Fame is but a fruit tree: Nick Drake

Nick_Drake_(1971)

di Jacopo Lorenzon  

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È possibile riuscire a scrivere una pagina tanto sfumata quanto indelebile con una chitarra, una manciata di canzoni e tanto silenzio. Una pagina scritta nella storia di quella che viene definita musica leggera, una definizione che tanto stretta sta a intere generazioni di ascoltatori che in quei dischi, in quelle tracce hanno trovato poesia, arte. Una pagina forse un po’ nascosta che ha affascinato e continua ad affascinare milioni di ammiratori, sulla quale è impressa la storia di un giovane che sognava di esorcizzare una condizione esistenziale di profonda solitudine e depressione con le proprie parole, e che non è però riuscito a trovare altra soluzione ad una progressiva e inesorabile ritirata nel proprio silenzio.

Quella di Nick Drake è una storia lontana, il racconto silenzioso di un artista troppo diverso dal mondo in cui aveva timidamente cercato di entrare e trovare un posto con le proprie parole, con la propria musica, la propria voce. È una storia che nasce in un luogo quasi sospeso, lo stesso nel quale si sarebbe poi ritirata per riposare alimentando nel tempo un mito fatto di pochi ricordi sbiaditi e trentuno canzoni. Un tempo remoto, molto più dei poco più di quarant’anni che ci separano da quei giorni.

Quel luogo è l’Inghilterra delle campagne, il tempo sono gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Le campagne, si è detto, la natura: è il verde di Tanwoth-in-Arden, cittadina nel Warwickshire a un paio d’ore d’auto da Londra, a suggerire all’adolescente Nick le prime immagini poetiche. Drake è un giovane appassionato di musica istruitosi al pianoforte che trova però la propria vera vocazione nella chitarra. Una chitarra acustica che esplora, con accordature sempre differenti e tecniche mai viste prima, e suona in modo unico e attraverso la quale esprime testi che nascono e si nutrono di quella natura, la stessa immerso nella quale trascorreva ore nella più completa solitudine. Una solitudine protetta da una coltre creata da una famiglia amorevole sempre pronta ad aiutare Nick e a sostenerlo anche quando il mondo esterno si fa ostile e oscuro.

Tre sono gli album che Nick Drake ci ha lasciato: tre opere di delicata bellezza, attraverso le quali il musicista sperava di poter raggiungere un ampio pubblico, stabilendo un contatto con esso per trovare quella realizzazione interiore che gli era sempre mancata. Five Leaves Left viene pubblicato nel 1969, seguito a un anno di distanza da Bryter Layter. Si tratta di due opere di assoluto valore, la prova dello straordinario talento di Nick: il suo nome circola e spicca all’interno dell’ambiente musicale inglese dell’epoca. Siamo nel periodo d’oro che vede – per citarne solo alcuni – il congedo dei Beatles, la nascita dei Led Zeppelin e l’avvento rapido della cometa Jimi Hendrix; anni durante i quali capolavori invadevano il mercato con cadenza quasi settimanale e in cui Londra era il centro del mondo.

Già, Londra. Un mostro tanto spaventoso quanto allettante. Una città in cui si sviluppa la scena musicale più importante, quella che Nick non deve e non può farsi sfuggire. Gli addetti ai lavori non esitano a riconoscere la grandezza di quelle canzoni, di quella voce soffice e di quelle melodie che sembrano già classiche al primo ascolto. Il grande pubblico però sembra non accorgersi della presenza del giovane songwriter, il quale dal canto suo non fa o non riesce a fare granché per accattivarsene il favore. Drake è infatti un musicista assolutamente fuori dal proprio tempo: timido e insicuro, non riesce ad esibirsi dal vivo e rifiuta qualunque intervista. Non sa, né forse vuole, assecondare il processo necessario alla diffusione e all’accettazione della propria musica da parte degli ascoltatori. Ascoltatori che allontana pur desiderandoli intensamente come interlocutori.

Non è possibile affermare con certezza quando abbia inizio la ritirata di Nick Drake, la presa di coscienza che lo ha progressivamente portato a chiudersi in sé stesso, in un silenzio assordante. Una ritirata dalla stesso ambiente urbano, che lo ha visto abbandonare Londra per tornare alla natura di Tanwoth-in-Arden, nella casa della propria adolescenza. C’è chi parla di una dipendenza da sostanze stupefacenti, chi lega questa disperata condizione esistenziale ad un’omosessualità inconfessata. Sappiamo molto poco della vita di questo ragazzo troppo sensibile. Unica certezza è il suo lento appassire, la sua convinzione del fallimento della propria vita, lontano da un ambiente che non lo ha capito, sotto gli occhi di due genitori straziati.

L’apatia lo porta progressivamente a un distacco totale dagli affetti, dal mondo e dalla musica. Un distacco avvenuto non prima di averci regalato un’ultima perla, il suo testamento artistico. Pink Moon è un album essenziale, bellissimo: voce e chitarra quasi totalmente spogliati di qualsiasi ornamento. Sono gli ultimi sospiri incisi in due notti e quasi abbandonati alla casa discografica un giorno del 1972. È la fine, e Nick lo sa.

Dopo l’ultimo, incompreso, capolavoro Nick Drake scompare. La sua ritirata è totale, perdente, e lo porta alla scomparsa – suicida? non lo sapremo mai: poco importa – nel 1974, a soli ventisei anni e nella più completa solitudine e incomprensione. Crudele, il destino: il messaggio di questo artista unico ha percorso una strada tortuosa, fatta di silenzi e indifferenza. Una strada che lo ha però portato a raggiungere e influenzare nel corso dei decenni moltissimi musicisti, poeti e giovani qualunque. Perché se è vero che la ritirata di Nick Drake è nata dal tormento del fallimento, è altrettanto vero che il seme gettato è germogliato nel tempo e nel silenzio ammirato di chi non ha potuto che tacere di fronte a un artista diventato un mito. Sfumato, ma pur sempre un mito.

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