Acque Lustrali

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di Ivan Ferrari

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Mi scuso anticipatamente se non saprò tenere fede all’impegno preso di parlare con schiettezza, calma e precisione. La mia intenzione di farlo è genuina e ferma, ma la forza potrebbe venirmi meno. Anche se so che non mi crederete, sappiate comunque che nessuno di voi ha il diritto di giudicarmi. Miriadi di pazzi sono diventati tali per molto meno di ciò che la mia testa ha sperimentato.

Il mio nome è Søren Rasmussen e da circa dieci anni ho un impiego come segretario della celebre Università di Aalborg, per la Facoltà di Lettere e Filosofia. Facoltà della quale ho anche avuto il piacere di frequentare i corsi e dalla quale ho ottenuto la mia laurea. In questo istituto conobbi l’uomo di cui sono ora chiamato a raccontare gli ultimi giorni di vita e le tragiche circostanze della sua dipartita. Il suo nome era Eric Nyrup Carlsberg, l’abile professore antichista recentemente scomparso. Me lo ricordo dietro alla cattedra come se lo avessi qui davanti ai miei occhi, d’aspetto giovane e forte, con una corta barba bruna, la voce ferma e lo sguardo limpido. Allora dimostrava assai meno dei suoi trentacinque anni, ma in seguito fui costretto a vederlo in ben diverse condizioni. Dopo qualche chiacchierata avviata casualmente nei corridoi dell’istituto, scoprimmo abbastanza interessi comuni da tradurli in una regolare frequentazione. Arrivammo nel tempo a chiamarci per nome e a invitarci a cena. Lui aveva una moglie cui era molto legato e oggi mi chiedo perché non sia infine riuscito a pensare al suo bene, invece che al proprio desiderio di conoscere cose proibite. Avendo egli un certo interesse per il folklore medievale del nostro paese, gli dissi una volta che il fratello di mio padre, il buon vecchio Lars, possedeva una bella fattoria non lontano da una zona palustre dell’isola di Bornholm, quella parte poco popolata dell’Hovedstaden satura di leggende arcaiche e grottesche. La cosa lo affascinò parecchio, perché di recente gli era già capitato di leggere stralci di confuse cronistorie connesse a quelle zone. Così, dopo una lunga chiacchierata, decisi di invitarlo a venire con me alla fattoria un paio di giorni. Dato l’isolamento della sua abitazione, mio zio era sempre lietissimo di ricevere qualsiasi visita. I posti letto non gli mancavano, da quando la moglie e il figlio erano misteriosamente scomparsi proprio nei dintorni solitari dell’orribile palude che stava acquattata come una colossale belva feroce a pochi chilometri dalla sua proprietà. Eravamo tutti convinti che lei fosse prosaicamente fuggita con qualche marinaio straniero. Beh, anche ora lo pensano tutti… Tutti tranne me. Fra le leggende in sé e gli eventi tragici accaduti al mio parente, Eric subì in pieno il fascino del mistero e accettò di buon grado l’invito. Partimmo il sabato del 19 novembre, alle sei del mattino.

Tra l’aereo e il taxi, fu un viaggio comodo e tranquillo. I paesaggi dell’isola sono generalmente ameni e deliziosi, con le casette chiare ammassate intorno alle tipiche chiese rotonde e le brughiere verdi battute dai freschi venti del Nord. La fattoria e la palude si trovavano alquanto fuori mano, nel territorio comunale di Allinge-Gudhjem, dove alcuni eccentrici pittori della scuola artistica locale, ispirata dai Fauves, tentarono di ritrarre col loro stile le tenebrose impressioni suscitate dalla vista di quei particolari acquitrini melmosi.

Come già sapete, fu proprio uno di questi soggetti a farsi motore della vicenda che vi sto raccontando. Mi riferisco al misconosciuto pittore Harald Ludvigsen, originario di Viborg. Per quel che ne so io, dipinse una sola tela degna di nota: quella che ancora è in possesso di mio zio. Il nome dell’artista appare sul retro del quadro, al quale l’autore ha preferito non dare un titolo. Mio zio non sa come i nostri bisnonni ne fossero entrati in possesso, ma li ha biasimati spesso per aver accolto una cosa simile in casa. Lui come loro si era sempre rifiutato di esporla e persino di esibirla ai congiunti, tanto che da bambino io stesso ne avevo solo sentito parlare qualche volta da mio padre e con una marcata riluttanza. Non aveva mai voluto spiegarmi perché l’oggetto tanto odiato non avesse fatto la fine che solitamente una tela blasfema in mano a persone poco istruite tende a fare. Tantomeno si era mai deciso a mostrarmela, neppure in età matura. Inutile dire che la curiosità mi rodeva profondamente, ma è dura superare un tabù familiare. Contavo sulla presenza di un uomo di innegabile cultura per persuadere finalmente il vecchio zio a mostramela. Disgraziatamente vi riuscii: lo zio era un uomo semplice e di buon animo, dotato di un sincero, quasi istintivo rispetto per i professori. Cose d’altri tempi! Dopo averci accolto con molte feste e dopo che a quattr’occhi ebbi modo di descrivergli, con qualche debito eccesso, la genialità intellettuale di Eric, gli dissi della sua capacità eccezionale di analizzare gli oggetti complessi, come quelli artistici. Frequenti erano in effetti le sue incursioni nello studio dell’estetica, malgrado quest’ultima non fosse il suo settore disciplinare specialistico. Zio Lars si convinse presto a mostrargli l’aborrito cimelio della cui immagine era riuscito a crearsi una tale censura mentale da non ricordare quasi più perché la tenesse celata in un baule polveroso della soffitta. Parlo di censura e di rimozione come farebbe Sigmund Freud, perché il ritorno alla luce del dipinto fu nientemeno che un trauma per tutti noi. Lars ci condusse nella sua soffitta, ben illuminata dalla finestra ovale posta sull’unica parete verticale. In quel momento, vi si affacciava un sole discretamente caldo. L’oggetto giaceva segregato in un enorme cassone, tra libri e chincaglierie, coperto da un polveroso involto di stoffa. Mi accorsi solo allora di non averne mai domandato la forma e le dimensioni. Era un rettangolo quasi quadrato, con i lati di un metro per uno e venti. Con un tremito, il mio sfortunato parente lo snudò in quella luce impietosamente vivace.

Io conoscevo abbastanza bene le leggende che circolavano intorno a quella landa semiselvaggia, ma non ne avrei mai potuto trarre una lettura così morbosamente fantastica come quella che risiedeva su quella tela di juta. Le cromie passavano da colori caldi a colori freddi in linee sottili e con una violenza visiva sviluppata probabilmente nel corso di studi annosi sull’impatto dei colori sulla retina. Era quasi incredibile che tale violenza calamitasse l’attenzione su aspetti precisi del quadro invece che infastidire e confondere il nervo ottico. Ogni cosa, benché pazzescamente stravolta e snaturata, era raffigurata in modo molto perspicuo. Tutto ciò che c’era era, oserei dire, così chiaro da suggerire piuttosto la presenza di un qualcosa di ulteriore. La linea del suolo era nera come pece e si incurvava per formare una collinetta al centro del dipinto, sotto la quale un punto rosso in una macchia bianca dava l’idea di un orrore inconcepibile, nascosto nel sottosuolo. In cima al pendio spiccavano tre spessi tratti grigi, simili ad artigli. Intorno un groviglio voluttuoso di spire blu e tentacoli sottili ricordava una massa di alberi spogli e contorti. Da essi si espandeva senza soluzione di continuità, ma con un lento sfumare nel viola, un altro genere di spire. Erano più sottili, ma più ampie e vorticavano nel cielo, come in una ripugnante parodia della celebre Notte Stellata di Van Gogh. Quei vortici occupavano i due terzi della tela e confluivano in una grande spirale, leggermente spostata a destra rispetto alla collina per dare un maggior senso di caos e stortezza al soggetto. Al centro di ogni vortice c’era una stella nera, salvo in quello centrale. Lì l’artista aveva superato se stesso nel voler rappresentare il macabro. Infatti, vi aveva posto un caos di forme gelatinose, pallide e verdastre, che dilatavano appendici semiliquide tra le trame della spirale maggiore. La punta di quelle innominabili propaggini sembrava disciogliersi nell’intrico di curve che andava dalla Terra allo spazio, rifluendo su quest’ultima. I gonfiori protoplasmatici di quella cosa senza determinazioni accettabili erano perfettamente ripugnanti. Fissandola mi pareva quasi di sentirla urlare ed ero certo che fosse così anche per gli altri presenti. Sbiancammo e lo zio mise subito via quell’atrocità figurativa, riponendola nel baule che chiuse col primo lucchetto che gli capitò a tiro fra quelli abbandonati sulle casse della soffitta. Una nuvola passò davanti al sole e oscurò l’ambiente, come se anche il cielo avesse voluto chiudere il suo occhio fiammeggiante, offeso da un tale eccesso di pessimo gusto. Un pessimo gusto a cui purtroppo non era mancato il supporto della sensibilità interpretativa, né quello della migliore raffinatezza tecnica che io ricordi. Se qualcuno avesse mai attribuito un genere a simili mostri, quello ne sarebbe stato un capolavoro. Io mi considero un uomo di ampie vedute, ben poco incline ai moralismi. Eppure credevo allora e credo ancor più ora che quella cosa fosse intrinsecamente maligna. Anche perché non era affatto normale per un dipinto così malaccortamente immagazzinato non perdere verosimilmente nulla del proprio aspetto originale. L’oggetto pareva perfettamente conservato, seppure la scelta dei colori, così accesi in certi punti e cupamente marci in altri, rendeva difficile capire se davvero il tempo non avesse in alcun modo modificato le intenzioni espressive dell’autore.

Benché fossimo tutti provati, la vista della tela aveva avuto su Eric un esito ai miei occhi inspiegabile. Improvvisamente volle fare una visita della palude e delle torbiere, affermando di poter facilmente delegare le ultime lezioni prima delle sessioni d’esame ai suoi assistenti. Insisté tanto che io acconsentii a fingere tre giorni di malattia, cosa che in vita mia non avevo mai fatto per nessuna ragione. A questa sua improvvisa insistenza avrei potuto opporre molte ragioni logiche, ma il suo accalorato appello alla mia curiosità e alla nostra amicizia mi condizionò. Finimmo col fissare una data per la successiva spedizione in quelle zone acquitrinose che qualcosa, nei colori e nelle forme del dipinto, evocava anche nella mia immaginazione.

Dal giorno che fissammo per iniziare la nostra esplorazione, non riesco più ad avvicinarmi a macchie di boscaglia. Vedo sempre delle viscosità che strisciano lungo la pellicola delle ombre incorniciate dai rami. Per avvertire quel vago timore di essere improvvisamente afferrato che colpisce chiunque si trovi solo in un luogo selvaggio, non ho più bisogno di portare i miei passi nelle lattiginose nebbioline che coprono il terriccio nel profondo delle foreste, nascondendo le gobbe di gibbose radici che insidiano i piedi malavveduti. Mi basta, nel cuore della notte, che un pensiero corra al modo in cui si vedono le luci di una strada illuminata dalle profonde tetraggini di un groviglio arboreo perché il mio inconscio inizi gridare terrorizzato. Quelle luci vengono mutate in un faro verdastro e tagliuzzato dai tronchi. Sono una serie di raggi spettrali che giocano col buio, invece di dissiparlo, per farne risaltare i più orribili contorni.

Vi siete mai sorpresi, camminando lungo una via solitaria, nel sentirvi guardati da angolazioni impossibili a indovinarsi? Intendo, come se un grande occhio perforasse il suolo su cui posate i piedi e il suo sguardo colpisse il vostro cuore nel tentativo di fermarlo. Siete mai rabbrividiti alla vista dei ciechi incavi degli alberi morenti? Ci sono cose che guardano malevole dalle stelle e cose che sogghignano nel profondo della nostra minuscola Terra. Gli umani sono certamente delle bestioline insignificanti che parassitano la superficie di un’altrettanto insignificante pietruzza spaziale, ma il male cosmico è così profondo da odiare anche ciò che non ha motivo di prendere in alcuna considerazione.

Ci sono momenti in cui gli uomini più sensibili non riescono a nascondersi queste verità, momenti che prevalentemente vengono stimolati da paesaggi molto tristi. Il paesaggio più triste che io abbia mai visto era quello vicino a quella cascina avita che ho deciso di abbandonare per sempre e dalla quale spero di aver già convinto anche mio zio a fuggire.

Si tratta della più fredda e malinconica palude della Danimarca, se non dell’Europa stessa. Lo è in ogni momento dell’anno, ma in autunno si sprigiona tutta la sua forza diabolica. Gli alberi contorti, carichi di parassiti e malati in ogni modo, spogliatisi del fogliame dalle tinte smorte di cui si coprono nelle belle stagioni, mostrano le loro forme da incubo in tutto il loro fosco splendore. I rami artigliano il cielo e assumono angoli ermeticamente allusivi. I colori delle cortecce scrostate sono sempre troppo chiari o troppo scuri, come il terriccio umido che circonda gli acquitrini e gli stagni colmi di aride canne grigiastre. Il sottobosco è un misto di funghi pallidi e arbusti al limite della bruttura vegetale. Fugaci scosse di queste piante o increspature negli specchi d’acqua tradiscono talvolta la presenza di piccoli roditori o di bisce, la cui abbondanza si contrappone alla pressoché assenza di uccelli e al silenzio che ne consegue, rotto soltanto dai rumori istantanei e sinistri prodotti dalla vita più sgraziata e strisciante di questo pianeta. Salvo sporadici visite di rapaci che fanno risuonare gracchianti minacce al vento, la palude non udì mai i limpidi richiami dei volatili che abbelliscono tutte le aree in cui la natura si è proposta meglio di così. Questo luogo sarebbe stato terrorizzante anche senza i racconti popolari che lo volevano teatro di fenomeni insoliti e inquietanti. Nelle notti di tempesta, erano stati più volte avvistati tra gli alberi i fulmini globulari, nelle altre i fuochi di sant’elmo e quelli fatui danzare gli uni sugli altri. Fenomeni spiegabili, ma a loro modo molto ammalianti.

Meno spiegabili sono invece certe ricorrenti scoperte da parte dei pochi amanti del brivido che talvolta si recano in gruppo nei meandri di quel fitto groviglio. Anzitutto molti affermavano di aver trovato, anche più volte, tre grandi monoliti granitici che svetterebbero sottili dal sommo di una collinetta simile ai noti kurgan sepolcrali dei Vichinghi. Due di essi alti all’incirca tre metri e uno quattro. Questo sito archeologico sarebbe dovuto essere ben visibile anche a distanza, o via satellite, eppure nessuno riusciva mai a ritrovarlo o a dare indicazioni precise in merito alla sua collocazione geografica, affermando invariabilmente di esservi giunto vagando senza mèta. Anche se le testimonianze erano numerose e concordi, la Società Archeologica sospese le ricerche già alla terza chiamata, ritenendo che tali scoperte fossero illusioni di menti suggestionate o chiacchiere d’individui in malafede. Tali chiacchiere erano però corroborate dai continui ritrovamenti di piccoli arnesi in pietra o metallo che gli esploratori scovavano a ogni smottamento del terreno fangoso. Nulla di particolare, in verità, solo selci lavorate e abbozzi di terrecotte.

Ciò nonostante, le boscaglie che circondavano quell’area come una recinzione non davano strane impressioni e fummo quasi delusi nell’aggirarle con la vecchia utilitaria che mio zio ci aveva prestato. Egli ci aveva anche fornito un alloggio. Possedeva, infatti, le chiavi di una piccola capanna in legno, costruita da un suo amico falegname al limitare del bosco e poi abbandonata per paura delle presenze spettrali che affermava di avere avvertito nei paraggi.

La capanna era un monolocale con una sorta di bagno e un caminetto di pietra. Eccetto il camino e le pietre angolari, tutto era stato fatto in legno. Le assi erano consumate e sconnesse qua e là. Tutto scricchiolava, ma la temperatura in quei giorni era migliore del solito, malgrado la nuvolaglia che velava il Sole.

Appena fummo arrivati, Eric posò il suo bagaglio e prese la sua cartina. Le mappe indicavano la palude in modo assai sommario e nessuna descriveva con un minimo di chiarezza cosa contenesse. La nostra prima esplorazione fu comunque più che sufficiente a rendercene ragione.

Eravamo appena entrati e un senso di inquietudine ci aveva già travolti. L’atmosfera era pervasa da uno stuolo di oscuri presagi e ci sentivamo osservati da ogni angolazione. Le forme delle piante non erano soltanto orrendamente allusive, bensì palesemente minacciose. Molte volte ci parve che da un tronco marcio emergesse un abbozzo di mano umana, tesa verso di noi. Non c’era vento, né ve ne percepimmo mai un alito. Eppure talvolta ne udivamo il suono e scorgevamo qualche movimento dei rami più alti. L’odore di acqua stagnante dominava sugli altri, più inquietante che sgradevole. Ma l’evento fondamentale di quella prima visita fu certamente il ritrovamento di un oggetto che individuammo sotto alcune foglie secche. Era una pietra vagamente squadrata, di circa venti centimetri per lato, in ossidiana. Recava incisi dei glifi troppo cancellati per essere distinti con chiarezza. L’unico simbolo intelligibile rappresentava un insieme di linee spezzate e cerchi concentrici. Il senso dell’immagine ci sfuggiva completamente, ma Eric si disse certo che l’oggetto fosse un reperto archeologico antichissimo e non facilmente riconducibile alle popolazioni nordiche stanziate un tempo in quelle regioni.

Nei due giorni successivi, il mio amico mi dette molto da pensare. Aveva portato il reperto nella capanna e lo esaminava frequentemente. Andava e veniva in macchina dalla fatiscente biblioteca di un curioso borgo medievale che aveva scovato sulla mappa, vicino alla nostra zona, e ne traeva voluminosi testi antiquari o copie di pergamene tremendamente antiche. Passava ore a sfogliarli e tradurli. Durante i pasti si metteva spesso a parlare di antichi culti proibiti e usanze raccapriccianti. Diceva che dietro alle figure di alcuni tra gli déi più controversi della mitologia si celassero realtà spaventose. Vedeva una correlazione tra entità favolose di ogni epoca e territorio: Dioniso in Grecia, Mórrígan in Irlanda, Ankoù in Bretagna, Vanth in Italia centrale, Apopi in Egitto, Asmodai in Iran, El Tío in Bolivia, Xolotl in Messico, i draghi in tutto il mondo e i deva indiani Śiva, Kālī e Chinnamastā. Divinità ctonie e caotiche, ma non meno inquietanti di alcune tra quelle civilizzatrici, come il pesce antropomorfo Oannes che fu venerato tanto in Mesopotamia, quanto in Egitto e nel Mali, dove era descritto come un saggio viandante anfibio venuto da Sirio. Fece molte congetture sui rettili senzienti, i nāga, venerati in India, in Indocina, in Indonesia e in Australia. Congetture che confluivano nell’ipotesi sconcertante che Nagapura, la loro città sommersa, fosse stata una realtà storica e che le sue rovine sommerse dovevano essere ancora in piedi. I suoi abitanti sarebbero stati, a suo avviso, i custodi di una conoscenza proibita dalle autorità umane di ogni era, una conoscenza capace di scatenare poteri colossali e devastanti sulla superficie della Terra.

Ancora oggi, non so cosa avesse esattamente intravisto, ma prima di raggiungere la follia farneticò molte cose che preferisco non ripetere intorno al mito di Agarthi, il regno cavo che si aprirebbe sotto i picchi dell’Himalaya, laddove vennero celebrati i riti della più arcana stregoneria. Fece anche oscuri accenni al perduto continente di Mu, alle rovine subacquee rivenute a Yonaguni, alle imperscrutabili torri preistoriche che svettano sugli altipiani tibetani, ad Atlantide, a Thule, alla Uamh-Binn, alle città sepolte descritte dai pellirossa, e a quelle immense scomparse dell’Africa subsahariana. Non saprei dire sulla base di quale improbabile collegamento mettesse in fila le narrazioni di fatti così distanti e diversi. Il tempo che non passava su quei libri lo passava nella palude, vagando come un’anima in pena. Non tardai a credere che avesse dei problemi personali e che li stesse focalizzando sui misteri di quel luogo.

Purtroppo compresi che stava davvero impazzendo solo il giorno in cui dovevamo rientrare. Io stavo preparando le borse sul letto della capanna e lui mi si sedette accanto, fissandomi intensamente. Interruppi il mio lavoro e stavo per esortarlo a compiere il suo, quando lui iniziò a parlare con un tono assolutamente nuovo. Era un miscuglio di solennità e tristezza, come se stesse per annunciarmi una tragedia. “Ieri” disse “ho appoggiato l’orecchio presso un foro nero sul tronco di un abete moribondo. Dapprima ho udito solo il brulichio degli insetti e il lieve palpitare delle loro larve, ma sullo sfondo di questi rumori c’era un lieve suono flautato che sembrava avvicinarsi. Infine, è esplosa nella mia testa una voce nel mezzo di una cacofonia di zufoli e cembali medievali. Era una voce assurda e non diceva nulla di comprensibile!” Questa affermazione, gettata lì senza preavviso, mi fece rabbrividire. “Eric, io vorrei andarmene.” dissi semplicemente. “Non capisci?” disse lui, iniziando ad assumere un’aria spiritata “Cresce e si rafforza grazie al tempo che la gente ci passa dentro. I più si spaventano e hanno la tua reazione: se ne vanno. Se invece io rimanessi là, se riprendessi da dove ho lasciato e proseguissi. C’è chi dice di aver visto cose pazzesche! Io voglio quella conoscenza, perché siamo davanti al più grande segreto del mondo. Dovrei visitare ancora l’acquitrino a nord-est. L’energia che ho elargito alle pseudopiante non è ancora sfiorita, posso sentirlo.” disse più a se stesso che a me. “Un’altra volta…” tentai, convinto di non poter più utilizzare alcun argomento razionale fintantoché fossimo rimasti lì. Lui non rispose, si alzò con un sospiro e uscì sulla stretta veranda, scendendone gli scalini.

Ipotizzai che volesse fare un’ultima passeggiata e lo lasciai in pace. Evidentemente non si sentiva bene e cominciavo a credere che stesse incorrendo in un esaurimento nervoso. Un quarto d’ora dopo, uscii per dirgli che avevo messo via tutte le mie cose e che, se voleva, potevo lasciargli campo libero in casa, ma lui era svanito insieme al misterioso artefatto di pietra i cui segni lo avevano portato agli studi precipitosi degli ultimi due giorni. Ricordo che solo allora mi resi conto che eravamo lì da così poco tempo e che tutto quel materiale mitologico doveva stare fermentando nella testa del mio amico da molto tempo per causargli un tale mindstorming.

Dopo averlo chiamato a lungo e inutilmente, decisi di provarmi a seguirlo tra le torbiere. Appena giunsi al limitare dei tronchi e delle sterpaglie che ne coprivano i piedi, avvertii nuovamente sulla pelle quella sensazione di gelo che avevo provato sin dalla prima volta che vi ero passato. Questa volta, tuttavia, era più intensa e accompagnata da un senso di malaugurio. Mi ricordai dell’ultima oscura allusione a un certo acquitrino a nord-est e mi mossi in quella direzione. I rami degli alberi divennero gradatamente sempre più contorti, le cortecce secche, crepate e piene di bestioline minuscole semivisibili. Il fetore della acqua stagnante iniziò a pungermi le narici e il mio pensiero si fissò su quelle strane forme d’edera che trovavo tanto fastidiose. La prima zona che raggiunsi fu una radura di erba corta e rada.

Svettava lì un grande tronco di quercia. Doveva essere morto da tempo, ma si ergeva ancora robusto sulle sue massicce fondamenta. Torreggiava sulla stretta radura ombrosa con i suoi alti rami spogli. Era forse stato ucciso da un fulmine, poiché, come molti altri alberi alti della zona, presentava un ampio squarcio nel mezzo, i cui bordi erano vagamente anneriti. Era però passato davvero molto tempo da allora e nell’incavo, laddove il midollo era andato totalmente decomposto, restava uno spazio aperto e colmo di piante rampicanti decisamente vive e floride. Alcune di esse, in quel periodo del tardo autunno, ancora mettevano piccoli fiorellini bianchi, come cristalli di purezza nel mare della desolazione. I rampicanti si erano nutriti della morte del colosso che li aveva preceduti in quella posizione e ne avevano rinnovato stranamente la bellezza, ammantandosi della sua pelle ingrigita e ornandone i rami di nuova fragranza. la vita nella morte, la vita che scoppia fuori dalla morte… la vita della morte? L’associazione tra questi due opposti danzava sregolata tra i concetti della mia mente.

Mossi pochi passi verso quell’arca di un passato che straripava di un esuberante presente. Il sole vi gettava ombre imprecise, oscillanti nella nebbia. Fui colmato da un senso di riverenza e sacralità oscura che mi suggeriva di inginocchiarmi davanti alla visione della complessa potenza naturale. Compresi il motivo per cui i seguaci di Dioniso avevano venerato l’edera che anche qui cresceva sui tronchi congelati. Un pugno di lucciole gettavano scintille iridescenti in quell’incavo palpitante di una criptica presenza. Il loro volo era presago di un futuro tremendamente carico di significati, ma non potevo soffermarmi troppo su questi pensieri: un uomo, un mio amico, si era smarrito nella palude e dovevo ritrovarlo il prima possibile.

Distolsi lo sguardo da quell’oggetto così assurdamente incollocabile: non vivo, non morto, non albero e chissà che diamine! Ma quella cosa non voleva che me ne andassi e i ramoscelli delle piante che vi erano cresciute dentro fremettero improvvisamente per riottenere la mia spaurita attenzione, smettendo appena li guardai. Un’ansia e un’angoscia dominanti iniziarono a gonfiarsi in me, magnetizzando i miei sensi sull’incavo del tronco, laddove la fessura si stringeva fino a svanire vicino alla base. Di colpo mi venne in mente l’immagine di Eric che ascoltava attentamente i sussurri, di cui aveva poi blaterato, dal foro di un albero simile. Allora un desiderio insano di conoscenza misto a un senso di straniamento dal mio corpo e dai rischi che correva, mi indusse lentamente a portare l’orecchio vicino alle macchie muscose e alle ombre che orlavano quell’apertura nel legno antico.

Ascoltai intento… Dapprima non udii nulla, poi un fruscio iniziò a mandarmi qualche parvenza di suono, divenendo lentamente sempre più intenso. Il crescendo era lentissimo ed ebbi l’impressione che fosse la mia stessa vicinanza a nutrirlo dell’energia necessaria a una completa manifestazione, per la quale si caricò in un angosciante minuto di sibili insensati. Alla fine nel mio cervello irruppe una cacofonia di strumenti a fiato di ignota fattura che sembrava descrivere un’indicibile malvagità. All’apice di quelle sconvolgenti dissonanze, udii una voce chiara, profonda e intensa. Era tanto umana quanto bestiale, ma anche qualcos’altro, qualcosa di esterno al nostro mondo… Le sue non erano parole, bensì i fonemi di un orribile rito, più antico della più antica formula magica che il migliore antropologo abbia mai potuto udire tra i popoli che meglio hanno conservato le loro tradizioni ancestrali nel corso dei millenni. Non sembrava affatto pensato per le corde vocali dell’uomo, infatti dubito che potrei mai ripeterlo nemmeno volendolo. Il tono era insieme solenne, minaccioso, irrisorio e dissennato. L’ho trascritto in seguito, così come mi sembrava meglio intendibile, ma le lettere create per esprimere un linguaggio umano non possono renderlo bene: “Yä! Var-Shub-Niggurath! Yhe gwartha Nug-Soth k’renfghall!” Ebbi allora la visione di grotteschi aggregati di tenebra che colavano palpitanti da stelle nere, spandendosi nelle profondità dell’universo e venendo a gocciolare nei mari primitivi della terra, prima che vi apparisse una qualsiasi forma di vita autoctona. Quelle forme instabili e senza costrutto vennero cantando una cacofonia di sillabe da incubo.

Per un attimo ne fui certo, chiusi gli occhi, mi alzai e mi accorsi che la pianta stava nuovamente fremendo. Dal tronco emersero una decina di corvi che mi fecero urlare di spavento mentre volavano via in direzioni diverse. Allora presi a correre via, tra gli alberi del bosco, sbattendo un paio di volte contro di essi. Fuggivo come da un branco di lupi invisibili e ne sentivo il fiato sul collo!

La mia corsa si arrestò nel bel mezzo di un piccolo stagno gelido, dal quale mi trassi fuori faticosamente. Mentre mi sforzavo di rimettermi in piedi e osservavo quanto fango nero si fosse incollato ai miei stivali, mi chiesi perché mai avessi provato quella gran voglia di fuggire. C’era forse qualcosa che realmente era intento a inseguirmi? Sentendomi afferrare alle spalle, per un attimo temetti di dovermi rispondere affermativamente. Per fortuna, di trattava dello scomparso. Evidentemente Eric mi aveva visto correre e si era accodato, ma il suo viso fu forse più spaventosa della vista di un mostro emerso dai fossi. Sembrava invecchiato di dieci anni! I capelli arruffati, gli occhi sbarrati, la pelle sbiancata, la sporcizia sui vestiti e una vaga presenza di rughe mai notate prima mi fecero dubitare dell’identità del mio amico.

“L’hai udito anche tu?” mi domandò subito lui, con lo sguardo che saettava tra le ombre malvagie di quella sera che gravava orribilmente sulla palude. Il mio amico era impazzito e, col favore di quella coorte della corruzione biologica, mi stava frantumando i nervi.

“Di cosa stai parlando?” gli chiesi, dissimulando la paura e lo sconforto che mi stava trasmettendo.

“Non mentire, Søren!” proruppe lui, rialzandosi in piedi improvvisamente per allontanarsi da me di qualche passo. “So cosa pensi, so quali strategie la tua logica sta mettendo in piedi per sopravvivere. Purtroppo per te, la vita non ha senso e Lui te lo dimostrerà.”

“Eric, qui ci siamo solo noi.” dissi, cercando di farlo ragionare, ma era chiaro che ormai il mio amico vedeva proprio nella ragione che difendevo il suo bersaglio polemico.

“Smettila! Non capisci? L’intelligenza che tu stimi tanto non è altro che una psicosi particolarmente sofisticata che l’inconscio ha sviluppato per difenderci. Una strategia vincente, in termini evolutivi, per orientare l’azione della scimmia glabra verso la sopravvivenza. Grazie a simili escamotage è sopravvissuta finora, riempiendo ogni angolo del globo delle proprie vanterie. Ah, ma Loro presto riassesteranno il mondo. Quelli come Lui, intendo… Contro i Grandi Antichi le nostre psicosi, i nostri attaccamenti folli alle prospettive apprese nell’infanzia, i nostri accomodamenti psicofisici e, in una parola, le nostre fedi non serviranno a niente. No, Søren, non mi inganni nemmeno facendo lo spaesato, perché dietro quella maschera di ammutolita ignoranza che ostenti si cela un uomo che ha appena udito qualcosa che lo ha scosso e non mi riferisco certo a ciò che ho detto io!”

A questo accenno, non potei sopprimere un brivido gelido che salì lungo la mia schiena come un serpente velenoso: avevo ancora stampati a fuoco nella memoria uditiva i torbidi suoni emessi da quello stranissimo foro nella quercia secolare. Il mio amico se ne accorse e si sentì confermato, assumendo un’aria completamente fanatica.

“Il Dio che sussurra sotto la corteccia degli alberi appestati dai funghi, che scruta nascosto nel cavo dei tronchi marci, che brontola in fondo ai pozzi melmosi, che muggisce sommesso da sotto il suolo ghiacciato della taiga, che trasuda dal sottobosco e che si attacca ai tuoi pensieri come un’edera velenosa! Io L’ho cercato e Lui mi ha trovato, perché fossi iniziato ai suoi sacri misteri. Mentre scivolava, informe e scorporato, tra le danze dei fuochi fatui, mi ha insegnato a distruggere l’idolo della ragione con le sue stesse armi. Ora stringo la verità e so che la ragione è vana. Tu non vuoi credermi pazzo più di quanto lo voglia io stesso, ma ormai la nostra mente non sa più che illusioni creare per nascondersi la verità del male.”

“Parli coi dogmi delle credenze più malate che siano mai esistite!” gli dissi in tono di moderato rimprovero, cercando di non pensare al timbro innaturale della sua voce. “Una ragione critica conosce i suoi limiti e non tenta di oltrepassarli, lasciando sempre aperte tutte le strade del mondo. Furono parole tue, ricordi?”

“Follia, come è follia il tuo tentativo di negare quello che sta accadendo. Io l’ho visto in sogno, si agita nelle viscere della terra… L’ombra goffa e storpia della desolazione, il Senza Nome che attende! L’antichità permanente che giace nel fango.”

“Si può sapere di cosa stai parlando?”

“Oh, sì… Chiunque può saperlo, se impara a non annebbiare il suo cervello e se si trova in un posto che è rimasto simile a se stesso per molti millenni. Hai idea di quanto sia antico questo posto? Questa palude c’era, quando i nāga di Valusia pensavano di poter conquistare il pianeta! Quegli sciocchi accademici con cui ho convissuto finora non capiscono il senso dello xóanon e dell’acrolito, l’arcaica immagine cultuale della divinità greca. Allora gli déi che sognavano gli uomini somigliavano di più a quelli autentici: figure abbozzate, grottesche e polimorfe.”

Ero inchiodato, il suo tono mi toglieva la forza di controbattere. Aveva ripreso a dire cose che non riuscivo assolutamente a ricollegare alla nostra situazione.

“Sai come veniva rappresentato Ermes, il dio del mistero e dei messaggi segreti? Con un’erma! Ma noi siamo abituati a vedere l’erma come pilastro squadrato sormontato da una testa scolpita, una cosa ben ordinata e adatta a celebrare gli uomini famosi. Prima, però, quella testa era bifronte o quadrifronte! Se ti spingi oltre l’epoca arcaica, scoprirai che all’inizio non c’era nessuna testa sulla pietra, bensì un Lingam identico a quelli di Śiva. Era un betilo abitato da qualcosa che pulsava nella pietra…”

Un fulmine improvviso squarciò la volta celeste e fece strabuzzare gli occhi a quello che ormai si era rivelato nulla più di un infermo.

“La pietra!” proruppe. “Dove l’hai messa?”

“Non l’ho presa io, credevo che l’avessi tu.”

“No…” sussurrò. Con quest’ultimo monosillabo soffocato, mi volse le spalle e fuggì via.

Io tentai di corrergli dietro, ma lo persi in un attimo nel folto delle sterpaglie. Da questo momento del racconto, ammetto di non poter più distinguere quello che fu sogno da quello che fu realtà; troppo reale l’uno e troppo onirica l’altra.

Camminai a lungo, del tutto a casaccio, finché non trovai un altro albero dotato di incavo. Era alto e sottile, la corteccia nera corrosa dai vermi. Non potei mai capire a che specie appartenesse. Aveva un’apertura rotonda nel fusto. Lo guardai attentamente, guardai il suo ergersi anomalo dalla liquida putredine che lo circondava, su un lembo di terra spoglia. Mi avvicinai e osservai la chioma, era piena di rigonfiamenti e stratificazioni nel legno tali da darle forme quantomeno bizzarre. Forme che ricordavano un assemblaggio grottesco e casuale di membra umane, cucite assieme nel più macabro intreccio. Stillava copiosamente resina scura che scendeva lenta sulla corteccia, come fosse sangue rappreso. L’allusività oscena di quel che vedevo e il pensiero di quel che avevo appena udito, mi fecero forse impazzire. I rami di quell’albero sopra la mia testa mi facevano pensare a una Cappella Sistina di cadaveri.

Pensai che, tutto sommato, gli storici e gli archeologi moderni si erano macchiati delle stesse colpe contro le quali i loro predecessori avevano lottato centinaia di anni or sono: i dogmatismi. Troia era solo un mito, così come Micene, Cnosso, Babilonia, Urim, Angkor e tutte le altre! Non erano state tutte trovate? I miti ingigantiscono, ma raramente mentono. Molta gente non vuole credere finché non tocca con mano e noi avevamo toccato con mano un’antichità precedente a ogni antichità nota. C’è stato un mondo che noi credemmo preistorico e che non lo fu affatto. Popoli svaniti, non sempre umanoidi, hanno scritto e costruito templi grandiosi molto prima che nascesse Gilgameš. I primi popoli dell’Indo lo sapevano! I più oscuri e frammentari miti asiatici contengono più verità storiche di qualsiasi manuale studiato nei licei odierni. Agarthi è lì, sotto il Tibet, che aspetta solo di essere dissepolta per chiudere la bocca ai critici. Ma non importa che la cerchi o meno un qualche archeologo particolarmente intuitivo e spregiudicato! No… Agarthi è abbastanza viva da disseppellirsi da sola e lo farà, quando le stelle saranno al posto giusto. Ritornerà insieme a Thule e insieme a R’lyeh. Ci sono cose che esistono da troppo tempo per scomparire secondo le regole del tempo a cui l’uomo s’è abituato.

“Dimmi subito dov’è Eric!” gridai, avvicinando la bocca all’incavo.

La chioma fremette, pur in assenza di vento. I rami si piegarono, scricchiolando all’unisono, in direzione Sud e tornarono subito al loro posto. Mi mossi meccanicamente secondo quella strana indicazione. Dopo pochi metri, udii uno scoppio distante, come un fulmine a ciel sereno, commisto a quella che mi parve una risata diabolica. Il fulmine era balenato nell’imbrunire del cielo, sebbene non vi fosse nemmeno una nuvola. Notai che nel punto dov’era caduto si scorgeva tra gli alberi una piccola altura. La raggiunsi rapidamente e la scalai rapito da un turbine di idee che non mi permettono oggi di ricordarla bene.

Quando, gettandomi fuori dall’intrico, giunsi presso la cima, mi trovai in un’altra piccola radura. In mezzo al prato vidi un corpo umano steso a terra. Era il corpo di Eric ed era pieno di ustioni. L’odore bruciante della carne arrostita dal fulmine mi fece quasi svenire. Le sue mani erano avvinghiate a un oggetto che riconobbi con orrore. Era l’artefatto che era corso a cercare, la cui pietra ancestrale aveva ora preso a luccicare innaturalmente. Dalle fenditure delle sue linee geometriche esalava un lucore verdastro di aspetto inspiegabile. Non era un gas luminoso, ma piuttosto una sorta di luce vaporizzata. So che questo termine è fisicamente assurdo, come quasi tutto in questa mia storia, ma non trovo metafora migliore.

Ancor meno saprei motivare razionalmente la convinzione che ebbi della presenza di una traccia umana in quel vapore che saliva al cielo in lente spirali. Una presenza umana a me nota… Guardai allora quel cielo da cui era giunto il fulmine e, per un attimo, mi parve che le stelle stessero ruotando visibilmente. Chinai il capo e mi allontanai verso il centro della radura. Mi appoggiai all’ammasso roccioso centrale e pregai che tutto finisse in un brusco e salvifico risveglio nel mio letto, sul continente.

Ero ancora sconvolto per la morte incredibile del mio amico, quando mi accorsi delle pietre. Erano sempre state lì, accanto a me, in quella dannata radura. Non le avevo notate per via di quel leggero rialzo del terreno che rispetto alla mia posizione le poneva un poco più in alto, come su un piedistallo. Dal momento in cui ero uscito precipitosamente dall’orlo del bosco, avevo fissato solamente ciò che si trovava sul prato e solo per un confuso istante avevo spinto gli occhi verso l’alto. Ora le vedevo alla luce triste della sera, si profilavano altere come sentinelle poste a guardia del sommo mistero, una troneggiante per la sua particolare altezza. Malgrado fosse tutto chiazzato di fango, il rialzo sulle quali si trovavano era a sua volta di pietra, forse basalto chiaro. Non era per nulla lavorato, anche perché sembrava un unico blocco.

Avvinto da un istinto del quale avrei dovuto sospettare, iniziai a camminargli attorno come un sonnambulo. Fu quasi senza sorpresa che trovai l’apertura di una grotta pressappoco cilindrica sotto il monolite maggiore, sul lato opposto a quello nel quale si trovava il cadavere. Era stretta, circa un metro e mezzo di diametro, e profondissima. Le ultime luci della sera la colpivano in pieno, ma non rendevano visibile il fondo. Si notava solo che il condotto scendeva ripido verso le viscere della terra.

Quali furono i miei pensieri in quel momento mi pare adesso impossibile a dirsi con sicurezza. Ricordo una rabbia crescente, la voglia di vendicare un amico. Pensare che allora dubitavo ancora delle sue parole! Io credevo razionalmente che in quel posto vi fosse molto di suggestivo e nulla di sovrannaturale. Era piccolissima la parte di me che invece si era lasciata trascinare dall’immaginazione. Tuttavia, appena notai che al fondo dell’oscurità del cunicolo si intravvedeva una debole luce tremolante, fu quella parte a prendere il sopravvento.

Avrei dovuto riflettere, prima di penetrare nei cunicoli tenebrosi che si snodavano da sotto le pietre dell’epoca precambriana. I miei studi avrebbero potuto avvisarmi. Il Ka indiano, il Phanēs greco… L’Assoluto innominabile, indefinibile e inimmaginabile che sta dietro a tutto. Il caos superatomico celato nei versi dei più antichi manoscritti vedici dietro al termine Prajāpati, l’essere che Parmenide aveva forse profilato nelle sue visioni più spinte. Cosa permette a ciò che è e che non è, relativamente o assolutamente, di coesistere su uno stesso tessuto spaziale? Quella cosa che si cela dietro a ogni distinzione, a ogni individuazione e differenziazione. Quella cosa che i bramini, i gimnosofisti e i magi persiani si ostinarono a credere benigna contro ogni evidenza.

Eppure è così chiaro che solo un’entità sommamente malvagia poteva proiettarsi in una sequenza di vibrazioni ontogenetiche capaci di dispiegarsi nella creazione di un universo così terrificante com’è quello in cui viviamo. I mali sono le fondamenta del mondo e il mondo è l’insieme disarmonico delle ombre gettate dalla presenza di un Dio pazzo che coincide col male puro. Perché, infatti, un Dio buono provocherebbe l’esistenza di una gabbia di illusioni in cui la coscienza umana si disperde e soffre ogni dolore? Se poi è vero che l’uomo, nel suo intimo, converge nell’Assoluto, come può questo Assoluto essere meno che folle e insensato? Ora, ogni notte, sogno quello che vidi quella sera maledetta. Una minuta personificazione di quel Dio cieco che divora se stesso, che muore costantemente e che brancola stupidamente. L’entità che si agita nel buio e che si nasconde a se stessa senza mai poter svanire, senza mai cessare di gridare fonemi insensati coi quali produce e fa collassare le galassie al solo scopo di distrarsi dalla tortura della propria esistenza. Ah, lo stridio delle sfere celesti che gli uomini hanno ridicolmente chiamato armonia cosmica!

Quella sera maledetta, ormai prossima alla notte, io vidi l’abitante dimenticato di quella malsana palude, strisciando impazzito com’ero nel budello fangoso dove ha preso residenza prima che qualsiasi altra vita si muovesse nel sistema solare.

Quella stretta apertura sotto i monoliti scendeva inizialmente dritta, successivamente a spirale fino a immettere i suoi infelici visitatori in una grotta antidiluviana, dal cui umido suolo poroso emergevano vapori in spire gialle e avvolgenti che ricordavano serpenti del deserto. Lo vidi oltre le fosforescenti fantasmagorie di una vegetazione contorta e malata, gonfie escrescenze pallide che emergevano tra miceti pallidi, coperte di rampicanti lunghi, sottili e privi di foglie. Quelle cose emergevano dagli anfratti e dalle crepe nella roccia scura, partendo da ogni direzione e allungandosi verso ogni opposta. Piovevano dalla volta, carica di stalattiti gocciolanti, e si sollevavano storte dal suolo che le alimentava con secrezioni che mi nauseavano.

Quando la terra era giovane, quei vegetali misero anche dei fiori la cui vista e il cui odore avrebbero fatto impazzire un uomo, ma per mia fortuna non fiorivano più da eoni e l’umanità si estinguerà molto prima della loro prossima fioritura. Avevano sempre convissuto, se di vita si può parlare, con un padrone terrificante quanto loro. In quel santuario dell’orrore mi sembrava di aver messo piede sulle soglie dell’infinito. L’antichità delle sue polle verdastre adombrava le forme striscianti germinate dai brodi primordiali, al termine dell’Adeano. Gli angoscianti rumori che intrasentivo oltre le massicce pareti calcaree e l’acredine sulfurea che mi saturava le narici mi suggerivano una sensazione di profondità abissale, come se a pochi metri da me si aprissero baratri su mondi persino peggiori di quello in cui mi andavo avventurando incautamente.

Considerando l’effetto che mi fece la vista dell’abitatore di quella grotta, l’aspetto di coloro che potevano essere i custodi dei territori inferiori mi avrebbe certamente ucciso. Eppure costui non doveva nemmeno essere stato esattamente solo… Oltre al perpetuo acciottolio e all’intuizione di fiumi melmosi che scorrevano lenti negli angusti canali dei regni infernali, dove una vitalità latente freme dall’alba dei tempi, si udiva il monotono ritmo di un tamburo sommesso, nascosto chissà dove. Nel profondo di quell’incubo, oltre l’intrico della non-morte sotterranea, l’abominio sta in agguato da sempre.

Quando vidi quel corpo alto, magro e nero, dotato di quattro lunghi arti dalle articolazioni troppo numerose e anormali per una biosfera terrestre, ciò che più mi stordì fu il modo in cui si muoveva. Sembrava un orologio puntato su un rateo temporale non lineare. Procedeva a scatti, come un meccanismo diabolico, obbedendo a una necessità cosmica imperscrutabile. Intuii che compiva da millenni gli stessi movimenti, scandendo lo sviluppo di processi misteriosi. Egli stava lì da sempre, chinando regolarmente il tondo globo bulboso che gli faceva da testa, scrutando senza occhi una macabra collezione di vasi canopi sparsi sul macigno sudicio che gli fu collocato davanti da servitori alieni resi folli dalla sua influenza interstellare, mentre la Terra era afflitta da eruzioni vulcaniche di tale portata da impedire qualsiasi realizzazione sulla sua superficie. Quel megalite piatto era stato realizzato in una pietra blu scura inesistente in questo sistema solare e presentava simboli inesplicabili, come un altare mostruoso, le cui curve e i cui angoli toccavano le sinapsi con strani parallelismi e ispiravano pensieri di morte e perversione.

I vasi rappresentavano animali mai visti dall’uomo ed erano realizzati in argilla rossa con una tecnica a me ignota. Quale tecnica avrebbe reso così efficacemente quei contorni che sembravano dissolversi tra le ombre? Quando li vidi, mi parvero spaventosamente antichi, ma la presenza di un paio d’esemplari lignei mi suggerì con ulteriore orrore che, talvolta, qualcuno venisse a sostituire quelle che si rompevano. Oppure che il logorio del tempo per quegli oggetti funzionava in modo anomalo, come per il dipinto in soffitta.

I lunghi arti del mostro si affaccendavano continuamente su quelle cose dannate. Talvolta ne artigliava uno per aprirlo e travasarne i contenuti secchi e indefiniti in un altro, più spesso si limitava a spostarne uno da un punto all’altro del megalite. Quei movimenti rapidi e macchinosi si conciliavano oscuramente col ritmo iperboreo del tamburo nascosto, secondo un ordine eterno e immutabile. La creatura esercitava un forte magnetismo su di me. Il suo lavoro gli impediva di reagire alla mia presenza, ammesso che l’avesse notata. Forse era stato proprio lui a chiamarmi fin laggiù con le sue apparizioni nella palude, ma a quel punto sembrava avere perso ogni interesse nei miei riguardi. Il magnetismo che mi ispirava era come una sorta di richiamo al suicidio, al sottile masochismo radicato in ognuno di noi dal giorno in cui la nostra crescita ci strappa all’incosciente serenità del mondo intrauterino.

Provai addirittura una sorta di insoddisfazione, nel non essere notato da quel sovrano della penombra perpetua. La consapevolezza di un simile desiderio, quando affiorò improvvisamente nel mio pensiero, mi fece più male del male che avevo davanti agli occhi. Fu essa a provocare il mio svenimento, insieme a quella che mi parve una cupa e disumana risata che esplose in quel momento dalle più dense profondità del sottosuolo, soffocando il suono dei tamburi. Insieme alla risata, insieme ai tamburi, giunse infine la lamentosa preghiera di una voce che non veniva dalla carne di animali noti, né da uno strumento i cui suoni possano propagarsi nell’atmosfera terrestre. Come, mi chiedo ancora… Come ho potuto udire per ben due volte quelle sillabe selvagge di una selvatichezza interstellare trasportate da ignote onde mentali e rimanere in vita?

Yä! Var-Shub-Niggurath! Yhe gwartha Nug-Soth k’renfghall!”

Rinvenni fuori dalla grotta e lontano dalle pietre che ne sormontano l’ingresso. Non so chi o cosa mi ci abbia trascinato, ma presumo che il mio inconscio abbia continuato ad agire in mia difesa anche dopo che l’ego aveva abbandonato la partita, muovendo i miei arti irrigiditi verso la salvezza. Fuori da quel budello che era solo l’accenno a incubi ben più vasti e più somiglianti a quell’orrore supremo che si dimena al centro dell’Iperspazio, portando a compimento la malignità particolare di ogni universo, mi sentii sfinito e distrutto. Avevo perso tanto l’energia muscolare quanto quella cerebrale. La notte plumbea e gelida stava sopraggiungendo e cacciava via gli ultimi rimasugli di luce dalle periferie del suo impero, ornandosi di campi stellari. Avevo imparato a temere le presenze che si annidano tra alcuni di quei gioielli celesti. Provai a sollevarmi, ma non mi fu possibile. Ero inchiodato all’umido disfacimento delle foglie secche e al contatto con ciò che poteva strisciare tra esse. Strisciai io stesso… A caso e senza uno scopo preciso. Forse me lo imponeva il timore di essere, ancora una volta, inseguito.

Avanzai solo di cinque o sei metri e mi accorsi di essere ora circondato da quattro alberi mostruosamente contorti che si levavano su di me come le dita di una gigantesca mano morta e rinsecchita. Tra i loro corpi neri inspirai nuovamente la putredine palustre e vidi sorgere una grande luna piena, pallida e beffarda. Irradiava un lucore spettrale che rendeva ancora più forte l’impressione che le piante fossero dita giganti sul punto di chiudersi sul mio corpo. Funghi multicolori spiccavano sui loro tronchi e sul terreno già impestato da muschi e licheni. A distanza sentii qualcosa cadere nell’acqua viscida di qualche stagno saturo di mucillaggine, fatto che fu salutato dai gorgheggi di qualche piccolo anfibio. Altri fruscii mi annunciarono che sempre più numerose schiere piccole bestiole si muovevano intorno a me, celate dal buio. Un vento glaciale soffiò agitando le cime spoglie delle piante, ma vicino al suolo non ne sentii il morso pungente. La palude offriva un riparo da quel vento, benché fosse la più brutta palude del mondo. Anche in quella parodia di un bosco e anche se resi perversi dall’incantesimo del loro strano padrone, gli alberi creavano un senso di calore laddove si impiantavano nel suolo. Concentrandomi su quella strana sensazione, mi addormentai.

Sognai paesaggi equorei e giungle primordiali, dove si ersero le ciclopiche mura di città scomparse, o non del tutto scomparse, forgiate da creature troppo diverse dagli uomini per essere descritte o, ancorché viste in modo diretto, ricordate distintamente.

Il giorno dopo mi ritrovai indenne, seppure dolorante, su quello stesso terreno. Non seppi né allora, né mai ritornare alle pietre e alla grotta. Del resto non feci certamente molti tentativi in tal senso.

Raccontai tutto a pochi increduli e mi rifugiai nell’isolamento in cui sono rimasto fino a oggi. Ormai la compagnia degli esseri umani mi urta, così grossolana e confusa com’è. Ci sono volte in cui vorrei andarmene solo in mezzo ai pantani alle soglie dell’inverno, lungo i contorni vibranti di un’alba nebbiosa. Addentrarmi nelle cupezze che si svolgono fittamente, salendo dalle argille e superando le spire voluttuose dei vegetali che opprimono i laghetti luccicanti, spiovendo sulle loro rive. Tra tronchi gonfi di muschi e coperti d’edera, tra cortecce marcescenti e distese fungine, si è acquattato un frammento di me stesso. Se ne sta straiato sul perennemente tiepido suolo, laddove la vita cammina lungo i propri incerti confini.

Chi appoggiasse al momento opportuno l’orecchio su quell’umida eternità ascolterebbe le pulsazioni delle molecole e capirebbe che essi sono sussurri di impensabile malvagità. Erano come il sordo scricchiolio della neve che viene lentamente schiacciata da uno stivale in gomma, premuta sul suolo in uno strato di gelo aderente. Anche ora, dove la morte alimenta la vita, si alzano vapori semitrasparenti. Tutto risuona di un lavoro microscopico e incessante, tutto è sottilmente e inesorabilmente animato. Una forma scivola nelle altre, talvolta si unisce o si separa da esse in modo imprevedibile, ma c’è sempre un movimento, ci sono sempre il dolore e la bellezza. La differenza tra i vivi e i morti sta nel gioco di somiglianze con cui i vivi sanno sognarsi unici e permanenti. Io somiglio a ciò che ero ieri, ma che già più non sono. Ciò che sono richiama quindi ciò che ero, almeno finché permane un grado di somiglianza mistificabile in un corrispondente legame simpatetico. Vuoti idealismi… Poiché tutte le cose che si trovano nell’universo sono legate, l’ego tenderebbe a straripare e a voler vedere tutto il mondo come parte di se stesso.

Uno scheletro è troppo poco simile a un uomo per essere chiamato con i nomi che egli ebbe in vita, ma a cosa somiglia uno scheletro e cosa condivide con ciò a cui somiglia? La scimmia glabra non lo scoprì e ora si crede la padrona del mondo.

Intanto ci sono delle tremule luci che si alzano da tutti gli specchi d’acqua e che vi danzano sopra, lentissime. Esse si alzano da molto tempo prima che apparissero gli uomini e con la loro scomparsa non si poseranno. Che possono gli uomini? Che possono, se non strisciare nei fanghi che circondano queste acque amare di immemorabile sacralità? Possono, sì… Possono pretendere di bagnarvisi e di morirne, perché l’incontro col sacro è sempre un incontro letale.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.