La rinuncia imperitura

Amor Cortese

di Andrea Quarini

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Quando si disquisisce di eroi, di battaglie, di consapevoli ritirate che hanno il potere di salvare e di fughe coscienti innanzi a una sconfitta imminente, si può rivolgere lo sguardo a uno dei temi più diffusi, più banali, e allo stesso tempo più prolifici dell’intera storia letteraria: l’amore.

Un combattimento ferino quello dell’uomo, l’estremo eroe dei moderni e degli antichi giorni, che ha sempre cercato di impossessarsi dell’indomabile cuore della sua dama, e ha gettato al vento anni di saggezza, di forza e di cavalleria, per giungere a un obiettivo il più delle volte irraggiungibile.

Non è forse anche questo eroismo? Servono solamente le armi, le spade appuntite per fare di un personaggio un prode, o sono i sentimenti, le indomabili azioni, a rendere un semplice individuo qualcosa di grande?

Di certo le regole della corte, dell’amore cortese, trangugiano il buon senso e rendono ogni uomo un vero uomo solo nell’universo nel quale è contenuto, e gli permettono di acquisire un significato quando la sua esperienza diviene fallimentare, troppo grande per le materiali capacità terrene, e frutto di una rinuncia di vita.

Se si parla dell’amore cortese e dei suoi eroici protagonisti, il doveroso omaggio va a quella generazione di grandiosi poeti che si è sviluppata di là dalle nostre frontiere, e che ha accolto personaggi di ogni estrazione, di ogni lignaggio, eroi veri; lo erano nella vita, come i grandi sovrani e feudatari dei regni, lo erano nelle passioni, come intrepidi amanti che hanno bramato di rapire o di conquistare il cuore selvaggio delle donne gentili.

La loro inquietudine e il loro impegno sono tuttora proverbiali, e hanno riecheggiato nei fulgenti versi dei divini poeti trecenteschi, che hanno iniziato a parlare e sentire grazie all’audacia di questi eroi, della loro vita e dell’amore: sono i provenzali, i grandi combattenti della passione amorosa non scritta in latino e liberata dai dettami del credo religioso, i canterini poeti delle corti più lontane, i paladini di quel tempo, e del nostro tempo, che ci hanno insegnato tutto ciò che c’è da sapere sulla forza dell’amore.

La parabola amorosa nasce dalla sottomissione, dalla presa di coscienza dell’infinita superiorità della beata dama del castello, che significa accettare una sconfitta in terra e oltre la terra, e porsi su un gradino più basso di fronte a una potenza irraggiungibile. Le regole della servitù trovano espressione nel giuramento cavalleresco, che sostituisce la fede amorosa e la trasforma in laicità amorosa; ogni elemento del rito è parallelo a questo servilismo, e alla totale inadeguatezza verso una forza travolgente.

«Nessuno sarà veramente fedele ad amore se non gli è sottomesso, e non è compiacente con estranei e con vicini e obbediente a tutti quelli della cerchia»:[1] così afferma Guglielmo d’Aquitania, il padre fondatore (probabilmente) di questo movimento, che ha saputo rivelare la sconfitta dell’uomo-eroe, e la presa di coscienza, obbligata e consapevole, di una disfatta inevitabile sul campo. Non essendoci il bellicoso terreno, non essendoci spada o eroe, il cantore abbandona coscientemente la lotta e partorisce la poesia, la composizione a parole di una sconfitta annunciata, viva sui corpi e sulle menti, alla presenza della cerchia dei presenti, che vedono e assaporano ogni momento.

 

Trovatori

 

Non cadiamo nell’errore di pensare candido e puro quest’amore etereo: è carnale, e della carne si nutre. Tra il cavaliere e la donna esiste l’eros, che travolge indissolubilmente i corpi in un delirio senza fine, e fa capire al protagonista che l’oggetto del desiderio, in fondo, non è altro che lui. Le signore diventano oscure e maligne, incarnano una folle passione insaziabile, e capovolgono i ruoli dell’amore: e ancora il cavaliere si umilia, l’eroe si spoglia, e perde.[2]

Le marcate allusioni sessuali ai rapporti passati ancora rivivono nelle stanze strimpellate, e dimostrano come il guerriero sia inerme con le sue armi terrene. Si ritira dal campo ma non dall’amore, si ritrae dai gesti ma non dalle parole: per questo i versi sono vivi, e riecheggiano fortissimi alle orecchie di chi ascolta, come un grido di aiuto che è anche di estrema poeticità. Se fossimo realmente in guerra, non sarebbe possibile questa forma di combattimento, perché o si è con le armi o si è disertori: i nostri eroi invece combattono con la penna, e descrivono consapevolmente la loro sconfitta, della quale sono felici, perché è l’unico modo di ricordare una bellezza e una felicità evanescenti.

C’è chi, come Jaufré Raudel, ha intonato l’amor de lonh, l’amore di lontano, o l’amore in lontananza, descrivendo le vicissitudini non trascorse con una dama rigorosamente celata nel nome e nei fatti. In questo caso avviene l’enunciazione di un paradosso amoroso che nasconde tutte le proprie fattezze, e lascia spazio al nulla, al lontano e all’indicibile, che comunque vuole essere raccontato e descritto, dopo l’abbandono.[3] Tale surreale situazione è il grido disperato di qualcosa di intangibile, di una resa che ha ragion d’essere solo nel non essere affatto; il linguaggio fa da sfondo e sorregge la difficile consapevolezza, divenendo poesia estrema, difficile e contorta. L’eroe dimostra ancora più forza, e si mette a nudo davanti alla platea scegliendo di non dire, fantasticando la sua sfera amorosa che lo ha vinto, e lo vincerà per sempre. Ballonzola e canta ritraendosi ancora una volta, accettando non solo la sconfitta, ma l’inesistenza della situazione stessa: se non è eroismo della rinuncia questo, in altro modo non si potrebbe definire. Se si lascia la battaglia e i forti sentimenti, quello che rimane è un’occasione non trascorsa, una dama al di là dell’oceano, e le belle parole rimate dei versi il lingua d’oc.

La perenne sconfitta dell’uomo di corte si assapora anche nell’intricata questione degli amanti. Bernart de Ventadorn è chiaro su questo punto: per lui la donna può avere mille compagni, e tradirlo ripetutamente, ma deve rimanere sempre fedele al suo cuore, e concedere una piccola parte di se stessa all’individuo che ormai si è spagliato della propria dignità. «Signora, amate pubblicamente un altro, e amate me di nascosto, in modo che io ne abbia tutto il vantaggio e lui le belle parole»: si conclude così, ironicamente, la lirica,[4] che mette in risalto animatamente come un eroe sconfitto non abbia più nulla da fare se non accettare l’ineluttabilità dell’esistente. È una consapevolezza e una banale sottomissione a una legge più forte? Il cantore non ha altro modo che dichiarare la propria sconfitta verso l’amore? Accettando il sostrato di fondo, il combattente si ritira, accetta coscientemente le irragionevoli e frustranti regole della prigionia amorosa, e utilizza per difendersi gli unici strumenti, ormai innocui, di cui dispone: la poesia e l’ironia.

I grandi maestri della lirica d’oc hanno compreso le proprie capacità e hanno capito il passaggio epocale che stavano trasmettendo; ancora oggi dovremmo ringraziarli all’infinito.

Quando Giraut de Bornelh e Raimbaut d’Aurenga disquisiscono sullo stile da utilizzare per dare un volto alla fenomenologia dell’amore,[5] adducendo spiegazioni plausibili, sanciscono il momento più importante della lirica amorosa: fornire i canoni significa prendere coscienza dell’esistenza di qualcosa. È normale allora considerare il gusto del pubblico, il primo destinatario di questa deliziosa forma d’arte, che, ricordiamo, nasce sotto forma di canto e musica, e solo dopo di testo.

I protagonisti, i fantomatici eroi che hanno compreso a fondo il fallimento della loro missione, si sono allontanati volutamente dal godimento terreno dell’amore, e hanno deciso di far diventare immortale la loro esperienza, di farla divenire arte, eternamente. Il conscio allontanamento dalla battaglia avvenuto in questo mondo vive ancor oggi nelle mirabili pagine che parlano di loro: la recessione è stata, e dio li benedica per questo, la vittoria più grande, che possiamo tuttora vedere e amare senza limite.

I poeti provenzali rivivono nella loro rinuncia imperitura.

Potremmo seguire mille strade, mille forme e mille contenuti, non ne arriveremo a capo: e raccontando tutto si arriverebbe ad annoiare la lettura e a perdere il senso. Ogni componimento di questi autori nasconde in sé troppi significati perché possano essere espletati e indagati nella loro totalità: gli esempi abbondano, basta iniziare a leggerli, nascosti tra i versi.

La lirica provenzale ha bisogno dell’apporto e dell’interpretazione di ognuno di noi. L’amor cortese non vive di una sola esegesi, e non si cela in esso un unico grande significato: la potenza di questi versi cantati sta proprio nella pluralità dei suoi valori, nella mutevolezza delle situazioni e degli avvenimenti che hanno generato e spaziato verso gli orizzonti più disparati.

È una tradizione lunga e contorta, che nasce e si sviluppa nelle sue contraddizioni.

È un amore che vive di ideali, di pensieri e di presupposti, e uno di questi è il conscio abbandono dello scontro, che non può sussistere, almeno non in questo mondo e nella nostra materialità.

L’idea dell’amore delle corti occitane germoglia proprio dalla sua inconcludenza, e dalla sua evanescente inesistenza: si basa sulla rinuncia, e sull’allontanamento del cavaliere da un campo di combattimento dove le sue appuntite armi non hanno ragione di esistere, e cadono sciolte alla presenza del fuoco d’amore.

 

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Note

[1] «Ja no sera nuils hom ben fis / contr’amor, si non l’es aclis, / et als estranhs et als vezis / non es consens, / et a totz sels d’aicels aizis / obediens», in Pos vezem de novel florir di Guglielmo IX.

[2] Per comprendere meglio questa visione “capovolta” dei ruoli amorosi, è interessante leggere il componimento Farai un vers, pos mi sonelh, di Guglielmo IX, nel quale il cavaliere diviene vittima sacrificale degli appetiti di due dame.

[3] «In maggio, quando i giorni sono lunghi, mi piace il dolce canto degli uccelli di lontano. Vado con animo afflitto e triste, in maniera tale che il canto e il fiore di biancospino non mi sono più graditi dell’inverno gelato. Mai non godrò dell’amore se non godrò di questo amore di lontano, perché non ne conosco da nessuna parte, né vicino né lontano, uno migliore e più gentile». Traduzione di: «Lanquan li jorn son lonc en mai/m’es belhs dous chans d’auzelhs de lonh, / e quan me sui partitz de lai / remembra·m d’un’amor de lonh. / Vau de talan embroncx e clis,/si que chans ni flors d’albespis / no·m platz plus que l’iverns gelatz. / Ja mais d’amor no·m jauzirai / si no·m jau d’est’amor de lonh: / que gensor ni melhor no·n sai / ves nulha part, ni pres ni lonh.», Jaufré Raudel, in Lanquan li jorn.

[4] Poi vol autre amador, Bernart de Ventadorn.

[5] Ara·m platz, Giraut de Borneil.

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