se stesso e, in maniera speculare, all’interno di una maison des rêves, dove l’eccentricità maniacale dell’arredamento fa da correlativo oggettivo della nevrosi del maître, il padrone di casa – figura peraltro già presente in Mallarmé. Des Esseintes si ritira dalla vita e la vita si ritira da lui, in uno spasmodico processo di artificializzazione del sentire, che alla sovrastimolazione dei sensi fa presto subentrare una condizione di incantevole sterilità – profumi inebrianti e pietre preziose, minuziosamente descritti nel romanzo, metaforizzano tali stadi.

Da ultimo, si consideri l’opera del giovanissimo Rimbaud, che raccoglie l’estremo invito di Baudelaire e gli infonde uno slancio vitalistico, impetuoso. Una tensione visionaria, programmaticamente affermata e rivendicata con orgoglio, che rende il Veggente caro al grande pubblico, ma che non esaurisce la problematicità della sua seppur breve produzione. Essa fu ambiguamente bollata come «la storia di una delle mie follie» nel testo Alchimie du verbe e poi interrotta da una vera e propria ritirata dalla scena letteraria nel 1878, preconizzata nel medesimo passo da un «Questo è accaduto. Oggi so salutare la bellezza». Persino il suo capolavoro del 1871, Le bateau ivre, che pare sancire un inarrestabile protendersi in avanti, cela un doloroso viaggio all’indietro. Se le prime sequenze sono un’impennata onirica di incredibile potenza, veicolo di una creatività linguistica vorace e immaginifica, risultano di interesse anche maggiore gli ultimi movimenti del testo, languidi, placidi come l’«acqua d’Europa», a cui lo spirito del poeta anela dopo l’esperienza sconvolgente dell’oceano. Essi rivelano, con sommesso lirismo, la portata metafisica del viaggio intrapreso e il suo inevitabile fallimento, dovuto al prosciugarsi delle forze del veggente, e contestualmente riflettono, nell’andamento del testo, il meccanismo della ritirata: l’illusoria espansione dell’orizzonte si infrange nel volgere di una strofa, con uno schianto in sordina, e la visione macroscopica si riduce a una microscopica, dove l’oceano roboante è una pozzanghera nera e fredda e il battello ebbro è una barchetta spinta da un bambino, fragile come una farfalla di maggio.

Come ebbro e fragile dimostrò di essere il secolo XIX, lanciato all’impazzata sulla china del progresso verso la sua fine, adornato dai fiori malsani[5] dell’arte simbolista.

[…]

Mais, vrai, j’ai trop pleuré ! Les Aubes sont navrantes.

Toute lune est atroce et tout soleil amer :

L’âcre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.

Ô que ma quille éclate ! Ô que j’aille à la mer !

Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache

Noire et froide où vers le crépuscule embaumé

Un enfant accroupi plein de tristesses, lâche

Un bateau frêle comme un papillon de mai.

Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, ô lames,

Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,

Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,

Ni nager sous les yeux horribles des pontons.[6]

Note

[1] Trad. it.: «scendere nell’abisso, Cielo o Inferno che sia, / e annegar nell’Ignoto, pur di trovare il nuovo!» In Charles Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Mondadori, Milano, 2011, p. 261.

[2] «La merveille de transposer un fait de nature en sa propre disparition vibratoire selon le jeu de la parole». In Marco Modenesi, Liana Nissim, Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau, Mimesis, Milano, 2012, p. 71.

[3] «Le sens […] est evoqué par un mirage interne de mots mêmes». Ivi, p. 92.

[4] Trad. it.: «Le pure unghie di onice levando verso i cieli / L’Angoscia a mezzanotte sostiene, lampadofora, / I sogni vesperali arsi dalla Fenice / Che nessuna anfora cineraria raccoglie: / Sulle credenze, nella vuota sala: nessuno ptyx, / Abolito gingillo d’inanità sonora / (Poiché il Padrone attinge i pianti nello Stige / Con questo solo oggetto di cui il Nulla s’onora.)»

[5] Vedi la dedica di Charles Baudelaire a Théophile Gautier in Charles Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Mondadori, Milano, 2011.

[6] Trad. it.: «Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti, / Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro: / L’acre amore mi ha gonfiato di torpori inebrianti. / Oh che la mia chiglia esploda! Oh che io vada verso il mare! / Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera / Nera e fredda in cui nel crepuscolo profumato / Un bambino inginocchiato e colmo di tristezza, lascia / Un battello leggero come una farfalla di maggio. / Io non posso più, onde, bagnato dai vostri languori, / Togliere la scia ai portatori di cotone, / Né fendere l’orgoglio di bandiere e fiamme, / Né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.»

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