L’uomo che (non) ride

di Amedeo Liberti

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Fotogramma dal film The Navigator di e con Buster Keaton ( 1924 )

L’avvento del sonoro, il ritiro dalle scene e la fama rubata dal fenomeno Chaplin. La figura di Buster Keaton, per essere compresa nella sua grandezza, va ritrovata sulla via del proprio tramonto.

Matthew: «[…] non c’è paragone.»
Théo: «Perché Chaplin è incomparabile?»
Matthew: «No. Perché Keaton è incomparabile.»
The Dreamers (B. Bertolucci)

«Non c’è niente da ridere.»
Buster Keaton

Tre giovani cinéphiles si ritirano dal mondo e passano il tempo a discutere e dibattere un po’ di tutto, in particolare di cinema. È, in estrema sintesi, la trama di The Dreamers di Bernardo Bertolucci. Se lo si cita qui, però, non è tanto per il tema del “ritiro” dei tre protagonisti, anche se ben si coniugherebbe con l’esagramma n. 33, La ritirata, oggetto di questo numero. Se lo si cita è per via di uno dei passaggi più interessanti del film: la discussione che i due protagonisti maschili hanno attorno alle figure di due attori-registi: Charlie Chaplin e Buster Keaton.

Matthew: «[…] Keaton era un regista vero. A Chaplin non è mai interessato altro che la sua performance personale. Il suo Ego».

Théo: «Stai dicendo un mare di cazzate».

Di primo acchito si è portati a dare ragione a Théo. Anche solo a una disamina superficiale non si può non convenire che il successo, in termini commerciali ma anche di immaginario filmico, abbia arriso infinitamente più a Chaplin che a Keaton. Il primo è noto alla gran massa del pubblico mondiale, il secondo no. Prima di sentenziare, sulle presunte maggiori qualità artistiche di uno o dell’altro, bisognerebbe però capire da cosa si sia generata questa differenza di fama.

Entrambi iniziarono la carriera ai tempi d’oro del cinema muto (prima Chaplin e poi Keaton). Poiché i film non parlavano, giocoforza dovettero il successo alla loro comicità corporea e soprattutto all’invenzione di gag. Le loro differenze avevano molto in comune. Entrambi misero in scena, ad esempio, soggetti al lavoro. Se Chaplin nei suoi film ci mostra le infinite disavventure di Charlot (Charlot soldato, Charlot pattinatore, ecc.), anche i protagonisti di Keaton potevano essere, di volta in volta, camerieri, giovani sposi, ferrovieri, ecc.

Spesso ambedue si ritrovano alle prese con macchine imbizzarrite che si ribellano. Chi non ricorda Chaplin catturato dagli ingranaggi di una fabbrica? Tuttavia The Electric House di Keaton, dove assistiamo alle disavventure di un uomo alle prese con uno dei primi esempi di domotica[1], è altrettanto esilarante (e più vicino alla nostra sensibilità) di Tempi moderni.

Anche il cibo e la tavola sono onnipresenti nei loro filmati. Il pasto che Keaton consuma con il suo commensale durante The Scarecrow, in cui assistiamo alla messa in scena di una tavola imbandita come una macchina à la Rube Goldberg[2], sarà forse meno poetico della scena in cui Chaplin deve mangiarsi il proprio scarpone (La febbre dell’oro) ma è più surreale e altrettanto in grado di indurci a riflettere con un sorriso.

Verrebbe da dire che tra Chaplin e Buster si gioca il conflitto (filosofico) tra l’eternità del simbolico e la singolarità del reale proteiforme. Chaplin seppe, di fatto, generare una vera e propria maschera universale: Charlot, il vagabondo dal cuore d’oro. Invece Keaton no. Lui fece del proprio volto (mai sorridente) e delle sue abilità di saltimbanco la sua maschera attoriale. Charlot non è stato niente di più che un uomo, semplicemente e emblematicamente nient’altro che un uomo, e, in quanto tale, il campione di una certa umanità. Proprio per ciò manteneva la sua precisa identità, indipendentemente dal compito chiamato a svolgere.

Sul volto inespressivo di Keaton, invece, si proiettavano le moltitudini. Keaton, paradossalmente, non era nient’altro che se stesso e, a maggior ragione, era qualunque uomo. Egli era il giovane costretto, dalla precarietà di un’esistenza che richiedeva (a tutti) doti acrobatiche, a indossare un abito diverso a ogni cambio di mansione e a essere ovunque, spettatore e attore allo stesso tempo (The Playhouse). La successiva assenza dalle scene sarà quasi un contrappasso.

Fin qui abbiamo visto gli attori, ma dal punto di vista della regia? Sotto il profilo registico non si può non riconoscere che le considerazioni di Matthew hanno un che di serio. Se l’accusa di ego(t)ismo verso l’uomo che ha girato Il grande dittatore è ingiustificata, è però vero che Keaton è stato un gran cineasta, capace di invenzioni di regia molto all’avanguardia (molto più di Chaplin).

Chiunque abbia letto Noël Burch[3] sa che il cinema agli esordi s’esprimeva con un modo di rappresentazione primitivo. Quasi sempre la cinepresa era posta frontalmente, se ne stava fissa e quasi mai seguiva gli spostamenti dei soggetti che riprendeva rigorosamente a figura intera da lontano. Non esistevano il primo piano né il piano americano e il montaggio era quasi inesistente. La profondità di campo non era valorizzata. Agli esordi lo sguardo del cinema imitava, insomma, quello di uno spettatore a teatro. Progressivamente, nei primi due decenni del Novecento, al cinema si assistette a profonde innovazioni linguistiche. Fu Griffith (non fece tutto da solo ma fece molto) uno dei campioni della rivoluzione del cinema ed è significativo che uno dei lungometraggi più famosi di Keaton (The Three Ages) sia proprio la parodia d’un film epocale di Griffith (Intollerance).

È stato notato come il ricorso a didascalie da parte di Keaton fosse ridotto a un quinto rispetto agli altri film dello stesso periodo. Keaton infatti aveva capito che lo spettatore doveva essere in grado di comprendere la storia in base agli avvenimenti a cui assisteva, senza spiegazioni ulteriori. Le didascalie interrompevano il flusso narrativo e spesso rovinavano la suspense (anticipando gli avvenimenti). Keaton gira senza quasi usarle.

Fotogramma di The General di e con Buster Keaton ( 1926 )

Buster Keaton in The General (1926)

Un grande esempio della sua abilità nel far scorrere le immagini, nel narrare una storia che non sia più solo un pretesto per inanellare una serie di episodi divertenti ma scollegati, è The General. Siamo dalle parti della guerra civile americana. Un ferroviere sudista, nonostante sia respinto all’arruolamento (con conseguente sdegno della sua bella che lo crede codardo), riuscirà – da civile imbranato – a sventare i piani delle spie nordiste, a salvare il suo amore (nel frattempo rapito dalle giacche blu) e infine a sbaragliare l’esercito nemico. Il tutto condito da alcune delle più belle gag girate su una locomotiva (la The General che dà il titolo al film) tra equivoci, scambi ferroviari dispettosi e ponti vertiginosi.

In realtà, non è che Keaton fosse più geniale di Chaplin, è che un certo linguaggio era più funzionale alle sue scene d’acrobata, che si sviluppano secondo più linee (dall’alto in basso, da destra a sinistra, avanti e indietro). Sono gag molto più articolate di quelle di Chaplin, che potevano accontentarsi di una messa in scena più orizzontale e di un linguaggio più piano.

Allora come si spiega il maggior successo di Chaplin? Grazie ai suoi capolavori sonori. Quelli che Keaton non poté girare. Keaton fu costretto, all’avvento del sonoro, al ritiro. Il sistema di produzione hollywoodiano non credeva più in lui[4].

Fu una ritirata fatale. Alla disoccupazione seguirono divorzio e alcolismo. Per campare Keaton s’adattò a mille umili lavori (come i suoi protagonisti) o ad apparire in camei di lusso (Luci della ribalta, Viale del tramonto). Riuscì però a dare la zampata finale: Film (su sceneggiatura di Samuel Beckett). Qui è un uomo schivo che cerca drammaticamente di sfuggire all’occhio implacabile della cinepresa. In Film assistiamo all’ossessiva e disperata fuga dallo sguardo; è la ritirata di un uomo dalla percezione di sé, ma forse è anche un giudizio sul mondo del cinema che tanto gli ha dato e troppo gli ha tolto.

Note

[1] Automazione applicata agli ambienti domestici.

[2] Reuben Garret Lucius Goldberg (1883-1970). Illustratore americano dei primi del secolo scorso, famoso per l’invenzione (grafica) di macchine inutilmente complesse, sviluppate per svolgere operazioni molto banali o praticamente assurde.

[3] N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, a cura di P. Cristalli, Il Castoro, 2001.

[4] Paradossalmente pochi anni dopo Chaplin gira Modern Times, film sonoro in cui non dice una sola parola, ma canta in un insensato gramelot.

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.